La peste antonina. La grande epidemia dell’Impero Romano

La peste antonina è una epidemia, probabilmente di vaiolo, che si diffuse nell’impero romano fra gli anni 160 – 180 d.C. Si trattò di una catastrofe di proporzioni mondiali: nell’arco di poco meno di 30 anni, morirono dalle 50 alle 70 milioni di persone e l’impero romano ebbe delle catastrofiche conseguenze sotto l’aspetto demografico, produttivo e militare.

Le origini dell’epidemia

Alcune fonti del tempo, narrano di una malattia grave e contagiosa, sviluppatasi in Cina, che si propagò rapidamente mietendo migliaia di vittime.

Il paese orientale, soprattutto nel periodo storico di riferimento, era un mondo estremamente lontano dalle regioni abitate dell’Impero Romano. Ma a fungere da via di collegamento con l’Europa vi fu la Via della Seta, un percorso di oltre 7000km trafficato dai viandanti e commercianti di tutto il mondo.

La peste Antonina ebbe origine dalla Cina e raggiunse l’Europa attraverso la Via della Seta

Quella che era una straordinaria via di comunicazione e di trasporto delle merci, si trasformò così in un binario di diffusione del morbo, che raggiunse in un tempo relativamente breve l’impero dei Parti (odierno Iraq, Iran), perennemente in guerra con i romani.

Il contatto tra i romani e il morbo si verificò in occasione di alcune campagne militari. In quel periodo, l’impero era guidato dall’imperatore Marco Aurelio e dal fratello Lucio Vero, che regnavano congiuntamente: quest’ultimo fu incaricato di guidare una grande guerra contro il nemico partico al comando di un grosso contingente di legionari. La svolta si ebbe nell’inverno tra il 165 e il 166 d.C.

I romani erano impegnati nell’assedio dell’antica città di Seleucia, a poca distanza dall’odierna Baghdad, Iraq. Dopo settimane di combattimenti, l’esercito romano riuscì ad espugnare la città, compiendo razzie e seminando devastazione per le strade.

E di questo momento esistono due leggende, tramandate dalle fonti: la prima riguarda lo stesso imperatore Lucio Vero, che durante il saccheggio avrebbe profanato una tomba alla ricerca di tesori, e che si sarebbe contagiato con il morbo asiatico entrando in contatto con la carne putrefatta.

La seconda parla invece di un semplice legionario romano che, impegnato a trafugare i tesori dorati del tempio di Apollo, avrebbe contratto per primo la malattia.

Tutti gli autori antichi concordano comunque nell’identificare l’assedio di Seleucia come l’inizio della diffusione dell’epidemia presso i romani.

Sintomi e segni e della malattia

Contemporaneo degli avvenimenti e testimone diretto, fu il famoso medico Galeno, che nel suo “Methodus medendi“, descrisse con notevole precisione le caratteristiche della malattia. Il sintomo principale era la febbre, che insorgeva quasi subito, accompagnata da un forte mal di gola, una infiammazione della faringe e una tosse secca, maleodorante e persistente.

Allo stesso tempo, i pazienti presentavano diarrea con sangue, sintomo di un sanguinamento interno dell’intestino. Dopo circa 9 giorni, insorgevano delle placche cutanee, a volte di un rosso vivo, altre volte più scure e squamose.

La malattia era fortemente debilitante e spossante: il suo decorso si attestava attorno alle 2 settimane, e la prognosi era grave. Tre quarti dei malati riusciva a guarire, sviluppando gli anticorpi e diventando immune ad un successivo contagio, mentre un quarto dei pazienti giungeva irrimediabilmente alla morte.

I medici romani, per quanto preparati e avanzati per i loro tempi, tanto da conoscere già sostanze antisettiche e saper eseguire operazioni chirurgiche, avevano solo dei blandi strumenti per il trattamento della malattia. L’esito finale, dipendeva in gran parte dalla resistenza del sistema immunitario del paziente.

La diffusione dell’epidemia per tutto l’impero

Il morbo si diffuse con notevole rapidità attraverso tutta l’Europa. Furono soprattutto i legionari romani di ritorno dalla spedizione partica a rappresentare il principale vettore di contagio. Il primo focolaio italico, venne identificato nel 166 d.C nella città di Aquilea, oggi in Friuli Venezia Giulia.

Da quella cittadina, il virus si sarebbe diffuso in tutta la penisola, raggiungendo Roma e colpendola con una forza inaudita: lo storico romano Dione Cassio, ci parla di 2000 morti al giorno nella sola capitale. Da lì, l’epidemia si sarebbe diffusa anche nelle Gallie e fino al confine settentrionale del fiume Reno, dove i legionari di stanza avrebbero contagiato a loro volta le popolazioni germaniche oltre confine.

La peste raggiunse Aquileia (Friuli), Roma e infine si diffuse nella Gallie e in Germania

L’epidemia ebbe una seconda ondata, circa 9 anni dopo, ancora peggiore della precedente. Le cronache parlano di strade disseminate di cadaveri, fino a 5000 morti al giorno a Roma, e scene di disperazione generalizzata.

Nel corso di circa 30 anni, la durata del fenomeno complessivo, la popolazione europea perse dai 50 ai 70 milioni di componenti: circa un quarto degli abitanti dell’impero, morirono.

Le conseguenze dell’epidemia sull’esercito

La primissima conseguenza dell’epidemia Antonina fu la decimazione dei soldati romani. Soprattutto sul fronte germanico settentrionale, la morte di gran parte dei legionari indebolì il sistema difensivo, permettendo alle tribù di intensificare, e con successo, le loro scorrerie all’interno del territorio dell’impero, un evento che non si verificava da circa 200 anni.

La reazione dell’allora imperatore Marco Aurelio fu quella di guidare personalmente le legioni per un lavoro di “recupero”. Per compensare le perdite, vennero arruolate tutte le persone minimamente in grado di combattere, fra cui anche ragazzini, poveri, schiavi e gladiatori.

Questo provocò una chiamata alla armi di emergenza che ebbe un effetto deprimente sul morale della popolazione dell’impero.

Nella confusione e depressione generale, si moltiplicarono i santoni e i maghi che predicavano oscure profezie e promettevano la guarigione o la protezione dal morbo dietro pagamento.

La definitiva soluzione, da un punto di vista militare, fu rappresentata dalle campagne contro i Quadi e i Marcomanni, vinte da Marco Aurelio al termine di estenuanti anni di guerra.

Le conseguenze sulla società

L’elevatissimo numero di morti, ebbe conseguenze devastanti anche sulla capacità produttiva. Nel giro di pochi anni morirono soprattutto agricoltori, braccianti, artigiani, piccoli imprenditori e funzionari. Il risultato si tradusse in un importante calo della capacità produttiva soprattutto nel settore alimentare.

Il cibo scarseggiò per anni, e il costo dei pochi alimenti ancora sul mercato aumentò vertiginosamente, impoverendo ulteriormente le famiglie dei sopravvissuti. Analoga situazione per tutto il settore manifatturiero e commerciale.

Non solo, la forte diminuzione di cittadini rappresentò anche un importante calo dei contribuenti, tanto da determinare un potente ammanco nelle tasse riscosse dall’Impero: lo stato romano si trovò quindi ad avere meno denaro per le enormi spese militari e di gestione, in un momento, al contrario, straordinariamente delicato.

La reazione dell’impero

L’impero romano subì un colpo devastante, ma allo stesso tempo dimostrò una enorme “resilienza”, ovvero una grande capacità di reazione di fronte all’imprevisto.

Il problema principale causato dal morbo era stata la grande contrazione della popolazione produttiva. Per cui, le soluzioni adottate dall’impero furono sostanzialmente due, una “esterna” e una “interna”.

La prima, “esterna”, fu quella di importare intere popolazioni entro i confini. Il principale bacino di uomini del tempo era rappresentato dalle tribù germaniche del nord, che vennero sistematicamente introdotte nell’impero.

Le autorità romane invitarono intere tribù offrendo l’occasione di lavorare e acquisire la cittadinanza romana. Ma in altri casi, l'”invito” non fu amichevole: intere popolazioni vennero deportate con l’intimidazione nei confini romani, per fornire una immediata forza lavoro.

I romani invitarono, in altri casi deportarono, intere tribù germaniche per rimpolpare la popolazione decimata dalla peste.

L’afflusso di nuovi popoli era fondamentale per recuperare produttività, e nel corso degli anni successivi, Roma rimpolpò le proprie terre con efficacia.

Ovviamente, l’inserimento di popoli venne controllato e sottoposto a regole stringenti: ogni immigrato veniva iscritto in appositi registri, doveva essere disarmato e, dopo alcuni aiuti iniziali, doveva trovare una rapida collocazione come soldato, agricoltore o artigiano.

La seconda soluzione, più “interna”, si basò sull’allentamento di regole sociali importanti: decine di migliaia di liberti e di schiavi vennero affrancati dalla loro condizione, e ottennero il permesso di ricoprire una serie di cariche funzionali e amministrative.

Si può parlare in questo caso di un efficace riutilizzo di una parte della popolazione interna all’impero per ricostituire il tessuto sociale.

Una prova superata?

Roma superò l’emergenza sanitaria dimostrando una grande efficienza e una notevole capacità di trovare soluzioni alternative.

Nonostante l’enorme numero di morti, le successive generazioni riuscirono a recuperare parte del tipico livello di benessere dell’impero, riavviando la macchina militare e produttiva.

Ma gli effetti dell’epidemia furono profondi e per certi versi irreversibili: l’imbarbarimento dell’esercito, la mancanza di un tessuto agricolo stabile oltre che una capacità militare ridotta, furono la principale eredità dell’epidemia Antonina, e allo stesso tempo, avvisaglie delle grandi dinamiche che porteranno alla caduta dell’impero.