La battaglia delle Forche Caudine, 321 a.C. I Sanniti umiliano i romani

La battaglia delle Forche Caudine è stata una disastrosa e umiliante sconfitta romana. Nel 321 a.C, durante la seconda guerra punica, i consoli Spurio Postumio Albino e Tito Veturio Calvino furono intrappolati in una valle dall’esercito sannita guidato da Gaio Ponzio.

I romani, per non essere massacrati, accettarono di arrendersi e di passare sotto il giogo dei Sanniti, tornando a Roma distrutti e sfiduciati.

Il contesto storico

La prima guerra sannitica si era conclusa nel 343 a.C. I Sanniti avevano chiesto la pace e si erano solennemente impegnati a mantenersi neutrali nelle continue guerre tra la Repubblica Romana e le popolazioni del Lazio.

Tuttavia nel 327 a.C. il conflitto riprese. I Sanniti, dopo cinque anni di guerra, furono nuovamente sconfitti e furono costretti a consegnare il loro generale, Brutolo Papio, con tutte le sue ricchezze personali. Papio, con un atto di orgoglio, decise di suicidarsi, piuttosto che cadere nelle mani dei romani.

Nonostante la completa resa dei Sanniti, Roma continuava però a rifiutarsi di integrarli nella società in qualità di Socii.

Nel 321 a.C. i romani avevano eletto come nuovi consoli Spurio Postumio Albino e Tito Viturio Calvino.

Nel frattempo, i Sanniti avevano scelto un nuovo condottiero, Gaio Ponzio, figlio di Erennio Ponzio.

Venuti a conoscenza della preparazione di una nuova offensiva, i romani inviarono i loro ambasciatori, che proposero delle nuove e più dure condizioni di resa.

Ma Gaio Ponzio pronunciò un infuocato discorso davanti al consiglio del suo popolo, invitando alla ripresa delle ostilità, il che condusse ad una nuova dichiarazione di guerra.

Gaio Ponzio utilizzò stavolta uno stratagemma. Venne a sapere infatti che l’esercito romano stava per assediare la città di Lucera, in Puglia, ed era sul punto di catturarla. Mandò quindi nella vicina città di Calatia, dove sapeva che erano accampati i romani, dieci soldati travestiti da pastori che fingevano di pascolare il bestiame.

Questi diffusero la falsa notizia che anche i Sanniti avrebbero presto marciato su Lucera, per liberarla dall’assedio dei romani. I romani caddero nella trappola e decisero di mandare il grosso del loro esercito per aiutare Lucera e cogliere i Sanniti in contropiede.

In questo modo, Gaio Ponzio aveva attirato l’esercito romano in un territorio altamente favorevole ad una imboscata.

I numeri degli eserciti

Circa il numero dei contingenti romani e sanniti abbiamo alcune descrizioni da parte delle fonti antiche. Dionigi di Alicarnasso dice che i romani contavano 40.000 combattenti, mentre Appiano arriva a 50.000 soldati.

Le stime moderne riducono invece questo numero: lo studioso Joel Rickard parla di 27.000 soldati. Questo conto è stato elaborato sulla base del fatto che una legione dell’epoca doveva avere circa 4.500 soldati e che ogni console aveva due legioni sotto il suo comando, alle quali si sarebbero aggiunte delle forze alleate.

Lo studioso Paolo Sommella, basandosi sulle stime di Johannes Kromaier, riduce ulteriormente il numero a 12.000 soldati. Amedeo Maiuri stima a 16.000 i romani impegnati mentre Gaetano De Sanctis stima tra i 18.000 e i 36.000.

Non abbiamo invece alcun dato sulle forze sannitiche.

Localizzazione della battaglia: l’ipotesi di Arienzo

Un altro elemento non ben conosciuto è il percorso delle legioni romane per portare aiuto alla città di Lucera e il luogo dello scontro.

Al tempo vi erano due strade per raggiungere quel centro abitato. La prima via era più lunga ma rappresentava un percorso più semplice, dato che seguiva semplicemente la costa del mare Adriatico, nonchè sicuro, perchè in aperta campagna.

La seconda via era ben più breve, ma il percorso era più accidentato e con maggiori incognite, dal momento che era caratterizzato da diverse valli, che spesso passavano tra stretti passi di montagna, circondati da profondi burroni e da colline boscose.

Circa il luogo effettivo della battaglia, sappiamo solo che era una pianura coperta d’erba dove passava una strada romana. Per arrivare in questo luogo bisognava attraversare una prima gola e poi avanzare in una seconda.

Non c’è accordo tra gli studiosi moderni su quanto siano affidabili queste descrizioni, che appartengono al solo Tito Livio, il quale scrive secoli dopo gli avvenimenti.

Non è escluso che si discostino dalla realtà per motivi letterari o propagandistici o per mancanza di informazioni e che la descrizione liviana sia in realtà uno stereotipo.

Secondo gli studi moderni il luogo più probabile dove avvenne lo scontro è la valle situata tra Arienzo, Forchia e Arpaia, dove passava la via Appia e che, essendo una valle circondata da montagne e con gole sia ad est che ad ovest, corrisponde perfettamente all’antica descrizione. 

Forse il campo di battaglia si estendeva fino a Santa Maria a Vico. Bisogna inoltre considerare che l’utilizzo del nome “Forca” è attestato dal IX secolo ed è simile al vocabolario romano “Forca”, usato per indicare l’ingresso orientale Arpaia e anche quello occidentale, Cervino.

Gli storici del diciottesimo e diciannovesimo secolo affermavano che esisteva una chiesa chiamata Santa Maria del Giogo, dove presumibilmente avvenne la sconfitta romana.

Un altro elemento a favore di questa localizzazione sono alcuni ruderi di origine medievale presenti sui monti Arpaia, che vennero identificati come un praesidium sannita, citato da Tito Livio.

Bisogna inoltre tenere conto che il cronista romano lascia intendere che la valle dell’imboscata fosse all’epoca disabitata, il che viene confermato dalle prove archeologiche.

Diversi storici hanno però messo in dubbio questa posizione trovando dei difetti in questa localizzazione. Il luogo ad esempio è privo di abbondanti fonti d’acqua e l’ingresso occidentale è troppo ampio, così come le colline, che sono troppo basse per impedire la fuga di un esercito romano.

I sostenitori di questa teoria rispondono che la topografia è cambiata nel corso di due millenni e ci sono prove convincenti che la valle fosse in realtà una zona paludosa.

Inoltre sembra che ci siano i resti di un acquedotto romano a Forchia. Ecco perché l’acquedotto, rilasciando dell’acqua sul lato ovest, avrebbe livellato il terreno e ampliato il passaggio.

Alcuni critici hanno risposto che questi cambiamenti sono troppo radicali per un popolo antico. Inoltre il territorio è considerato troppo piccolo per contenere ben quattro legioni romane.

Nonostante queste diverse interpretazioni, i comuni di Arpaia e Forchia si sono contesi per anni la localizzazione del luogo della battaglia, ma Forchia ha ottenuto il permesso dallo Stato italiano di rappresentare l’evento sul proprio stemma.

L’ipotesi della valle Caudina

Una seconda ipotesi sulla localizzazione della battaglia è la valle Caudina, che sarebbe stata identificata da alcuni studiosi a est dell’Arpaia, a nord del monte Taburno e a sud del monte Paternio.

La sua uscita occidentale era la gola di Sferracavallo. Questa tesi è stata supportata da diversi studiosi e, a differenza dell’opzione precedente, ha il vantaggio che questa valle era molto più grande, adatta a contenere un grande esercito. 

Bisogna però osservare vi sono delle uscite, che avrebbero permesso ai romani di fuggire, a differenza di quanto raccontato da Tito Livio. Inoltre, il passo dell’Arpaia è facile da superare e difficile da bloccare, e le altezze sembrano essere troppo basse per potervi installare una postazione di sorveglianza.

Alcuni studiosi osservano anche che l’ampiezza della valle avrebbe consentito un grande scontro campale, cosa che secondo le fonti romane non ebbe mai luogo. Alcuni ritengono che il luogo sarebbe corretto solo se fosse avvenuta una battaglia, altri ritengono che i romani avrebbero potuto facilmente inviare messaggi di aiuto a Capua.

Inoltre, secondo Appiano, Gaio Ponzio negoziò con i romani salendo su un carro, cosa non necessaria se l’esercito si fosse trovato nella valle.

L’ipotesi gola dell’Isclero

Un’altra ipotesi è quella che la battaglia si è avvenuta nella gola del fiume Isclero, che attraversa la valle da est a ovest fino a uscire nei pressi di Moiano, attraverso un burrone a nord dello stretto dell’Arpaia.

La gola si apre ad ovest su una zona montuosa, dove si trova Sant’Agata dei Goti. Il fiume prosegue il suo percorso fino a confluire nel Volturno. Questa zona venne identificata come luogo della battaglia dal geografo Filippo Cluverio, ma gli studiosi successivi lo hanno smentito.

Innanzitutto Cluverio non era conoscenza dell’esistenza della città di Calatia, che confuse con Caiazzo, e per questo motivo avrebbe interpretato erroneamente il passaggio della via Appia.

Va tenuto conto che nelle fonti antiche è frequente la confusione tra Calatia e Caiatia. Inoltre, fu scoperta una necropoli tra Sant’Agata e il monte Taburno, che permise di identificare la roccaforte sannitica di Saticula all’imbocco della gola.

Per questo motivo, si ritiene che le legioni non sarebbero mai passate di lì, soprattutto se nelle vicinanze ci fossero state delle vie più sicure e più brevi.

La gola non ha molta acqua a disposizione, all’interno manca dello spazio necessario per il transito di quattro legioni e difficilmente avrebbe potuto ospitare un accampamento romano.

Gli autori romani che transitarono sulla zona, come Orazio, non specificano se quello fosse stato o meno il luogo della battaglia.

L’ipotesi della Piana di Prata

Un’ultima ipotesi è quella della Piana di Prata. Si tratta di una pianura situata tra il monte Taburno a sud e Camposauro a nord, ricca di sorgenti e prati.

Nell’ottocento venne proposta questa teoria dal Maggiore Michele di Cerbo. Un volo sopra la zona lo portò a concludere che si trattasse il luogo della battaglia.

Entrambe le gole sono molto strette, anche se quella occidentale è talvolta considerata più stretta di quella orientale.

Lo scrittore Massimo Cavalluzzo e lo storico militare Flavio Russo sottolineano che i romani, sapendo che non avrebbero mai potuto evitare i sanniti nella loro marcia, decisero di seguire la via meno ovvia per raggiungere Lucera da Calazia, probabilmente Frasso Telesino.

La critica principale a questa teoria è che risulterebbe molto difficile per un esercito scalare le gole di Feriole e imboccare la strada più lunga.

I romani finiscono in trappola

La colonna romana attraversò la prima gola e marciarono nella pianura fino a raggiungere il secondo passo di montagna. I soldati la trovarono però bloccata da una barricata realizzata da tronchi e da grossi massi.

Dopodiché videro degli avamposti dei Sanniti.

I legionari compresero di essere finiti in una trappola e pensarono da subito di fare retromarcia, ma si accorsero che, nel frattempo, anche la gola attraverso la quale erano transitati era ormai bloccata.

I romani rimasero stupiti e storditi, guardandosi l’un l’altro senza parlare né muoversi, finché non videro i consoli dare l’ordine di piantare le tende.

I legionari iniziarono così a costruire un accampamento vicino ad una fonte d’acqua, senza attendere ordini.

Intanto i Sanniti cominciavano ad insultarli e a deridere l’inutilità del loro lavoro. Anche i consoli erano depressi e sconcertati, e per questo non avrebbero voluto convocare un consiglio di guerra, ma i loro ufficiali si riunirono comunque attorno a loro per decidere il da farsi.

Durante la notte, nacquero diverse proposte su come uscire da quella situazione. Alcuni incoraggiavano ad attaccare le barricate per distruggerle, altri suggerivano di scalare le montagne e di sconfiggere i nemici, ricordando che per trent’anni avevano costantemente battuto i Sanniti su ogni tipo di terreno. Altri risposero che una sortita era troppo rischiosa, perchè nessuno sapeva esattamente come scalare le montagne e dove si trovassero i loro nemici.

I messaggi di Erennio

Mentre i romani trascorrevano la notte in preda all’agitazione e alla confusione, i Sanniti mandarono dei messaggi ad Erennio, il padre di Gaio Ponzio, chiedendo consiglio. L’anziano aristocratico si era ormai allontanato dalla politica da molti anni, ma la sua mente era ancora lucida.

Sapeva bene che le legioni romane erano intrappolate tra i burroni delle forche caudine e quando il messaggero gli chiese un parere Erennio gli disse che avrebbero dovuto lasciar andare incolumi tutti i romani.

Il messaggero ritornò, riferendo il suggerimento di Erennio, ma Ponzio lo giudicò assurdo: l’inviato fu rimandato indietro, chiedendo una nuova risposta. Stavolta Erennio disse che la cosa migliore da fare era giustiziare tutti i romani.

Confusi da queste dichiarazioni contraddittorie, Gaio iniziò a credere che le capacità mentali di suo padre cominciassero a vacillare, ma cedette ai desideri dei suoi ufficiali e invitò l’anziano al Consiglio di Guerra. Il vecchio Erennio si  recò con un carro presso l’accampamento di suo figlio e, arrivato a destinazione, spiegò le sue risposte.

Egli riteneva che entrambe le sue proposte fossero l’unico vero modo di procedere contro i romani.

Il primo, infatti, avrebbe stabilito un’amicizia duratura con un popolo molto potente. La seconda avrebbe, invece, ritardato la guerra di diverse generazioni, poiché i romani avrebbero impiegato parecchio tempo per riprendersi dalla perdita di tutto il loro esercito. Non esisteva, secondo lui, una terza opzione.

Ma suo figlio e gli altri ufficiali proposero una via di mezzo: l’idea era quella di congedare i romani incolumi, ma solo dopo avergli inflitto una pesante umiliazione, come richiedeva la legge della guerra.

A questa proposta, Erennio rispose che questa era proprio la politica che non creava né amici né nemici. Ben presto si sarebbero resi conto dell’errore che facevano a lasciare in vita degli uomini umiliati così profondamente.

I romani sono una nazione che non è capace di restare in silenzio di fronte ad una sconfitta – spiegò Erennio – Le ferite nelle loro anime li irriteranno per sempre e non permetteranno loro di riposarsi finché non avranno avuto adeguata vendetta.”

Dopo questa dichiarazione, Erennio tornò a casa, senza che i Sanniti avessero preso una decisione definitiva.

Le trattative per la resa

Intanto nell’accampamento romano, dopo diversi tentativi andati a vuoto di uscire dalla trappola, iniziò a scarseggiare il cibo. Questo li costrinse ad inviare degli ambasciatori presso i Sanniti per richiedere un accordo di pace o per sfidarli in una battaglia. Gaio rispose che la guerra era finita, che erano già in trappola e sconfitti, e pretese la consegna delle armi e che passassero sotto il giogo, conservando solamente le loro tuniche.

La richiesta prevedeva anche di evacuare tutta la zona del Sannio e allontanare tutte le loro colonie dalla regione, che sarebbe stata retta esclusivamente dalle leggi dei Sanniti. Queste furono le condizioni presentate ai consoli romani: i Sanniti  avvertirono che se qualcuno le avesse rifiutate non ci sarebbero state successive proposte di pace.

Quando i soldati romani vennero a sapere delle condizioni di pace imposte, lanciarono un grido di angoscia. Seguì un lungo silenzio. I consoli non furono in grado di parlare di fronte ad una capitolazione tanto umiliante quanto necessaria.

Allora, il generale Lucio Lentulo ricordò agli ufficiali che quando i Galli Sènoni avevano assediato il Campidoglio, suo padre era stato l’unico a consigliare di non pagare alcun riscatto, dal momento che non tutte le forze romane si trovavano sul colle e vi era lo spazio per provare una sortita in grado di allontanare i Galli.

Se ci fosse stata la stessa possibilità avrebbe consigliato di combattere, ma dal momento che tutte le legioni di Roma erano intrappolate in quella situazione, se fossero state distrutte nessuno sarebbe stato in grado di difendere la città.

Roma sarebbe rimasta come un paese indifeso, a differenza di quanto accaduto al tempo dei Galli Senoni, dove vi erano ancora altri eserciti in grado di intervenire.

Se avessero dovuto salvare la patria attraverso una resa ignominiosa, sarebbe stato corretto farlo. Lentulo disse: “Il vero affetto per la nostra patria esige che la preserviamo, se necessario, sia con la nostra sventura che attraverso la nostra morte.” Poi disse ai consoli: “Andate consoli, consegnate le vostre armi in riscatto per quello Stato che i vostri antenati riscattarono con l’oro.”

I consoli si recarono quindi da Gaio, che insistette per la firma di un trattato scritto. I romani però si rifiutarono, in quanto la firma di un accordo ufficiale era possibile solamente con il permesso del popolo romano e dopo aver celebrato gli opportuni riti propiziatori. Gli ufficiali giurarono comunque su Giove di rispettare quanto convenuto.

I Sanniti chiesero la consegna di 600 cavalieri come ostaggi, dicendo che avrebbero pagato con la vita se l’accordo non fosse stato rispettato. Venne quindi fissato il momento della consegna delle armi: dopodichè l’esercito romano, disarmato, sarebbe stato fatto passare sotto il giogo.

Quando i consoli tornarono all’accampamento, riferendo queste condizioni, regnò nuovamente lo sconforto: alcuni soldati pensarono addirittura di attaccare i consoli, incolpandoli del disastro. I legionari si rammaricarono profondamente di non avere avuto delle guide che conoscessero il terreno.

I soldati guardavano con amarezza le armi e le armature che avrebbero dovuto consegnare, immaginando la futura umiliazione, gli occhi e lo scherno dei Sanniti. “I romani erano stati sconfitti senza ricevere una sola ferita”  scrive Tito Livio “senza usare una sola arma né combattere una sola battaglia, né gli era stato permesso di sguainare la spada o affrontare il nemico. Avevano quindi dimostrato coraggio e forza invano.”

L’umiliazione dei romani

Giunto il momento della vergogna, venne ordinato ai romani di abbandonare le armi e le armature e di presentarsi di fronte ai Sanniti con addosso solamente le tuniche, a cominciare dagli equites, che sarebbero serviti come ostaggi.

Anche i littori e i consoli in persona furono spogliati delle loro armature: i soldati romani distolsero lo sguardo, perchè non volevano essere costretti a guardare i loro consoli umiliarsi in questo modo.

Furono proprio i consoli i primi a passare sotto il giogo dei Sanniti. Venne poi la volta degli ufficiali e, uno dopo l’altro, dei legionari.

I Sanniti cominciarono a schernirli, a puntare contro di loro le spade e coloro che rispondevano ai loro insulti o che ricambiavano il loro sguardo con troppa arroganza, venivano feriti e addirittura giustiziati.

Tito Livio riferisce che la cosa più difficile per i legionari fu quella di sopportare gli sguardi dei loro nemici.

Dopo aver subito l’umiliazione, iniziarono la marcia come sconfitti e riuscirono a raggiungere la vicina città alleata di Capua, prima del calare della notte.

I soldati però non sapevano come sarebbero stati accolti dai loro alleati e provarono tanta vergogna nel presentarsi senza armature che si accamparono sul bordo della strada.

Inizialmente i capuani li accolsero con disprezzo, ma la loro situazione suscitò in loro tanta compassione da convincerli ad inviare armi, vestiario, cavalli e vettovaglia ai soldati. In questo modo, i legionari entrarono in città, accolti felicemente e con tutta l’ospitalità che meritavano come alleati, ma la vergogna dei soldati era tale che evitavano ogni conversazione e non riuscivano nemmeno a parlare.

La mattina successiva, alcuni giovani nobili furono incaricati di accompagnarli fino al confine della Campania, mentre i legionari osservavano un silenzio irreale, fino all’arrivo a Roma. 

Il ritorno a Roma

Al loro ritorno nella capitale, i comandanti si recarono in Senato per rispondere alle domande dei senatori più anziani, mentre i legionari entravano a testa bassa senza ricambiare i saluti.

Tito Livio riferisce che i Sanniti avevano ottenuto non solo una vittoria gloriosa ma anche duratura. Essi non avevano catturato Roma come avevano fatto i Galli prima di loro, ma avevano catturato il coraggio e la tenacia dei romani.

Mentre il Senato si lamentava, Ofilio Calavio, un nobile e vecchio senatore, cominciò a parlare: egli disse che non c’era che il silenzio di fronte ad una tale vergogna, ma che ben presto, superata l’onta, i romani avrebbero dovuto organizzare la vendetta. 

Pertanto quella vergogna avrebbe suscitato un ricordo più amaro per i Sanniti che per i romani: ogni volta che un romano avrebbe incontrato un Sannita avrebbe fatto ricorso al proprio coraggio e i Sanniti non avrebbero mai potuto ottenere un’altra forca caudina.

La città, senza nemmeno un ordine formale, si presentò in lutto, gli affari pubblici nel foro si interruppero, vennero chiusi i negozi e i senatori si spogliarono delle tuniche a righe porpora e dei loro anelli d’oro.

Il popolo era furioso, non solo con i comandanti che avevano accettato la capitolazione, ma anche con i soldati innocenti: dissero infatti che non li avrebbero voluti con loro in città, ma quando si presentarono con un aspetto così pietoso tutti provarono compassione per i loro concittadini.

I vinti entravano in città solamente di notte e per intere giornate non si facevano vedere, né nel foro né in alcun altro luogo pubblico.

Lo stesso fecero i consoli, tanto che il Senato fu costretto a privarli dei loro comandi. Venne quindi nominato il dittatore Quinto Fabio Ambusto, assieme al magister equitum, Publio Elio Peto, ma nemmeno loro furono in grado di tenere le elezioni, perché i cittadini erano furiosi con tutti i magistrati eletti quell’anno.

I senatori furono così costretti a proclamare un interregno e nominare Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo come reggenti, con il compito di ottenere una nuova nomina valida dei consoli.

Grazie alla loro intermediazione, vennero finalmente eletti come nuovi consoli i prestigiosi generali Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore.

Secondo Tito Livio, Roma ottenne delle rivincite nel 320 a.C. costringendo i Sanniti a concordare la pace, ma lo storico Salmon sostiene che si tratti di un’invenzione della storiografia romana successiva e la pace fu dovuta probabilmente ad una tregua, chiesta dai romani dopo la sconfitta delle forche caudine. 

Le ostilità ripresero comunque nel 316 a.C. quando i romani iniziarono a invaderere la Puglia, cosa che costrinse i Sanniti ad intervenire. Dionigi di Alicarnasso dice che i romani riuscirono a vendicarsi di Gaio Ponzio e, dopo aver ottenuto la vittoria, avrebbero costretto lui e i suoi seguaci a passare sotto il giogo.