Di Valerie M. Hope, The Open University
Traduzione e adattamento a cura di Fabio Saverio Gatto
Nel febbraio del 45 a.C., Cicerone visse uno dei momenti più dolorosi della sua vita: la morte della figlia Tullia. Questo lutto lo segnò profondamente, al punto da spingerlo a scrivere numerose lettere nelle settimane successive, molte delle quali indirizzate al suo amico Attico. Queste lettere, oggi preziose testimonianze storiche, ci offrono uno sguardo raro e toccante su come i Romani affrontassero il dolore della perdita.
Ciò che colpisce maggiormente è che a raccontare questo dolore fu un uomo di cultura e prestigio: Cicerone non era solo un intellettuale, ma anche un politico di rilievo negli ultimi anni della Repubblica romana. In un contesto dove il lutto era spesso trattato con distacco o descritto nelle vicende altrui, la sincerità con cui Cicerone espresse il proprio dolore rappresenta un’eccezione nelle fonti antiche. Per gli autori dell’epoca, infatti, era più semplice giudicare il lutto degli altri che condividere apertamente le proprie sofferenze personali.
Il lutto era un argomento complesso nella società romana. Da un lato, veniva considerato naturale e inevitabile, come sottolinea Seneca nei suoi scritti. Dall’altro, esprimere apertamente il dolore era spesso visto come incompatibile con la vita pubblica e con l’ideale della virtù maschile.
In molti casi, il lutto veniva associato a una debolezza tipicamente femminile, come testimoniano Cicerone, Seneca e Plutarco. Per uomini come Cicerone, il lutto non era mai soltanto una questione privata: era strettamente legato ai doveri pubblici e al ruolo che occupavano nella società. Di conseguenza, gli uomini romani cercavano non solo consolazione, ma anche modi per convivere con la perdita senza compromettere il loro ruolo pubblico.
La reazione di Cicerone alla morte della figlia Tullia è stata oggetto di numerosi studi, e non a caso. Il suo dolore ci offre uno sguardo prezioso sulle modalità con cui i Romani affrontavano il lutto. Ma questa riflessione non si limita alla figura di Cicerone: l’obiettivo è capire come i Romani dell’epoca vivevano e superavano le perdite. Partendo dall’esempio di Cicerone, possiamo esplorare i metodi più comuni per alleviare il dolore del lutto durante la tarda Repubblica e il primo periodo imperiale, valutandone l’efficacia e il significato.
La gestione del lutto nel mondo romano
Nel mondo antico, il lutto era un tema particolarmente complesso. Aspetti come la sua definizione, la sua espressione e i metodi per alleviare il dolore erano ben diversi da quelli che conosciamo oggi. È sbagliato pensare che il loro modo di vivere le emozioni fosse uguale al nostro, come sottolinea Cairns (2008). In un contesto dove la mortalità era alta per molte ragioni, l’esperienza del lutto assumeva sfumature molto diverse rispetto a quelle moderne.
Inoltre, la nostra conoscenza è spesso filtrata dai pregiudizi delle fonti antiche, che riflettono soprattutto il punto di vista di uomini ricchi, appartenenti all’élite e ben istruiti. Tuttavia, proprio come accade oggi, anche gli intellettuali dell’epoca cercarono di definire il lutto e di esplorarne le molteplici sfumature, offrendoci un’importante finestra sul mondo emotivo dell’antica Roma.
Le scuole filosofiche dell’antichità cercarono di proporre le proprie visioni sulle emozioni, ma il pensiero romano le reinterpretò, adattandole alla propria cultura. Tra le più influenti, gli Stoici e gli Epicurei ebbero un ruolo centrale a Roma: entrambe le correnti consideravano le passioni come potenzialmente pericolose, capaci di travolgere la natura umana e la razionalità. La filosofia, in questa prospettiva, veniva vista come uno strumento terapeutico per riequilibrare le emozioni (Gill 1997).
Il lutto, sebbene non sempre definito come una passione autonoma, era spesso considerato una forma di dolore (aegritudo). Proprio in questa chiave, Cicerone descriveva il lutto come una delle emozioni più difficili da affrontare. Scriveva infatti: “Ma l’aegritudo comporta cose peggiori: decadimento, tortura, tormento, ripugnanza. Lacera e divora l’anima, distruggendola completamente” (Tusc. 3.27). Questo rifletteva la complessità e l’intensità con cui il lutto era vissuto nel mondo romano.
Gli scrittori dell’epoca affrontavano spesso il tema del lutto e dei modi per alleviarlo, trattandolo con un approccio filosofico che lo rendeva una questione centrale nella letteratura. Perdere una persona cara era considerato un dolore così intenso da essere paragonato a una malattia vera e propria.
Cicerone stesso, dopo la morte della figlia, utilizzava frequentemente immagini mediche per descrivere il suo dolore: parlava di una ferita aperta (Att. 12.18.1), di medicine da prendere (Att. 12.21.5) e di rimedi da cercare (Att. 12.21.5).
Questo approccio era condiviso anche da altri pensatori del tempo. Servio Sulpicio Rufo, in una lettera a Cicerone, temeva che il suo amico stesse affrontando il lutto come un cattivo medico (Fam. 4.5.5), incapace di curarsi adeguatamente. Seneca, invece, si descriveva spesso come un medico filosofico, somministrando rimedi per alleviare il dolore del lutto, paragonandolo a un paziente da curare (Helv. 2.2).
Questi riferimenti sottolineano quanto fosse diffusa, nel mondo romano, l’idea che il dolore emotivo necessitasse di cure e fosse affrontato con la stessa serietà riservata alle malattie fisiche.
Nella rappresentazione del lutto, le metafore militari erano largamente utilizzate. Il lutto veniva descritto come una battaglia da combattere, da cui bisognava uscire vittoriosi (ad esempio, Cicerone, Att. 12.15; Seneca, Marc. 1.5). Questi paragoni evidenziano due aspetti significativi: da un lato, il lutto era percepito come un nemico da affrontare e sconfiggere, quasi fosse una malattia o una debolezza di carattere; dall’altro, tali metafore sottolineano la consapevolezza del potere devastante del dolore, capace di debilitare anche gli uomini più forti.
Alleviare il dolore del lutto, dunque, non era un compito semplice. La sua intensità spingeva persino i Romani, con tutta la loro enfasi sulla virtù e il controllo delle emozioni, a cercare aiuto, mostrando quanto fosse difficile convivere con una perdita così profonda.
Il “codice d’onore” nel mostrare il dolore
Si potrebbe pensare che la maggior parte delle persone nell’antica Roma affrontasse il lutto seguendo una prospettiva filosofica, ma non era così. Il lutto non riguardava solo le élite ma anche altre categorie sociali – donne, bambini, schiavi e poveri – che vivevano il dolore della perdita, lasciandoci tracce, seppur indirette, di come affrontassero il lutto, spesso in modi molto diversi.
Gli intellettuali delle élite spesso giudicavano severamente il comportamento delle classi meno abbienti, criticando gesti considerati esagerati, lamenti rumorosi o lacrime percepite come false, che trasformavano il lutto in una sorta di spettacolo pubblico. Seneca, per esempio, sosteneva che un “vero uomo” dovesse mantenere il controllo delle emozioni e non piangere affatto (Ep. 63.13).
D’altro canto, mostrare poca o nessuna emozione durante un funerale poteva essere interpretato come segno di mancanza di umanità o di un dolore non sincero (Petronio, Sat. 42; Svetonio, Tib. 52; Tacito, Ann. 3.2–3). In definitiva, il comportamento accettabile prevedeva che si potessero versare lacrime durante il funerale o nella riservatezza della propria casa, ma non in altri contesti, per non compromettere l’immagine di compostezza e dignità che la società romana si aspettava.
A contrastare l’ideale romano di autocontrollo ci pensò l’arte. Il lutto, infatti, fu una grande fonte di ispirazione, soprattutto nella poesia e nel teatro, dove la sofferenza veniva rappresentata in modo aperto, evocando empatia nel pubblico e, talvolta, esaltando il dolore stesso.
Diversamente dalle opere filosofiche, quelle poetiche e teatrali – sebbene anch’esse scritte da uomini – dimostrarono che il lutto non doveva necessariamente essere controllato. Al contrario, veniva spesso presentato come un’emozione da vivere pienamente, senza reprimerla.
Per molti Romani, però, nessuno dei due estremi era davvero adeguato. Il loro modo di affrontare il lutto oscillava tra la ricerca di soluzioni pratiche e reazioni emotive intense legate alla perdita, trovando un equilibrio tra il controllo e l’espressione del dolore (cf. Stroebe e Schut 1999).
A questo punto, possiamo chiederci: le testimonianze che ci sono pervenute riflettono solo il cordoglio, inteso come esibizione e performance pubblica, o rappresentano anche il lutto autentico?
Le prove disponibili sono spesso rappresentazioni stilizzate, o addirittura distorsioni, delle emozioni (Baltussen 2009, 357). Questo accade perché ciò che è sopravvissuto fino a noi era, in parte, pensato per essere mostrato e consumato dal pubblico dell’epoca.
Ma molte di queste testimonianze sono così intrise di emozioni (o, al contrario, della loro negazione) che sarebbe riduttivo pensare che riflettano solo i Romani in lutto, escludendo chiunque altro. Al di là della ricerca di attenuare il dolore, offrire supporto nell’elaborazione del lutto e fornire consolazione era spesso una responsabilità condivisa a livello sociale.
Anche se le rappresentazioni che ci sono pervenute possono apparire stilizzate, il dolore del lutto era una realtà profondamente riconosciuta e vissuta da tutti, rendendo chiaro quanto fosse universale l’esperienza della perdita.
Cicerone: le prime settimane dopo il lutto
Come abbiamo visto, Cicerone era un uomo dell’élite romana, un intellettuale fortemente influenzato dalla filosofia del suo tempo. Nelle lettere scritte dopo la morte di sua figlia Tullia, ci offre uno sguardo raro su cosa potesse essere un lutto autentico per un uomo del suo rango.
Secondo Baltussen (2009; 2013b, 78), Cicerone soffrì di lutto acuto o patologico nelle otto-dieci settimane successive alla perdita, mentre Evans (2007) descrive questo periodo come un episodio di grave depressione. Dovremmo però essere cauti nell’applicare queste diagnosi moderne, poiché potrebbero suggerire che Cicerone fosse in qualche modo anormale o che il suo dolore fosse più intenso rispetto a quello vissuto da altri Romani in situazioni simili.
Questo potrebbe essere vero, ma mancano comparazioni adeguate per poter stabilire se cio’ rispecchia o meno la sofferenza dei suoi pari di livello, o dell’uomo dell’epoca; nessun altro Romano ha documentato il proprio lutto in modo così dettagliato come fece lui, lasciandoci impossibilitati ad avere dei termini di paragone per capire cosa potesse essere estremo, meno estremo, normale o anormale.
Inoltre, tali diagnosi rischiano di ignorare il contesto politico di cui Cicerone faceva parte. Bisogna tener presente che prima della morte di sua figlia, Cicerone era già un uomo turbato, la cui carriera era in crisi; il suo lutto per Tullia e il suo dolore furono emblematici per la decadenza della Repubblica.
Piuttosto che esaminare minuziosamente Cicerone o analizzare la cronologia del suo lutto, proviamo a considerare cosa stesse facendo in quel periodo e cosa si aspettassero da lui.
Non sto suggerendo che Cicerone stesse consapevolmente “elaborando il lutto”, piuttosto identificare ciò che nell’antica Roma veniva proposto per aiutare chi aveva subito un lutto. L’esperienza di Cicerone, dato il suo status e le sue inclinazioni intellettuali, potrebbe essere stata lontana da quella vissuta da un Romano medio, e anche il semplice atto di documentare il proprio lutto in modo così dettagliato era insolito.
Le lettere di Cicerone, unite ad altre prove principalmente del primo periodo imperiale, ci permettono di individuare alcuni elementi che offrivano conforto ai lutti quali: i rituali, le credenze religiose e filosofiche, il dovere pubblico, le reti di supporto, la letteratura e la memoria. Questo elenco non è esaustivo e rimane orientato prettamente verso il maschio romano di élite, ma fornisce alcune intuizioni su come il lutto veniva gestito in quel periodo.
Cicerone non rivelò nulla riguardo ai rituali funebri che circondarono la morte di Tullia, poiché la corrispondenza dettagliata con Attico iniziò alcune settimane dopo. Possiamo supporre che fossero stati seguiti i riti consueti: il corpo di Tullia potrebbe essere stato esposto per alcuni giorni, poi portato in processione funebre, con il feretro accompagnato da familiari, amici, musicisti e lamentatori a pagamento.
Al cimitero, forse Cicerone stesso potrebbe aver pronunciato un elogio prima che venisse acceso il rogo funebre.
Durante il funerale furono eseguiti probabilmente dei riti di purificazione, ripetuti nove giorni dopo la morte. Durante questo periodo, Cicerone avrebbe dovuto astenersi dagli affari pubblici, indossare abiti scuri e rimanere a casa.
Cicerone non era un sostenitore di riti sontuosi o drammatici (Leg. 2.59; Tusc. 3.62). Per questo, è probabile che il funerale di Tullia sia stato sobrio, evitando dimostrazioni eccessivamente patetiche come lamenti rumorosi o lamentatori che si ferivano battendosi il petto, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto.
Cicerone: l’elaborazione nei mesi successivi
È evidente che la conclusione dei rituali funebri formali non segnò la fine del dolore di Cicerone. Anche nove giorni dopo la morte di Tullia, egli non riprese le sue attività pubbliche. In sostanza, indipendentemente dal funerale di Tullia – che fosse stato sobrio o sontuoso – i soli rituali non furono sufficienti a placare il suo dolore.
I rituali funebri mostrano lo status dei dolenti; i rituali consentono alle persone di dire addio ai morti e di rinegoziare il loro posto nella società. Sia il corpo che i dolenti possono essere considerati contaminati e pericolosi, e lo scopo dei rituali e’ quello di neutralizzare e controllare quei pericoli.
I dolenti devono essere purificati dal loro dolore, poiché il loro stato emotivo è potenzialmente pericoloso e destabilizzante (O’Rourke 2007, 397). Dai rituali allora traggono benefici non solo i dolenti, ma anche la società e la comunità tutta.
Nel mondo romano vi erano norme che regolavano quanto dovesse durare il lutto e che miravano a controllare alcune manifestazioni emotive (Leg. 2.59; Plutarco, Num. 12; Paolo, Sent. 1.21.2–5). Gli uomini, in particolare, dovevano riprendere rapidamente il lavoro e i doveri pubblici per garantire l’efficienza dello stato. Il lutto (gesti drammatici e l’uso di abiti funebri) era spesso considerato “un affare da donne.”
I rituali funerari romani erano sia pratici che simbolici, ma consentivano anche il riconoscimento e l’espressione del dolore che doveva essere controllato e delimitato in un certo arco di tempo.
La questione più complessa è capire se questi rituali fossero emotivamente soddisfacenti per tutti. Il rapporto tra il dolente e il defunto, così come l’età, il genere e lo status sociale, influenzavano profondamente il modo in cui ciascuno viveva il lutto e partecipava ai rituali.
Durante i funerali, potevano essere coinvolti schiavi, impresari funebri e lamentatori a pagamento. L’uso di questi specialisti, che sembra essersi diffuso durante la tarda Repubblica e il primo periodo imperiale (Bodel 2004), contribuiva a creare una certa distanza emotiva tra il dolente e il defunto. Inoltre, prendersi cura dei morti e partecipare a manifestazioni pubbliche di lutto erano spesso considerati compiti riservati a donne di basso status sociale (Richlin 2001).
I ruoli rituali prescritti potevano offrire conforto ai dolenti, dando loro una guida su cosa fare e come comportarsi. Adempiere alle aspettative sociali e personali di comportamento poteva aiutare a gestire il dolore. Tuttavia, non mancava la consapevolezza di una discrepanza tra i rituali, soprattutto nella loro componente teatrale, e la realtà emotiva. Spesso, questa discrepanza veniva usata per criticare persone di diversa classe sociale, genere o intelletto.
Cicerone, ad esempio, osservò che i bambini allegri durante il lutto familiare venivano picchiati affinché versassero le lacrime attese (Tusc. 3.64). Luciano descrisse il lutto come teatrale e drammatico, sottolineandone l’inutilità pratica (Luct.). Marziale, invece, notò che chi soffre davvero lo fa in solitudine (1.33).
Il lutto visto dalla società romana
Nel mondo romano, vi era scetticismo verso alcune manifestazioni di lutto. Le espressioni emotive venivano spesso considerate false o inutili per chi soffriva davvero.
Tuttavia, esistono testimonianze che contraddicono questa visione, suggerendo che i rituali funebri fossero fondamentali per l’espressione del dolore. Stazio, ad esempio, descrisse comportamenti di lutto estremi senza considerarli falsi, ma autentiche e attese manifestazioni di amore e perdita.
Nei riti per Priscilla, egli elogiò l’accumulo di incenso, il feretro riccamente decorato, la sepoltura elaborata e le lacrime del marito come espressioni adeguate (almeno in senso poetico) del lutto (Silv. 5.1.208–230).
Anche la poesia sottolinea l’importanza di completare i rituali, soprattutto nei casi in cui questi venivano interrotti o non eseguiti correttamente. Ovidio, ad esempio, esprime il timore per riti incompleti (Tr. 3.3.37–46). Lucano descrisse la tragedia della vedova di Pompeo, privata del corpo del marito, il cui cadavere fu abbandonato su una costa straniera dopo l’assassinio (Phars. 8.739–742).
Questi racconti non solo esplorano le conseguenze del mancato rispetto delle esequie, ma evidenziano il ruolo centrale dei rituali nel processo di elaborazione del lutto. Non avere un corpo su cui piangere era una fonte di ulteriore sofferenza: poter dire addio era essenziale per chi viveva il dolore della perdita.
Le festività annuali come i Parentalia e i Rosalia fornivano rituali continui, con visite alle tombe, cure per i defunti e dei loro ricordi. Vi era anche spazio per approcci più personalizzati e ritualizzati.
Cicerone progettava di costruire un santuario per Tullia; non era chiaro quale potesse essere lo scopo di tale santuario, ma è probabile che Cicerone immaginasse di visitarlo regolarmente. Dopo il funerale, le routine quotidiane potevano essere riadattate: alcuni spazi e modi di fare erano evidenziati dall’assenza del defunto; anche gli oggetti e le immagini assumevano nuovi significati come punto focale per il rituale.
L’imperatore Augusto, secondo quanto riferito, baciava regolarmente una statua del nipote morto (Svetonio, Cal. 7). Simili gesti di commemorazione erano comuni: alcune persone parlavano alle immagini dei defunti, le decoravano o conservavano gioielli e cimeli preziosi appartenuti a loro (Hope 2011a).
Anche Cicerone, dopo la morte di sua figlia Tullia, reagì al dolore modificando le proprie abitudini. Evitò inizialmente di recarsi a Roma e nella villa dove Tullia era morta, dimostrando quanto fosse difficile affrontare quei luoghi carichi di ricordi. Con il tempo, tuttavia, accettò di farvi ritorno (Att. 12.45; 12.46).
La performance pubblica del lutto, che questi rituali potevano comportare, non era richiesta a tutti, infatti per alcuni sembrava irrilevante tanto da essere, o sentirsi, esonerati dal farlo; ma per altri era importante e genuina.
I rituali permettevano ai dolenti di esprimere il dispiacere in una maniera accettata e organizzata, sebbene i rituali variassero tra i vari sessi e ceti sociali. Dopo il funerale, sia i morti che le loro tombe non venivano dimenticati; anzi i legami con i defunti potevano essere mantenuti vivi attraverso rituali pubblici e privati.
L’aldilà per gli antichi romani
Le credenze religiose e filosofiche nell’antica Roma potevano essere variabili e molto personali. In base a ciò che accadeva ai morti, si adottavano diverse opzioni: dalla concezione della morte come annientamento, all’idea di una continua esistenza dei defunti in un mondo ultraterreno (come lo definiremmo oggi).
E’ difficile stabilire cosa credeva la maggior parte delle persone. In ogni epitaffio venivano espresse diverse opinioni; alcuni trovavano conforto nelle idee di continuità, vita dopo la morte e speranza di riunione (ad esempio, CIL 11.6435), mentre altri vedevano la morte come la fine di tutto: “Non ero, ero, non sono, non mi importa” (CIL 13.530).
La maggior parte degli epitaffi, oltre alla formula generica di apertura Dis Manibus (“agli spiriti dei defunti”), non faceva chiarezza sul fatto se il defunto o i suoi dolenti credessero nell’aldilà o nell’immortalità dell’anima.
Cicerone stesso, nelle lettere scritte dopo la morte di Tullia, fece pochi riferimenti alla religione. In alcuni casi, i suoi scritti presentavano prospettive divergenti: promuovendo un regno celeste per i grandi e i virtuosi (Rep. 6.13), immaginando i nemici di Roma all’inferno (Phil. 14.32) o negando del tutto l’esistenza dell’Ade (Tusc. 1.10).
Ognuna di queste opzioni aveva uno scopo specifico in un contesto letterario particolare, tanto che nessuna di esse rappresentava, per forza, le opinioni personali di Cicerone.
Alla morte di Tullia, Cicerone lottava con la mortalità di sua figlia e lo scopo della sua morte, come dimostra la sua determinazione a costruire un santuario.
Sostanzialmente era come se Cicerone volesse conferire a sua figlia uno status divino, ma tale divinizzazione di un mortale era insolita e una novita’ per quell’epoca. Poco dopo che Cicerone scrisse le sue lettere su questo argomento, Giulio Cesare, assassinato, venne dichiarato dio, e nel secolo successivo ci fu una crescente tendenza a fondere il mortale e il divino nella commemorazione funeraria (Wrede 1981; Cole 2014).
Ad affiancare la religione, c’erano anche i principi filosofici. Anche in questo caso, come per la religione, vi poteva essere una stretta adesione a determinate scuole di pensiero (ad esempio, stoica, scettica, epicurea), oppure un approccio filosofico più eclettico, cosi’ com’e’ riscontrabile negli stessi scritti di Cicerone.
L’atteggiamento filosofico era generalmente quello di moderazione nell’espressione del dolore, offrendo al tempo stesso consigli per razionalizzare e quindi controllare il lutto.
Scrivendo a Tizio dopo la morte dei suoi figli (e pochi mesi prima della morte di Tullia), Cicerone utilizzò alcuni dei principali argomenti filosofici: la morte colpisce tutti gli uomini, la morte non è un male e il tempo guarisce (Fam. 5.16; cf. Tusc. 3.77).
Nella sua personale esperienza di lutto, Cicerone si trovò in difficoltà con alcuni degli insegnamenti filosofici del suo tempo, tanto da affermare che nulla poteva consolarlo, ma è altrettanto chiaro che lesse e studiò ampiamente ciò che la filosofia dell’epoca consigliava a riguardo.
Cicerone sottolineava di non andare oltre ciò che i migliori maestri consigliavano nel suo dolore e che stava provando i rimedi prescritti (Att. 12.21.5). Gli aspetti specifici della filosofia forse non offrirono la terapia immediata che Cicerone si aspettava, ma l’approccio filosofico gli fornì occupazione dandogli modo di distrarsi.
Più di un anno dopo la morte di Tullia, Cicerone espresse la sua gratitudine alla filosofia per averlo distratto dall’ansia e per avergli fornito un’armatura contro le avversità (Fam. 12.23.4).
Ovviamente anche altri, oltre Cicerone, trovarono difficile accettare nella sua interezza la risposta filosofica alla morte. Nel I secolo d.C., Stazio inveì contro coloro che cercavano di porre limiti al lutto, “che [osano] decretare una legge per il pianto o fissare i confini del dolore” (Silv. 5.5.60–61; vedi Markus 2004).
Tacito considerava l’autocontrollo maschile forzato come un’esibizione di coraggio; poteva essere dimostrativo quanto le lacrime e i lamenti femminili (Agr. 29.1). Tuttavia, massime di senso comune ricavate proprio dalla filosofia, come “i morti non soffrono” e “il tempo guarisce”, venivano spesso citate.
Nel lutto, molte persone trovavano conforto nelle proprie “credenze,” che fossero filosofiche o religiose, poiché queste fornivano spiegazioni sul destino dei morti e anche una guida pratica e spirituale su come convivere con il dolore.
La religione poteva anche promuovere legami continui con i defunti, se non attraverso la speranza di una riunione, almeno tramite rituali regolari (come già detto), che davano ai morti un posto nella vita dei vivi.
Il dovere pubblico nel lutto
Cicerone sottolineava, attraverso la propria assenza, che mantenersi occupati, specialmente nel servizio pubblico, era un metodo consolidato per alleviare il dolore. Il servizio allo stato doveva essere prioritario e poteva richiedere la soppressione delle già citate emozioni.
In termini di occupazione, Cicerone non fece nulla, o almeno questo era ciò di cui i suoi amici lo accusavano, ritirandosi da Roma e allontanandosi dalla vita politica (ad esempio, Fam. 5.14.1–2). Il fatto che l’assenza di Cicerone fosse problematica è suggerito dal fatto che egli dichiarava di essere malato ed era disposto a giurarlo (Att. 12.13.2); il dolore da solo non era una scusa sufficiente per mancare a determinati doveri.
L’ideale maschile di comportamento durante il lutto prevedeva che si andasse avanti, mantenendo il controllo o mascherando il dolore, come gli fu suggerito a Cicerone e suggeri’ a sua volta (Fam. 5.16.5; Att. 12.20.1; 12.23.1).
Esistevano molti esempi di uomini repubblicani stimati che, almeno in pubblico, non versavano una lacrima. Giulio Cesare, dopo la morte di sua figlia, ad esempio, tornò a comandare le sue truppe nel giro di pochi giorni (Seneca, Marc. 14.3). Cicerone era consapevole del potere di questi paradigmi e, nelle sue lettere ad Attico, chiedeva dettagli sui lutti altrui, con lo scopo di potersi consolare (Att. 12.20.2; 12.22.2; 12.24.2).
Scrivendo a Bruto dopo la morte della moglie, Cicerone osservava: “La moderazione nel lutto, che è utile per gli altri uomini, è per te una necessità” (Ad Brut. 18 [I.9].2 [= 19 (I.9).2 in Williams e Cary 1927–1929]).
Mantenersi occupati e svolgere i propri doveri pubblici era anche fonte di distrazione utile, qualcosa che poteva aiutare nel processo di guarigione.
Tacito descrisse la guerra contro i Britanni come il rimedio utilizzato dal suocero Agricola dopo la morte di un figlio giovane (Agr. 29.1). Agricola andò avanti, anche se guarire il suo dolore significava potenzialmente infliggerlo ad altri.
Fare ciò che era familiare e la quotidianita’ poteva rassicurare i dolenti che dovevano affrontare un’esperienza di morte. La maggior parte delle persone non erano generali né ricoprivano incarichi pubblici, ma si promuoveva comunque l’idea che la routine e i ruoli consueti fossero un ottimo rimedio sia per distrarre dal dolore che alleviarlo.
Seneca suggerì che era quando i dolenti erano a casa (domum) e soli, piuttosto che occupati al lavoro, che il dolore poteva insinuarsi (Polyb. 8.1).
Per Cicerone, la situazione che stava vivendo gli rese inizialmente difficile la possibilità di prender parte attivamente alla vita pubblica. Non poteva diventare un paradigma di moderazione del lutto e trovare conforto nell’ammirazione per questa performance pubblica (Wilcox 2005a), anche se alla fine i suoi scritti avrebbero parzialmente compiuto questo ruolo.
In una risposta a una lettera ricevuta da Servio Sulpicio Rufo, Cicerone stesso notò sia l’importanza del dovere pubblico che il vivere, contemporaneamente, i mali pubblici e quelli privati, mettendo in risalto la dipendenza sia della casa che del forum: “perciò evito sia la casa sia il forum, perché la casa non può più confortare il dolore che gli affari pubblici mi causano, né gli affari pubblici possono confortare il dolore che soffro in casa” (Fam. 4.6.2).
In sostanza, Cicerone si comportava in modo non virile nel suo lutto, perché non adempiva piu’ alle consuete occupazioni aristocratiche: insomma distrazioni che gli avrebbero impedito sia la manifestazione pubblica del dolore che la distrazione dal colpo subito (vedi anche Att. 12.21.5; 12.23.1).
Nel suo isolarsi, Cicerone forse previde una sfida all’esaltazione del dovere pubblico. Sotto il dominio degli imperatori, i modelli maschili da seguire provenivano proprio dalla famiglia imperiale stessa, quindi il vero valore degli altri uomini per quanto riguardava il servizio pubblico era messo in discussione.
Trovare consolazione e distrazione dedicandosi al servizio di Roma poteva diventare un compito estremamente difficile per chi viveva un lutto profondo. Tuttavia, questo non significa che tutti gli uomini di élite affrontassero il dolore nello stesso modo in cui fece Cicerone.
Gli ideali repubblicani di autocontrollo e compostezza venivano ancora celebrati, ma è possibile che durante questo periodo si fosse sviluppata una visione più sentimentale del valore della famiglia. Questo cambiamento potrebbe aver contribuito ad ammorbidire l’ideale maschile, riconoscendo un ruolo più centrale alle emozioni nei legami familiari (Dixon 1991; Bodel 1999; Hope 2011b, 111–115).
L’idea di mantenersi occupati, indipendentemente dal ceto sociale o dal sesso, veniva ancora promossa, ma andare avanti con la vita poteva significare concentrarsi sia sulla famiglia che sulla carriera pubblica.
Nella società romana, le persone erano ammirate per il loro altruismo e per la capacità di mettere i bisogni dello Stato e degli altri al di sopra del proprio dolore. Questo rifletteva l’idea che il lutto dovesse essere limitato nel tempo: in una società con un’elevata mortalità, come quella romana, era fondamentale concentrarsi sui vivi piuttosto che sui morti.
Per chi ricopriva ruoli pubblici, questo atteggiamento era particolarmente importante. Il dovere e il lavoro non solo offrivano una distrazione preziosa per chi soffriva, ma contribuivano anche al benessere della società romana nel suo complesso, garantendo che il dolore personale non interferisse con le responsabilità collettive.