L’affermazione della supremazia romana nel Mediterraneo, ha in qualche modo “ucciso” le culture preesistenti?
Il dibattito nasce da un saggio, “L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo” del Prof. Lucio Russo, fisico, matematico e storico della scienza.
Le opere del Prof. Russo, che è stato anche titolare della cattedra di calcolo delle probabilità presso l’Università di Roma Tor Vergata, godono di notevole attenzione, anche all’estero, per il loro carattere assolutamente rivoluzionario e il netto contrasto con le teorie comunemente accettate.
“L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo”, tratta soprattutto di geografia e di matematica applicata alla geografia. Come gli altri libri di Russo, sostiene delle tesi provocatorie e di notevole impatto che non si limitano a contestare la teoria tradizionale che esclude o comunque minimizza la capacità dell’Umanità di affrontare lunghi viaggi oceanici in epoche prerinascimentali, ma affrontano un argomento di ben più ampio respiro.
Infatti, la teoria sostenuta dal prof. Russo nel saggio in questione, è che negli anni 146/145 A.C., con la distruzione di Cartagine e di Corinto e la definitiva affermazione della supremazia romana, si sarebbe verificato un vero e proprio tracollo culturale, venendosi ad interrompere bruscamente uno straordinario sviluppo plurisecolare.
Si sarebbe quindi determinata una gravissima perdita di conoscenze e di strumenti intellettuali in settori quali matematica, filosofia, astronomia e soprattutto la geografia, dove la perdita di nozioni già acquisite, avrebbe impedito per oltre 1.600 anni l’ulteriore esplorazione del pianeta.
Inoltre, Roma, recuperando solo alcuni elementi delle civiltà distrutte, peraltro in forma alterata e lasciando poche tracce di quanto non era stata in grado di assimilare, avrebbe generato una ingannevole impressione di continuità, in realtà inesistente, mentre, al contrario, nel tempo si sarebbe anche persa la capacità di interpretare in modo corretto i principi enunciati dai grandi filosofi e scienziati ellenistici.
In particolare, il tracollo culturale sarebbe dipeso da un lato dalla distruzione della biblioteca di Cartagine e comunque dal sistematico azzeramento di qualunque traccia della cultura punica a seguito della totale distruzione della città. Dall’altro, dalla profonda crisi in cui il mondo greco venne a sprofondare a seguito della conquista romana, divenendo presto incapace di raggiungere come in passato le vette del pensiero umano.
Il saggio del Prof. Russo è diviso in due parti, una dedicata ai viaggi transoceanici dell’Antichità, l’altro al grave errore commesso da Claudio Tolomeo nella sua opera “Geografia”.
La più antica è riportata nel VI Libro delle Storie, dove Erodoto narra che durante il regno del faraone Nekao II (610-594 A.C.), il sovrano egizio organizzò una spedizione navale fenicia che, partendo dall’Egitto, avrebbe dovuto compiere la circumnavigazione dell’Africa, partendo dal Mar Rosso.
I Fenici impiegarono circa 2 anni per il viaggio e fecero ritorno dopo aver doppiato le Colonne d’Ercole. Strano a dirsi, la veridicità della loro impresa è assicurata da un particolare che, al contrario, secondo Erodoto avrebbe dovuto sancirne l’inaffidabilità.
Infatti, nel resoconto, i Fenici riportarono che a un certo punto della loro navigazione “Si erano trovati il sole sulla destra.” Erodoto, come tutti coloro che vivono al di sopra dell’Equatore, era abituato a vedere il sole a sinistra, a sud. Non poteva quindi sapere che, superando l’Equatore il sole appare a destra, a nord e il fenomeno si accentua avvicinandosi al Capo di Buona Speranza, una volta superato il Tropico del Capricorno. Obiettivamente, non si comprende come i Fenici abbiano potuto immaginare un fenomeno del genere, senza averlo concretamente visto.
Un altro grande viaggio dell’antichità descritto nel libro del Prof. Russo è quello compiuto dal Cartaginese Annone intorno al 450 A.C.. Il navigatore avrebbe comandato una grande spedizione navale che conduceva dei coloni a ripopolare sette città fondate dai Cartaginesi sulla costa atlantica del Marocco ma in realtà si sarebbe spinto molto più a sud, esplorando gran parte della costa dell’Africa Occidentale, fino alle isole al largo della Guinea Equatoriale ex Spagnola.
Il resoconto del suo viaggio è noto attraverso una traduzione greca dell’originale scritto in lingua punica menzionato da Arriano nella Anabasi di Alessandro e riportato in vari codici medievali, tra cui il Codex Palatinus 398. In particolare Annone riferì di avere incontrati degli individui pelosi che chiamò gorilla e riportò a Cartagine le pelli di tre donne selvagge di quella specie. È per questo motivo che intorno alla metà del XIX secolo, quando il naturalista americano Savage studiò per la prima volta le più grandi scimmie antropomorfe, le chiamò Troglodites Gorilla.
Ambito e situazioni diverse caratterizzano il viaggio compiuto dal greco Pitea nell’Atlantico Settentrionale intorno al 330 A.C.. L’impresa è descritta nel trattato “Sull’Oceano”, andato perduto ma di cui compaiono ampi stralci nelle opere di autori successivi. Anche in questo caso, la veridicità del suo racconto, viene assicurata da alcuni particolari che secondo Polibio e Strabone ne provavano la falsità.
Infatti Pitea, originario di Massalia attuale Marsiglia, dopo aver raggiunto la Britannia, le isole a nord della Scozia, le isole Faroer e l’Islanda, giunse in un isola che chiamò Thule, dove, in base al suo racconto, la notte durava pochissimo e il mare era congelato. Descrive dunque il sole di mezzanotte che appare a chi supera il circolo polare artico e la banchisa polare.
Si tratta di fenomeni oggi ben noti, ma all’epoca inimmaginabili, salvo per chi vi avesse assistito di persona. Occorre dire che circa 2 secoli prima di Pitea, come riferito da Plinio il Vecchio in Naturalis Historia, il cartaginese Imilcone aveva già raggiunto la Britannia, fondando numerosi empori per il commercio dello stagno.
L’identificazione di Thule è stata a lungo controversa. Il Prof. Russo, come meglio vedremo in seguito, sostiene che fosse la Groenlandia. In effetti, a dimostrazione della possibilità di simili viaggi in epoche precolombiane, nei secoli successivi l’isola venne abitualmente raggiunta dai Vichinghi, che vi fondarono delle colonie, abbandonate solo all’epoca della piccola glaciazione agli inizi del XV secolo. L’isola dal 1126 al 1377 fu anche sede di un vescovado.
L’altro aspetto trattato dal prof. Russo nel suo saggio, è invece l’enorme arretramento nel campo della geografia matematica verificatosi nei pochi secoli che separano le opere dei grandi geografi ellenistici, come Eratostene di Cirene e Ipparco di Nicea, alla stesura della “Geografia” da parte di Claudio Tolomeo, con il clamoroso errore che appare nel titolo del libro del Prof. Russo e cominciamo con il descrivere i protagonisti di questa vicenda.
Eratostene di Cirene, nato intorno al 275 A.C., può essere definito il pioniere della geografia matematica. Illustre matematico e direttore della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, inaugurò l’uso sistematico di latitudine e longitudine per individuare le località e calcolò il diametro della Terra con eccezionale precisione, con un errore inferiore all’1% rispetto alla misura attestata dai geografi moderni.
Ipparco di Nicea, nato intorno al 190 A.C., è stato un eccezionale astronomo, autore del più antico catalogo delle stelle visibili a occhio nudo, scopritore della processione degli equinozi e, probabilmente, inventore dell’astrolabio e del primo sistema per calcolare in modo affidabile le eclissi solari e lunari, oltre che capace di stimare con precisione la distanza tra la Terra e la Luna .
In campo geografico ha teorizzato, grazie allo studio delle maree, l’esistenza di un altro continente in mezzo all’Atlantico tra Europa e Asia. Inoltre Ipparco ha calcolato la latitudine e la longitudine di due località situate ai confini del mondo conosciuto, rispettivamente ad occidente e a settentrione. Si tratta delle isole Fortunate, situate ad ovest e caratterizzate dal clima dolce, la vegetazione lussureggiante e il terreno fertile al punto da fornire alimenti commestibili senza bisogno di essere coltivato e dell’isola di Thule situata all’estremo nord.
Arriviamo così a Claudio Tolomeo, nato intorno al 100 D.C., quindi 2 secoli e mezzo dopo la data del supposto tracollo culturale. Redige importanti opere in campo astronomico come “Almagesto”, che fissa i principi del cosiddetto “Sistema Tolemaico” oltre a includere un aggiornamento del catalogo stellare di Ipparco, in campo fisico come “Ottica”e in campo storico come “Canone”.
L’opera di Claudio Tolomeo che ci interessa ai fini del presente articolo è “Geografia”, quella che, per l’appunto” contiene l’errore indicato nel titolo del saggio del Prof. Russo. “Geografia” è suddiviso in 8 libri che includono le coordinate di 6.345 località e 27 mappe di tutto il mondo abitato.
Purtroppo, l’opera di Tolomeo è afflitta da un errore che ha comportato il restringimento delle reali misure della superficie terrestre. Eratostene aveva calcolato con accuratezza la lunghezza del meridiano terrestre e questa misurazione era stata accettata da Ipparco. Purtroppo Tolomeo si discostò da questa misurazione molto attendibile e fece sua quella formulata dall’immediato predecessore Marino di Tiro, altro cartografo di origine greca, vissuto al tempo di Traiano, che aveva assegnato a un grado di meridiano la lunghezza di 500 stadi, anziché i 700 postulati da Eratostene.
Inoltre, al fine di mantenere l’ampiezza angolare totale del mondo entro i 180 gradi postulati dai suoi predecessori, Tolomeo alterò sistematicamente le longitudini tra le diverse località con un fattore di dilatazione pari a 1,428. Ciò comportò un restringimento della superficie terrestre di circa il 29%, che risulta evidente dall’esame delle mappe ricavate dalla sua opera.
Ma qual’è il motivo dell’errore commesso da Tolomeo, visto che aveva a disposizione fonti più accurate di quelle che ha finito per utilizzare? Nel suo libro il Prof. Russo parte da una considerazione. Tolomeo, come Marino, era sì di formazione ellenistica ma nei tre secoli trascorsi da quando Ipparco aveva redatto le sue opere, si era persa la memoria dei grandi viaggi marittimi e delle località raggiunte tramite essi.
A questo punto entrano in gioco le isole Fortunate di cui parlava Ipparco. Di esse per primi avevano scritto Esiodo in “Le opere e i giorni” e Pindaro in “Olimpica”. In seguito, se ne occuparono anche Diodoro Siculo in “Bibliotheca historica” e Plutarco in “Vita di Sertorio” Entrambi, nel confermarne i pregi riportati da Ipparco, asserirono che si sarebbe trattato di un antico possedimento cartaginese situato nell’Oceano, a molti giorni di navigazione dalle Colonne d’Ercole.
Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia” identifica le Isole Fortunate con le Isole Canarie, la località conosciuta situata più ad occidente, anche se le condizioni climatiche e ambientali delle stesse non erano certo quelle idilliache vantate dalle fonti più antiche.
Tale ipotesi venne condivisa da Claudio Tolomeo, che fece passare da quelle che riteneva fossero le isole Fortunate e quindi dalle Canarie il meridiano di riferimento, mentre collocò al parallelo di Thule l’estremo limite settentrionale. Dalle sue fonti, Tolomeo sapeva che le Isole Fortunate si trovavano sul semi meridiano opposto a quello su cui era situata la capitale della Cina, ma si rese conto che le misure della Terra postulate da Eratostene cozzavano contro tale collocazione. Di conseguenza decise di basarsi nella sua opera sulle misure di postulate da Marino di Tiro. Ecco dunque spiegato l’errore che restringendo la Terra rese possibile l’identificazione delle isole Canarie con le isole Fortunate, anche attraverso le coordinate geografiche.
Ma allora quali erano le isole Fortunate di cui parlava Ipparco? La tesi del Prof. Russo è che correggendo l’errore di Tolomeo sul fattore di dilatazione e di conseguenza spostando verso ovest la longitudine di quelle che il geografo riteneva fossero le isole Fortunate, si trova un arcipelago posto alla stessa latitudine delle Canarie, che per forma ed estensione è coerente con quanto riporta Tolomeo, ma le cui condizioni climatiche sono simili a quelle di cui parlavano Diodoro Siculo e Plutarco, ovvero le Piccole Antille.
Raggiunte dai Cartaginesi, che peraltro tenevano segrete le loro rotte marittime, di esse si sarebbe persa la memoria dopo la distruzione di Cartagine, anche se di tanto in tanto, in epoca romana, avrebbero continuato ad essere raggiunte da navi isolate ma non più da flotte organizzate.
Procedendo allo stesso modo, il Prof. Russo applica lo stesso tipo di correzione all’isola di Thule, per come era stata collocata da Tolomeo e spostandone verso ovest la longitudine, trova che la stessa viene a coincidere con la costa orientale della Groenlandia. Viene così provata, da un punto di vista quantitativo, la validità delle opere dei geografi più antichi e la veridicità delle imprese marinaresche greche e cartaginesi.
Il Prof. Russo porta poi alcuni indizi a supporto della sua tesi, come la presenza di mosaici, affreschi e statue di età romana con evidenti raffigurazioni di ananas, o la presenza di gallinacei nelle Americhe o ancora il ritrovamento di statuette munite di ruote in antiche tombe, quando la ruota era sconosciuta ai popoli mesoamericani.
E’ giusto riconoscere che i Romani hanno primeggiato nell’oratoria ma non nella filosofia, che l’arte romana ha tratto molto più che l’ispirazione da quella greca, che Giulio Cesare affidò ad un astronomo di estrazione culturale greca, Sosigene di Alessandria, il compito di preparare la riforma che nel 45 A.C. diede origine al calendario giuliano.
Allo stesso modo, è pure necessario ammettere che solo a metà del 1500, Copernico ha rispolverato la teoria eliocentrica elaborata da Aristarco di Samo nel III secolo A.C., mentre per 1.400 anni l’astronomia europea e islamica si è basata sul concetto dell’immobilità della Terra al centro dell’Universo, fissato nel II secolo D.C. in piena epoca romana sempre da Claudio Tolomeo nel trattato “Almagesto”.
Fatta questa opportuna precisazione, sono assolutamente convinto della veridicità delle imprese marinare di cui parla il Prof. Russo, come pure della possibilità che le Antille, così come ormai provato per l’isola di Terranova da parte dei Vichinghi, siano state raggiunte navigando da oriente verso occidente in epoca precolombiana.
Tuttavia, mi sento al contempo di affermare che le indubbie scoperte scientifiche antecedenti all’avvento della supremazia romana, sono state pressoché dimenticate nei secoli successivi perché da esse non erano scaturite quelle applicazioni pratiche che ne avrebbero garantito il perdurare.
Al contrario, il carattere estremamente pratico della mentalità romana ha portato ad esaltare quelle attività che erano funzionali alla grandezza di Roma, vedi le colossali opere ingegneristiche e l’ancora oggi insuperato modello organizzativo e amministrativo che ha consentito a Roma di plasmare a sua immagine quasi l’intero mondo conosciuto, assimilando al contempo quanto ritenuto utile delle altre culture.
Allo stesso modo, se da un lato è indubbio che Roma non abbia mai promosso le grandi esplorazioni marittime di cui sono stati protagonisti Fenici, Greci e Cartaginesi, dall’altro, credo che sorga spontanea una domanda. Il viaggio di Annone è stato effettuato quando la potenza di Cartagine era al suo apice e probabilmente lo stesso vale per gli altri viaggi verso località transatlantiche.
Perché dunque non hanno dato origine ad un fiorire di colonie, perché non hanno determinato il nascere di città come avvenuto in Africa del Nord, Spagna, Sicilia, Sardegna. Ricordiamo che la stessa Cartagine nacque come colonia fondata dai Fenici di Tiro e, pur non essendo in origine la più importante, seppe ben presto superare la Madre Patria.
La ragione, a mio modesto avviso, è stata duplice. Da un canto il fatto che i viaggi transoceanici seppur possibili erano comunque più pericolosi e impegnativi di quelli mediterranei. Dall’altro che non vi era una pressione demografica ne una motivazione economica che giustificasse il maggior rischio. Lo stesso fatto che i Cartaginesi siano riusciti a tenere segrete le rotte dei loro viaggi transoceanici è un indizio dello scarso interesse dei nemici. La storia ci ha insegnato che un segreto non riesce a rimanere tale a lungo se racchiude una conoscenza importante.
Quanto ai Romani, non me ne voglia il Prof. Russo, non sono d’accordo con il suo minimizzare le esplorazioni subsahariane compiute da Roma in epoca imperiale.
La più importante missione alla scoperta di terre sconosciute svolta in epoca romana, è stata quella compiuta da due centurioni per ordine di Nerone in Africa Centrale, alla ricerca delle sorgenti del Nilo e che stando alle descrizioni contenute nelle opere di Seneca e di Plinio, si sarebbe arrestata davanti alle cascate di Murchison in Uganda. Teniamo presente che soltanto nel XIX secolo, con l’esplorazione compiuta da Speck e Burton gli europei hanno raggiunto le sorgenti del Nilo.
Ma non sono da trascurare nemmeno le esplorazioni svolte in epoca augustea fino al fiume Niger e al lago Ciad. Ovviamente, si è sempre trattato di spedizioni terrestri, in cui l’esplorazione era finalizzata a possibili acquisizioni territoriali, in armonia con la mentalità pratica dei Romani, non abituati a fare niente per niente.
Tra l’altro visto che, con l’esclusione di Ipparco, nessuno ipotizzava l’esistenza di un continente nuovo al di là delle Colonne d’Ercole, che motivo avrebbero mai avuto i Romani di cercare una rotta transatlantica per raggiungere l’Oriente, quando i relativi prodotti giungevano regolarmente a Roma per via terra e soprattutto, per via mare.
Infatti era pienamente operativo il canale che collegava il Nilo al Mar Rosso, svolgendo egregiamente la funzione che tre millenni dopo sarebbe stata svolta dal canale di Suez. Il canale, secondo un iscrizione nel tempio di Karnak era stato scavato per volere di Seti I il padre del grande Ramses II, anche se Aristotele, Strabone e Plinio il Vecchio, ne retrodatavano la realizzazione al faraone Sesostri III.
Ma chiunque sia stato il primo ad ordinarne lo scavo, è certo che era stato oggetto di lavori da parte del faraone Necho II, di Dario I di Persia, di Tolomeo II Filadelfo e infine di Traiano, che lo aveva fatto ampliare e migliorare notevolmente al punto che da allora il canale prese il suo nome. In effetti, fin dalla conquista dell’Egitto ad opera di Augusto, il canale divenne l’arteria principale del commercio romano, sottoposto a costanti opere di manutenzione e sorvegliato da forze armate per tutto il suo percorso.
I traffici marittimi con l’India erano quindi fiorenti e secondo Strabone superarono enormemente quelli esistenti in epoca tolemaica. Erano favoriti dall’uso dei monsoni ai fini della navigazione che consentivano un viaggio oceanico più sicuro e veloce rispetto a quello costiero, e numerosi empori romani vennero realizzati lungo le coste dell’India Meridionale.
Una vivida testimonianza di questa attività commerciale ci viene dato dal “Periplo del Mare Eritreo” accurata descrizione di porti siti sul Golfo Persico e sul Oceano Indiano e delle rotte da percorrere per raggiungerli, oltre che di prodotti commercializzati.
Probabilmente scritto nel corso del primo secolo D.C. da un commerciante di origine egizia, si compone di 66 sezioni e attribuisce a Ippalo, navigatore greco del I secolo, la scoperta della rotta oceanica tra Mar Rosso e India che, come detto, fu essenziale per lo sviluppo dei traffici.
Altra dimostrazione della capacità dei sudditi dell’Impero Romano di compiere lunghi viaggi purché con scopi commerciali ci viene data da quanto descritto da Claudio Tolomeo in merito al porto di Kattigara. Infatti, il geografo sostenne di avere avuto notizia di questa località, a suo avviso era il punto più ad oriente dell’Oceano Indiano, direttamente da un marinaio greco di nome Alessandro, che lo aveva raggiunto di persona.
Oggi diversi studiosi ritengono che Kattigara coincida con il porto di Oc Eo in Vietnam, basandosi sul ritrovamento di manufatti romani nella zona e sulla descrizione di Tolomeo dal quale sembrerebbe che Kattigara fosse localizzata all’interno del Delta del Mekong, nel versante interno del golfo del Siam. Ma le coordinate geografiche indicate da Tolomeo non coincidono, collocandosi in pieno Oceano. Sarebbe interessante applicare il metodo seguito dal Prof. Russo per le isole Fortunate e vedere se si riesce a fornire una possibile soluzione all’enigma.
A questo punto la mia personale opinione è che la data del 146 a.C. con la distruzione di Cartagine e Corinto non segni l’avvio di un tracollo culturale, ma un mutamento di indirizzo verso obiettivi diversi dello studio e della conoscenza umana, in quanto i risultati scientifici conseguiti nei secoli precedenti erano frutto di una mentalità speculativa, non in grado di dare risultati concreti nell’immediato.
Il vero tracollo culturale si è verificato secoli dopo, con la decadenza e la caduta dell’Impero Romano.