La battaglia del Monte Gindaro è uno scontro che si tenne nel 38 a.C, tra il generale romano Publio Ventidio Basso e il generale dei Parti Pacoro, figlio del Re Orode. La battaglia rappresentò una vittoria decisiva per l’esercito romano, e costituì una sorta di vendetta per la sconfitta subita da Marco Licinio Crasso a Carre, contro il generale partico Surena.
L’antefatto della battaglia del Monte Gindaro
Dopo che l’esercito romano guidato dal generale Marco Licinio Crasso aveva subito una pesantissima sconfitta nella battaglia di Carre, nel 53 a.C, i Parti avevano compiuto una serie di incursioni nel profondo del territorio romano d’Oriente.
Per contrastare gli attacchi era intervenuto il generale Gaio Cassio Longino, un sopravvissuto della battaglia di Carre, che in qualità di proquestore fu in grado di organizzare una forza militare in grado di difendere i confini romani.
Ma poco più tardi, nel 40 a.C, i Parti ritornarono sul posto con una forza militare ancora più grande e soprattutto con l’aiuto del ribelle romano Quinto Labieno, che fece passare dalla propria parte diversi legionari di stanza sui confini orientali.
In quel periodo storico, una gran parte delle truppe romane schierate in Siria erano ex repubblicani che avevano combattuto al servizio di Bruto e Cassio contro Marco Antonio: molti di loro passarono spontaneamente sotto il comando del loro compagno repubblicano Quinto Labieno, indebolendo ulteriormente i contingenti romani che dovevano proteggere i territori ad Oriente.
Marco Antonio, resosi conto della gravità della situazione, affidò il comando militare ad uno dei suoi migliori generali, Publio Ventidio Basso. Basso fece tesoro degli errori che Crasso aveva compiuto contro i Parti, e dotò il suo esercito di una grande quantità di arcieri e di frombolieri per controbattere le micidiali frecce Partiche.
Basso si rese conto inoltre che tutte le battaglie dovevano essere portate su un terreno collinare, dove la cavalleria dei Parti avrebbe avuto maggiori difficoltà a manovrare rispetto alle ampie distese tipiche del loro territorio.
Ventidio Basso attaccò e sconfisse Quinto Labieno assieme al generale dei Parti, Franipato, in una zona dell’Asia Minore. Labieno tentò di travestirsi da schiavo e di fuggire, ma venne prontamente catturato dalle forze di Ventidio Basso e immediatamente giustiziato.
Così i Parti furono costretti a ritirarsi presso il passo di Amanus, dove incontrarono ancora una volta le forze di Basso. I romani ottennero una nuova vittoria e i Parti furono costretti a ritirarsi dalla provincia di Siria.
La battaglia del monte Gindaro: svolgimento
Dopo aver subito una pesante battuta d’arresto, i Parti organizzarono una nuova invasione, sempre nella provincia di Siria, nel 38 a.C, guidati dal generale Pacoro, il figlio del Re Orode.
Ventidio, che aveva bisogno di guadagnare tempo per riorganizzare le sue truppe, giocò d’astuzia: fece arrivare un finto disertore da Pacoro, in quale informò il generale che sarebbe stato prudente attraversare il fiume Eufrate in una determinata zona.
Pacoro nutrì forti sospetti nei confronti di messaggero così prodigo di informazioni, decise di non fidarsi e scelse di attraversare il fiume molto più a valle: questo era esattamente quello che Ventidio sperava che accadesse. La deviazione decisa da Pacoro diede il tempo a Ventidio di preparare ulteriormente le sue forze per lo scontro.
I Parti poterono guadare l’Eufrate senza alcun disturbo da parte dei romani e procedettero incolumi verso la città di Gindaro, nella zona della Cyrrhestica: i Parti maturarono l’idea che i romani erano codardi e che avevano paura di loro, dal momento che non avevano minimamente tentato di fermare il loro percorso.
Quando arrivarono nei pressi della città, i Parti trovarono le legioni romane disposte in ordine di battaglia sui pendii di una collina. Non sappiamo se si trattò di un ordine di Pacoro o della semplice iniziativa dei soldati, ma l’esercito dei Parti attaccò il nemico immediatamente, salendo sui pendii della collina e attaccando l’avversario in salita.
Basso diede quindi ordine ai legionari di contrattaccare direttamente gli arcieri a cavallo dei Parti: se fossero stati ingaggiati rapidamente, senza avere il tempo di sfrecciare i loro dardi, sarebbero stati neutralizzati. I legionari si comportarono perfettamente, e arrivarono rapidamente ad un corpo a corpo con gli arcieri a cavallo, che dopo una breve mischia, batterono in ritirata, scendendo precipitosamente dalla collina ed investendo i loro compagni provocando grande scompiglio.
I Legionari erano pronti ad attaccare anche la cavalleria pesante dei Parti, che solitamente era di stanza ai piedi della collina, ma Ventidio li richiamò, sostituendoli con i suoi frombolieri, con l’obiettivo di investire la cavalleria pesante avversaria con un grandissimo numero di proiettili e di frecce, mirando soprattutto alla guardia personale dello stesso Pacoro.
I soldati romani riuscirono a identificare Pacoro, grazie alla sua armatura pregiata e vistosa: il generale partico venne raggiunto e ucciso insieme alla sua guardia del corpo.
La cavalleria partica sopravvissuta tentò di sfuggire alla furia dei romani, alcuni riuscendoci a malapena, altri morendo sul campo di battaglia.
L’esercito di Ventidio aveva così ottenuto una vittoria completa, che aveva scongiurato ulteriori attacchi Partici sul territorio.
Ventidio fu in grado anche di prevedere che i Parti avrebbero tentato di fuggire per la via da cui erano venuti e così posizionò la sua fanteria e cavalleria nel luogo che i superstiti avrebbero utilizzato per superare l’Eufrate: così, altri Parti in fuga vennero sistematicamente intercettati e catturati.
Ventidio avrebbe potuto inseguire ulteriormente i Parti per tutto il deserto, ottenendo una vittoria ancora più grande, ma scelse di ritirarsi per non incorrere nell’invidia di Marco Antonio, il generale più potente di quel periodo.