Perchè nelle lapidi dei primi cristiani, c’erano formule pagane?

Passeggiando tra le antiche necropoli romane o visitando le catacombe cristiane, può capitare di imbattersi in lapidi che riportano misteriose abbreviazioni come “D.M.”, apparentemente identiche a quelle delle tombe pagane.

Perché i primi cristiani, pur professando una fede nuova e rivoluzionaria, hanno continuato a utilizzare formule di origine pagana per commemorare i loro defunti?

Si tratta di un equivoco, di una semplice abitudine o di qualcosa di più profondo? Questo articolo esplora le ragioni storiche, culturali e religiose dietro la presenza di abbreviazioni pagane nelle lapidi dei primi cristiani.

Il contesto funerario nell’antica Roma

La morte, per i Romani, era un momento carico di significato religioso e sociale. Le pratiche funerarie erano regolate da una serie di riti e credenze che avevano lo scopo di garantire pace e protezione all’anima del defunto, ma anche di preservare la serenità della comunità dei vivi.

Uno degli elementi più caratteristici delle tombe romane era l’iscrizione dedicatoria. Sulle lapidi, accanto al nome del defunto e a brevi formule commemorative, compariva quasi sempre una sigla: D.M., abbreviazione di Dis Manibus (“ai Mani”).

I Mani erano le anime dei defunti, divinizzati e venerati come spiriti benevoli che vegliavano sui loro discendenti e sulla casa. Dedicare la tomba “ai Mani” significava dunque affidare il defunto alle cure di queste divinità dell’oltretomba, assicurando la sua protezione e il rispetto della sua memoria.

Questa formula, semplice ma solenne, aveva anche una funzione pratica: dichiarava il carattere sacro e inviolabile della sepoltura, scoraggiando profanazioni e atti irrispettosi. Nel vasto mondo romano, la sigla D.M. divenne così un vero e proprio marchio standard delle epigrafi funerarie, presente su tombe di ogni classe sociale, dai cittadini più illustri agli schiavi liberati.

La forza della tradizione e la diffusione capillare di queste consuetudini epigrafiche gettano le basi per comprendere perché, anche con l’avvento del cristianesimo, molte di queste formule siano sopravvissute, almeno per un certo periodo, sulle lapidi dei nuovi fedeli.

La diffusione della formula D.M. nelle lapidi

La sigla D.M. (Dis Manibus) divenne, a partire dall’età imperiale, una presenza quasi obbligata sulle lapidi di tutto il mondo romano. La sua diffusione fu tale che, per secoli, ogni monumento funerario – dalla semplice stele alle più elaborate tombe familiari – iniziava con questa formula, seguita dal nome del defunto e da eventuali dediche o epitaffi.

Questa abitudine rispondeva anche a una forte pressione sociale e culturale. In un’epoca in cui la religione permeava ogni aspetto della vita pubblica e privata, non conformarsi a certi riti e formule poteva essere visto come segno di trascuratezza, di mancanza di rispetto verso gli antenati o addirittura di pericolo per la comunità.

La dedica “ai Mani” era quindi una sorta di “garanzia” spirituale e sociale, un modo per assicurare che il defunto ricevesse le dovute attenzioni nell’aldilà e che la sua memoria fosse onorata tra i vivi.

La formula D.M. aveva anche una funzione giuridica: dichiarando la tomba dedicata agli Dei Mani, la si rendeva sacra e inviolabile secondo il diritto romano. Profanare una sepoltura “ai Mani” era considerato un crimine punibile dalla legge.

Non sorprende, quindi, che questa sigla sia diventata una sorta di “marchio di fabbrica” delle epigrafi funerarie romane, ripetuta meccanicamente dai lapicidi e accettata da tutte le classi sociali. La sua diffusione fu così ampia e radicata che, anche quando il cristianesimo iniziò a diffondersi, la formula continuò a essere utilizzata, almeno nelle prime generazioni di fedeli.

D.M: una formula pagana, nelle lapidi cristiane?

Con la diffusione del cristianesimo nell’Impero romano, le comunità dei nuovi fedeli si trovarono a confrontarsi con una tradizione epigrafica consolidata e profondamente radicata.

Le prime generazioni di cristiani, pur portatrici di una visione religiosa e spirituale inedita, continuarono a utilizzare molti degli stessi formulari e delle stesse convenzioni delle iscrizioni pagane, inclusa la celebre sigla D.M. (Dis Manibus) sulle lapidi funerarie

Questa continuità non fu casuale. Da un lato, i lapicidi – spesso artigiani di scarsa alfabetizzazione – replicavano formule standard senza necessariamente conoscerne il significato profondo o la valenza religiosa. 

Dall’altro, la società romana era abituata a riconoscere in quelle abbreviazioni una sorta di “linguaggio ufficiale” della memoria dei defunti, che garantiva rispetto e protezione alla sepoltura. In questo contesto, la sigla D.M. mantenne la propria funzione di intitolazione e, allo stesso tempo, di elemento decorativo, anche nelle sepolture cristiane.

Gli studiosi concordano che i cristiani fossero generalmente consapevoli dell’origine non cristiana di queste formule, ma non le percepivano come in contrasto con la loro fede. Alcuni, come il Brusin, hanno sostenuto che “D.M., anche se proprio dei pagani, non offende la fede, il senso religioso dei cristiani, poiché le due lettere starebbero ad indicare lo spirito dei trapassati”. 

In alcuni casi, si trovano lapidi dove la sigla D.M. è stata incisa da una mano diversa rispetto al resto del testo, oppure è stata cancellata in epoca antica, a testimonianza di una certa flessibilità e della progressiva perdita di significato religioso della formula.

La presenza di abbreviazioni pagane nelle epigrafi cristiane riflette dunque un fenomeno di transizione e adattamento: per molto tempo, le nuove comunità cristiane continuarono a servirsi di un “vocabolario” funerario condiviso, in cui le formule tradizionali venivano svuotate del loro originario contenuto pagano e riutilizzate come semplici consuetudini epigrafiche.

Solo a partire dal V secolo, con l’affermarsi di un’identità cristiana più marcata anche nelle pratiche funerarie, l’epigrafia cristiana assunse caratteri propri, espressi da formule religiose specifiche, onomastica distintiva e riferimenti diretti alla fede nella resurrezione e nella vita eterna.

Questa fase di sovrapposizione e dialogo tra tradizione pagana e innovazione cristiana è ben documentata dalle iscrizioni delle catacombe e delle necropoli tardoantiche, dove simboli e formule dei due mondi spesso coesistono, testimoniando la complessità e la gradualità del cambiamento culturale.

Gli adattamenti cristiani delle iscrizioni pagane

Nel corso dei secoli, sono state avanzate diverse interpretazioni. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i cristiani abbiano tentato di “cristianizzare” la formula, reinterpretando le lettere D.M. come abbreviazione di Deo Maximo (“al Dio Massimo”), in riferimento al Dio unico del cristianesimo. Questa teoria, tuttavia, non trova riscontro nelle fonti antiche né in altre testimonianze epigrafiche, e la maggior parte degli esperti la considera oggi poco fondata.

Altri hanno suggerito che la sigla, ormai svuotata del suo significato originario, fosse percepita semplicemente come una formula di apertura, priva di reale contenuto religioso. In pratica, per i cristiani delle prime generazioni, D.M. era diventata una sorta di “frase fatta”, un elemento decorativo e convenzionale che non entrava in conflitto con la loro fede.

In alcuni casi, si riscontrano persino tentativi di “neutralizzare” la formula: alcune lapidi mostrano la sigla D.M. cancellata o incisa in modo poco visibile, come se si volesse rispettare la tradizione senza però attribuirle troppo rilievo. In altri esempi, la sigla compare accanto a simboli cristiani inequivocabili, come la croce o il chrismon, segno che la comunità cristiana non vedeva incompatibilità tra le due tradizioni.

L’adozione di formule pagane da parte dei cristiani non fu il risultato di ignoranza o di confusione dottrinale, ma piuttosto il segno di una transizione graduale, in cui le forme esteriori della tradizione romana venivano progressivamente svuotate del loro significato originario e adattate a una nuova visione del mondo.

Solo con il tempo, e con il consolidarsi dell’identità cristiana anche a livello sociale e istituzionale, si affermarono formule e simboli specificamente cristiani, segnando la definitiva separazione tra le due tradizioni. Nel frattempo, la presenza di abbreviazioni pagane sulle lapidi dei primi cristiani resta una preziosa testimonianza della complessità e della ricchezza di questo periodo di passaggio.