Storia dell’autoritratto: Tutankhamon, Kahlo e l’arte di autorappresentarsi.

Sul bordo della modernità, nell’epoca in cui ogni angolo di privato viene illuminato dal flash di uno smartphone, il concetto di selfie invade le nostre vite con una rivoluzione silenziosa quanto potente. Ma fermarsi a riflettere sulle radici profonde dell’autoritratto porta a ricostruire un intero universo narrativo, un viaggio che affonda nelle viscere della storia, attraversa regni, imperi e continenti, si evolve tra ideologie, materiali, visioni spirituali e ambizioni individuali. Rappresentarsi e comunicare la propria unicità non è mai stato semplice: faceva parte di rituali, aveva valore presso i sudditi e gli antenati e rispondeva alla stessa pulsione di eternità che ci spinge oggi a fissarci in un fotogramma.

Prima dell’avvento del digitale, la rappresentazione di sé era un’impresa lenta, scrupolosa, spesso carica di significati magici o religiosi. Nell’Antico Egitto, dove la scrittura stessa aveva potere salvifico, la costruzione del proprio volto per l’eternità era questione di vita e morte. I faraoni come Tutankhamon ordinavano che la propria effigie fosse scolpita sulle pareti delle tombe e dipinta sui sarcofagi, testimoniando la gloria e la sacralità della persona. Non si trattava di vanità, ma di una necessità spirituale: “l’immagine di colui che vive giace nella casa della vita”, recita il testo sapienziale delle “Istruzioni per Merikare”, sottolineando come il volto incastonato tra i simboli funebri fosse destinato a dialogare con l’aldilà. Queste immagini, incarnazione del potere creativo e della continuità dinastica, erano anche arma politica: ogni linea incisa voleva rassicurare i sudditi e la posterità che il sovrano sarebbe rimasto per sempre, al di là del decadimento fisico.

Il mondo greco, influenzato dalle conquiste, dai miti e dalle innumerevoli scuole filosofiche, sviluppò l’arte della rappresentazione personale secondo canoni estetici nuovi. Se nel periodo arcaico le immagini erano stilizzate e simboliche, con l’età classica si affermò una consapevolezza dell’individuo che avrebbe rivoluzionato i secoli successivi. Gli scultori come Fidia e Policleto aspiravano alla perfezione del corpo umano, ma non mancavano di inserire tratti autobiografici nei propri lavori, quasi celati da veli di allegoria. Il celebre “Ritratto di Saffo”, poetessa che sfidò il tempo con la potenza della parola, restò impresso nel marmo come manifesto della memoria personale; nelle traduzioni di John Addington Symonds emerge la volontà di eternizzare la fama: “Conosci il tuo viso, Saffo, come la luna tra le stelle, per sempre rimarrà scolpito nella bianchezza del marmo.” Qui l’autorappresentazione sfiora l’eroismo, amplifica la voce dell’individuo e si fa portavoce di una collettività in cerca di modelli.

La civiltà romana, con la sua vocazione pragmatica e universale, trasforma l’immagine del sé in strumento di potere e controllo sociale. Per l’imperatore, il volto inciso su statue, monete e affreschi equivaleva a un atto di propaganda, ma anche a un tentativo di dominare la propria eredità. I ritratti marmorei di Augusto, le raffigurazioni nelle domus patrizie e le incisioni sulle monete erano messaggi indirizzati ai cittadini e agli alleati, promesse di stabilità e continuità. Plinio il Vecchio, nelle sue “Naturalis Historia”, annota che “La statua era l’anima della memoria, e chi osava raffigurarsi in essa sfidava la fugacità dell’ora.” L’artista romano, da parte sua, talvolta si faceva spazio tra le decorazioni, affidando al dettaglio e all’inclinazione del pennello una traccia della propria identità. Questi gesti solitari, disseminati tra le rovine di Pompei e Ostia, rivelano una nuova sensibilità, quella che riconosce nell’autoritratto non solo il piacere di essere ricordati, ma anche la necessità di documentare il proprio ruolo nella costruzione dell’arte.

L’età medievale cambia il punto di vista: in un mondo governato dalla fede, dalla devozione e dall’umiltà, il volto dell’artista scompare, si nasconde tra le ombre dei gargoyle o tra le miniature dei codici. La rappresentazione di sé, se c’è, è sommessa, quasi timorosa di disobbedire al precetto dell’anonimato. Eppure, qualche traccia emerge, come nel “Libro d’Ore” di Jean Duc de Berry, dove negli angoli delle miniature sbiadite lo scriba si concede una piccola figurina, protetta dai santi e dal coro degli angeli. La traduzione di Eleanor P. Hammond permette di percepire questa tensione tra la dignità del creatore e la modestia imposta dal sistema: nessun nome in primo piano, nessuna arroganza, solo la silenziosa testimonianza che “l’arte è anche confessione personale”. La vera gloria, in questa stagione, non è l’esaltazione del sé, ma la sua fusione nella grande opera collettiva – la cattedrale, il manoscritto, la narrazione sacra.

Il Rinascimento, però, squarcia il velo dell’umiltà con la forza dell’individualismo. Nei laboratori fervidi di Firenze, Venezia e Milano, gli artisti scoprono di essere protagonisti e non più semplici artigiani. Leonardo da Vinci, nei suoi codici, riflette profondamente sul senso della rappresentazione del sé: il suo “Autoritratto”, divenuto icona della genialità europea, viene interpretato come “la manifestazione più alta dell’individualità artistica”, se si legge la traduzione inglese curata da J.P. Richter. Nel trattato di Albrecht Dürer, tradotto da William Martin Conway, si coglie con chiarezza come la spinta verso l’autoritratto non sia pura vanità, ma esigenza di documentare la propria unicità. “Io, Dürer, ho dipinto me stesso per il futuro, affinché la mia verità non scompaia tra le nebbie della storia.” In quest’epoca, l’artista assume il ruolo del demiurgo: la materia si piega al suo volere, ogni gesto è atto di rivendicazione esistenziale, ogni pennellata è memoria consapevole. L’autorappresentazione si fa dichiarazione pubblica, elogio della differenza, manifesto dell’orgoglio umano.

Tra Seicento e Settecento il tema si arricchisce di contrasti e sfumature: nascono nuove forme di introspezione, si diffonde la pratica della ritrattistica per raccontare non solo la forza ma anche la fragilità della singola esistenza. Rembrandt van Rijn, ad esempio, attraversa tutta la propria vita dipingendo sé stesso in molteplici condizioni: la giovinezza baldanzosa, la maturità ferita, la vecchiaia consapevole. Ogni autoritratto diventa narrazione, diario visivo, confessione. Lo stesso accade per Artemisia Gentileschi, artista di eccezionale talento e tempra: nelle lettere tradotte da Mary D. Garrard, si percepisce la consapevolezza che “ogni pennellata è una difesa, dichiarazione di valore contro le ingiustizie.” Qui, il volto diventa strumento, la rappresentazione è azione sociale, il dipinto denuncia, reinventa e riscatta. L’autorappresentazione si fa battaglia, terreno di lotta culturale e personale.

La modernità, travolta dall’impeto delle rivoluzioni industriali e dai nuovi linguaggi dell’arte, prosegue il viaggio dell’identità personale con crescente inquietudine. L’Ottocento vede i protagonisti della pittura e della letteratura interrogarsi sulla propria solitudine e sul rapporto tra arte, società e destino. Vincent van Gogh dipinge sé stesso in numerose varianti, testimoniando il tormento e la ricerca incessante della verità. Nelle sue lettere, tradotte da Arnold Pomerans, si legge: “Mi rappresento senza fronzoli, perché ciò che resta non è la bellezza, ma il desiderio di verità.” Qui il volto è specchio di un’anima inquieta, ogni pennellata è viaggio nello spazio profondo dell’io.

Nel XX secolo l’immagine personale si frammenta, dialoga con le contraddizioni del mondo di massa. Frida Kahlo, con i suoi autoritratti dolorosi e visionari, trasforma la sofferenza in mito, diventa emblema di chi cerca riscatto attraverso la rappresentazione. Nei suoi scritti traspare la necessità di esistere al di là delle lacerazioni, costruendo la propria figura come segno di resistenza – specchio della diversità che si fa arte. Andy Warhol, icona della cultura pop, riflette la molteplicità dell’io, concepisce l’autoritratto come performance, maschera, protezione contro l’annullamento. Nelle “Philosophy” tradotte da Pat Hackett, si afferma: “Ogni autoritratto è una performance, una maschera che indosso per proteggermi dal mondo.” L’essere ricordati, per Warhol, equivale all’essere ammirati e, insieme, protetti. Il selfie contemporaneo riprende questo filo: la rappresentazione personale si moltiplica, si frammenta, diventa potente mezzo di comunicazione, ma anche rischiosa esibizione.

Oggi, circondati da schermi e dispositivi, la tentazione di legarsi solo all’istantaneità del selfie rischia di farci perdere di vista la profondità del gesto antico. Senza smartphone, la rappresentazione personale era frutto di gesti misurati e lenti, tecniche sapienti e materie preziose. Ogni autoritratto si costruiva nella lentezza, affrontando la paura dell’oblio, il desiderio di riscatto, la volontà di affermarsi di fronte al caos del tempo. Il volto dipinto, inciso, scolpito era manifesto esistenziale, domanda rivolta al futuro: “Chi sono, e perché dovrei essere ricordato?” La tensione verso la memoria, l’identità e il senso della propria esistenza accomuna l’artista egizio agli artigiani medievali, i maestri rinascimentali alla inquieta modernità.

Con il mutare degli strumenti, cambiano anche i linguaggi: la memoria si stabilizza sui papiri, sulle pareti di tomba, sui codici miniati, sulle tele, sulle fotografie, e infine sullo schermo del cellulare. La necessità di essere ricordati resta, ma si trasforma, si reinventa. I selfie attuali, per quanto effimeri, recuperano qualcosa della lunga storia dell’autoritratto: la voglia di lasciare una traccia, di essere parte della narrazione universale, di comunicare un’unicità . Nel passato, ogni volto immortalato era domanda di verità, aspirazione all’eternità. Oggi, la moltiplicazione degli scatti rischia di disperdere il senso profondo del “volto-altro”, la tensione alla memoria collettiva che i grandi ritrattisti del passato inseguivano.

Guardando i volti antichi, la lezione che si può ricavare è una sola: la lentezza, la profondità, la cura per il dettaglio sono ingredienti essenziali per capire chi siamo. Il selfie ci regala velocità, ma anche il rischio dell’oblio. L’autoritratto antico, invece, chiede tempo, dedica attenzione, si carica di motivazioni profonde che parlano di destino e speranza. La storia insegna che rappresentarsi non è solo mostrare il volto, ma prendere posizione sul senso dell’esistere: essere individuo dentro la civiltà, corpo tra i corpi, pensiero tra i pensieri.

Ogni epoca ha cercato di comunicare sé stessa: attraverso la magia, la religione, la scienza, l’arte, la tecnica, il desiderio di eternità. Che si siano faraoni, artisti rinascimentali, pittori moderni o utenti di social network, la domanda resta la stessa. E allora, scattando un selfie oggi, bisognerebbe ricordarsi che il gesto non è nuovo, ma parte di una trama millenaria. Pensare a Tutankhamon, a Saffo, a Dürer, a Frida Kahlo significa accogliere la responsabilità di lasciare al futuro non solo un’immagine, ma una storia. La vera sfida non è fissarsi nell’istante, ma attraversare il tempo, offrendo un volto capace di dialogare con l’eternità.

Forse, la più memorabile delle immagini che ci rimane da questo viaggio è proprio questa: non c’è selfie che valga senza la consapevolezza che ogni autoritratto, ogni gesto di memoria, è un atto di dialogo con la storia e con chi verrà dopo di noi. E così, tra le infinite possibilità della rappresentazione personale, ci si specchia nell’urgenza di essere ricordati – non solo per la propria bellezza, ma per il desiderio di verità, di comprensione, di amore universale che anima ogni generazione.

Fonti citate:

  • “Istruzioni per Merikare”, Antico Egitto, trad. ufficiale inglese di Miriam Lichtheim
  • “Naturalis Historia”, Plinio il Vecchio, trad. ufficiale inglese di H. Rackham
  • “Ritratto di Saffo”, trad. inglese di John Addington Symonds
  • “Libro d’Ore” di Jean Duc de Berry, trad. inglese di Eleanor P. Hammond
  • Codici di Leonardo da Vinci, trad. inglese di J.P. Richter
  • Epistolari di Albrecht Dürer, trad. inglese di William Martin Conway
  • Lettere di Artemisia Gentileschi, trad. inglese di Mary D. Garrard
  • Epistolari di Vincent van Gogh, trad. inglese di Arnold Pomerans
  • “The Philosophy of Andy Warhol”, trad. inglese di Pat Hackett