Di Parshia Lee-Stecum, Deputy Provost presso la Trobe University
Traduzione e adattamento di Alfredo Barrella
Gli aurighi dell’antica Roma non erano solo conosciuti come abilissimi conducenti di carri, ma anche per la loro fama controversa. Alcuni di loro raggiunsero lo status di vere e proprie celebrità, ma erano spesso visti anche come figure rozze e brutali. Questo era dovuto non solo alla natura violenta delle gare, ma anche all’aggressività dei loro tifosi, che contribuiva a rafforzare questa immagine.
La loro fama era ulteriormente complicata dal fatto che molti aurighi, pur essendo famosi, erano schiavi. Questo contrasto rendeva il loro ruolo ancora più affascinante ma anche inquietante agli occhi dei Romani.
Gli aurighi erano inoltre associati a pratiche superstiziose. Sono state trovate numerose defixiones, ossia maledizioni scritte, legate al mondo delle corse dei carri. Questi rituali, utilizzati dai sostenitori delle varie squadre per danneggiare gli avversari, hanno contribuito a rendere l’immagine degli aurighi ancora più ambigua e sinistra.
Le maledizioni legate agli aurighi sono tra i testi più violenti che ci siano pervenuti. Un esempio, trovato a Hadrumetum, invoca un demone affinché “torturi e uccida” (crucies occidas) i cavalli delle squadre avversarie. Non meno crudele è il desiderio di “uccidere e distruggere” (occidas collidas) gli stessi aurighi rivali (DT 286).
In altre tavolette ritrovate nello stesso luogo si leggono frasi come: “possa cadere, possa spezzarsi, possa essere fatto a pezzi” (cadat frangat disfrangatur, DT 279), un’ulteriore dimostrazione della violenza verbale tipica dell’ambiente circense.
A rafforzare l’idea del circo come luogo pericoloso è anche un passo di Cicerone, che descrive come “un auriga inesperto venga sbalzato dal carro, schiacciato, lacerato e ridotto a brandelli” (ut auriga indoctus e curru trahitur opteritur laniatur eliditur).
Il legame tra aurighi e magia
Fin dall’antichità, gli aurighi erano spesso associati alla magia. Nel IV secolo, lo storico Ammiano Marcellino li cita in relazione al veneficium (un termine che indicava pratiche magiche) in almeno tre episodi. In uno di questi (28.4.25), fa riferimento in generale alla classe degli aurighi. In un altro episodio, parla di un certo Auchenino, coinvolto in pratiche magiche insieme a quattro senatori (28.1.27). Infine, narra di un uomo di nome Ilarino, condannato per aver affidato il figlio a un mago (veneficus, 26.3.3).
È interessante notare che in nessuno di questi casi il veneficium è esplicitamente collegato al circo, anche se, nel caso di Auchenino, questa possibilità non è del tutto esclusa.
Più avanti, agli inizi del VI secolo, Cassiodoro rende ancora più esplicita la connessione tra aurighi e magia. Parlando di un auriga molto vittorioso, scrive:
“La frequenza delle sue vittorie faceva sì che fosse chiamato stregone. Quando non si può attribuire la vittoria al merito dei cavalli, si crede inevitabilmente che sia frutto di un inganno magico. Ma, tra gli aurighi, sembra quasi un onore essere accusati di tali crimini.
Questo legame tra successo e magia rafforzava la fama ambigua degli aurighi, visti tanto come campioni quanto come figure sospette.
Confrontando due testi del IV secolo, molto diversi tra loro, vorrei suggerire che queste associazioni (a prescindere dal fatto che fossero giustificate o meno) potrebbero essere state sfruttate dagli aurighi stessi.
Il più recente dei due testi chiave che prendo in considerazione è un editto del Codice Teodosiano, successivamente incluso, circa un secolo dopo, anche nel Codice Giustinianeo. Sebbene la raccolta nota come Codice Teodosiano risalga al V secolo, questa contiene testi giuridici per lo più antecedenti. Il Codice Teodosiano, 9.16.11, risale all’agosto del 389 (= Codice Giustinianeo, 9.18.9):
«Gli imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio Augusti ad Albino, prefetto della città. Chiunque venga a conoscenza, scopra o catturi una persona contaminata dalla macchia del maleficium, deve immediatamente consegnarla e presentarla agli occhi della legge e del popolo come un nemico comune della sicurezza.
Se qualcuno tra gli aurighi, o comunque appartenente a qualsiasi altra categoria di persone, tenterà di violare questo divieto, o infliggerà punizioni segrete anche a un reo di pratica magica, non eviterà l’estrema pena, essendo (egli stesso) sospettato per un duplice motivo: o per aver sottratto un colpevole alla severità delle leggi e al dovuto processo, per evitare che ne rivelasse i complici, o per aver eliminato, sfruttando la scusa del reato di maleficium, un proprio nemico personale.».
In questo editto, gli aurighi sono menzionati insieme ad altre categorie di persone (genera hominum) in relazione al maleficium (magia). Tuttavia, non vengono descritti come semplici stregoni: anzi, sono indicati come esecutori di punizioni contro coloro accusati di praticare magia.
Queste punizioni, però, sembrano aggirare i tribunali romani, privandoli del diritto di applicare le sanzioni previste dalla legge. Potremmo quindi trovarci di fronte a una forma di persecuzione contro presunti maghi, abbastanza frequente e grave da richiedere un intervento tramite editto imperiale.
Ma perché proprio gli aurighi come “vigilanti”? Forse perché, con la loro fama di personaggi brutali, erano visti come i più adatti a guidare azioni violente e potenzialmente rivoluzionarie?
L’editto stesso offre possibili spiegazioni. Potrebbe trattarsi di una scusa (nomen vindictae, “pretesto di vendetta”) usata dai vigilanti per coprire altre intenzioni: forse l’auriga eliminava testimoni scomodi o sfruttava l’accusa di magia per vendicarsi di nemici personali.
Il riferimento specifico agli aurighi sembra rafforzare il legame tra il circo e il mondo del veneficium. Allo stesso tempo, richiama la loro fama di violenza impulsiva e inarrestabile, che li rendeva protagonisti ideali di episodi di giustizia sommaria o vendetta.
Gli aurighi come mercenari
Riguardo al secondo testo, sebbene sia stato scritto vicino al 389, rispetto al primo, descrive un periodo di circa vent’anni prima. In effetti, mentre questo passaggio della Storia di Ammiano Marcellino proviene dal libro 28, che tratta principalmente degli eventi degli anni 368–372, il contesto immediato è una lunga invettiva contro le varie depravazioni della nobilitas romana durante i mandati dei prefetti Olibrio e Ampelio (368–372).
Tuttavia, come accade spesso nei passaggi moralistici, le censure di Ammiano potrebbero essere state percepite come applicabili in senso più ampio, e quindi non solo a quegli anni.
Nel corso dell’elenco delle attività di vari membri dell’élite romana («alcuni facevano questo… altri facevano quello… altri ancora facevano altre cose…» e così via), gli aurighi fanno una breve apparizione. Il passaggio in questione recita:
«Un altro, se nota che il suo creditore è troppo insistente, si rivolge a un auriga che, pronto a osare qualsiasi cosa, fa in modo che il creditore venga accusato come veneficus. Quest’ultimo non può liberarsi da tale accusa finché non paga pesanti spese. Inoltre, l’accusatore imprigiona il debitore consenziente come se fosse una sua proprietà e non lo rilascia finché non riconosce formalmente il debito».
Questo episodio mostra come gli aurighi non fossero legati solo alla violenza del circo, ma potessero essere utilizzati per scopi ben più sinistri, come manipolare la giustizia a vantaggio di chi li assoldava.
In queste circostanze, gli aurighi assumono il ruolo di veri e propri mercenari, pronti a compiere azioni illegali in cambio di denaro.
Questo tipo di comportamento non faceva che rafforzare la loro fama di individui pericolosi e senza scrupoli, temuti non solo per la loro abilità nelle corse, ma anche per la loro disponibilità a eseguire compiti violenti o illeciti nella vita quotidiana.
In alcuni casi, invece di agire come vigilanti, gli aurighi avevano il compito di accusare di veneficium (magia) il creditore del loro padrone. Questo ricatto obbligava il creditore a cancellare il debito o, peggio, a contrarre un nuovo debito con il padrone dell’auriga o persino con l’auriga stesso, evitando così le gravi conseguenze legali di un’accusa di magia.
Ma perché affidare proprio agli aurighi un compito simile? La risposta risiede nelle loro due caratteristiche distintive: la fama di violenza e il legame con la magia. Considerati criminali minacciosi e presumibilmente esperti di pratiche magiche, gli aurighi erano perfetti per intimidire e risultavano credibili come accusatori in casi di veneficium. Questa combinazione di violenza e superstizione li rendeva strumenti ideali per chi voleva piegare la legge ai propri interessi.
Confrontando il Codice Teodosiano (9.16.11) con il racconto di Ammiano Marcellino (28.4.25), si possono intuire alcuni dettagli su come la magia fosse usata in questi contesti. Tuttavia, anche se potrebbe sembrare che l’editto del 389 risponda direttamente alle tattiche descritte da Ammiano per il periodo 368–372, non esiste una prova certa di una relazione diretta tra i due testi.
È plausibile che il pretesto dell’azione vigilante fosse talvolta usato per coprire tentativi di ricatto falliti. In alcuni casi, i creditori potrebbero aver rifiutato di cedere alle minacce di un’accusa di veneficium (magia). A quel punto, l’auriga assoldato (o chi lo aveva incaricato) avrebbe potuto scegliere di eliminare il creditore, piuttosto che rischiare di esporre la falsità dell’accusa davanti a un tribunale, dove sarebbe stata facilmente smascherata.
In simili circostanze, dichiarare che l’auriga stava “liberando la società” da un mago poteva servire come comoda copertura per un omicidio. Tuttavia, per quanto affascinante possa essere questo scenario, non possiamo considerarlo altro che una supposizione, basata sulla giustapposizione dei due testi e non su prove certe.
La magia nel mondo romano
Pertanto, l’esame congiunto di questi due testi suggerisce alcune riflessioni più generali su come la ‘magia’ potesse funzionare nel IV secolo.
Essi potrebbero rappresentare alcune delle poche prove romane in cui la magia venga strumentalizzata in relazione alla reputazione personale. Se è vero che gli aurighi erano comunemente associati alla pratica magica, questa presunta competenza poteva conferire maggiore credibilità alle loro accuse di magia contro altri. In altre parole, magistrati e giurie romane potevano essere più inclini a credere agli aurighi su questioni legate alla magia, poiché si riteneva che avessero una conoscenza speciale di tali pratiche.
Inoltre, essendo essi stessi sospettati di veneficium, l’accusa di complici nella pratica magica da parte di un auriga poteva avere un peso particolare. Gli aurighi (e coloro che li assoldavano per questi scopi) avrebbero dunque sfruttato la propria fama per perseguire fini oscuri, sebbene del tutto privi di magia reale.
Da questo punto di vista, è interessante la relazione tra il successo e la reputazione di essere un ‘mago’ (maleficus) che Cassiodoro identifica poco più di un secolo dopo: una tale reputazione era in realtà vista come qualcosa di positivo (magnum praeconium, ‘un grande elogio’) per via della sua associazione con la vittoria, riflettendo così l’abilità e il potere dell’auriga in pista.
Non è forse così incongruo che una reputazione così potente potesse essere utilizzata per esercitare potere in altri ambiti. Tuttavia, il rovescio della medaglia di una simile tattica, come dimostra il testo del Codice Teodosiano, era che il tentativo di sfruttare la propria fama di mago poteva ritorcersi contro chi la sfruttava per scopi personali, confermando così i pregiudizi generali sul suo genus hominum (‘tipo sociale’).
Ciò, come abbiamo visto, viene esplicitato dalla minaccia secondo cui gli aurighi, o altri che accusassero le proprie vittime di essere malefici, sarebbero stati essi stessi sospettati di complicità nello stesso crimine. Anche senza l’editto, il rischio di incriminarsi accusando altri appare evidente. Se il bluff fosse stato smascherato, un ricattatore avrebbe potuto esitare prima di portare avanti l’accusa pretestuosa.
Manovre di questo tipo erano estremamente rischiose, ma bisogna ricordare che un altro elemento cruciale nella scelta degli aurighi per un compito del genere era la loro fama di violenza, inclusa la loro propensione ad affrontare conseguenze violente.
Questo aspetto era almeno tanto importante quanto la loro associazione con la magia, poiché la vittima sapeva che gli aurighi non avrebbero esitato ad agire in modo precipitoso qualora la situazione fosse degenerata.
Se l’associazione con la magia riesce a suggerirci qualcosa su ciò che gli aurighi stavano facendo in questo contesto, tali personaggi potrebbero offrirci indizi anche sui significati e gli usi della magia nella cultura romana.
La maggior parte degli aurighi, come la maggior parte dei gladiatori, aveva lo status di schiavo. Tuttavia, potevano aspirare a una forma di status sociale elevato, come dimostra l’ammirazione che alcuni di loro sembrano aver ricevuto persino da membri dell’élite romana.
Sembrano certamente aver ottenuto un certo grado di indipendenza sociale e persino ricchezza, condizioni raramente riscontrabili tra gli schiavi.
Questa combinazione di due ambiti sociali apparentemente incompatibili – la condizione di schiavo e lo status di celebrità benestante – sfuma i confini sociali tradizionali di Roma. Come osserva J. P. Toner:
«Aurighi, gladiatori, attori vennero a rappresentare una nuova classe elitaria nell’immaginario popolare. Queste icone divennero potenti forze trasversali della società; erano gli assi attorno ai quali ruotavano i conflitti, e furono loro a cui i Romani si rivolsero per risolvere le loro dispute. Si creò una nuova interfaccia tra l’élite tradizionale e il popolo, ma ciò suscitò anche preoccupazioni morali su cosa significasse per le identità tradizionali un tale indebolimento dei confini sociali».
Questo aspetto dunque è indicativo di come la percezione della magia funzioni nella società romana. Alcuni storici della magia infatti hanno sostenuto che essa diventa operativa proprio quando si percepisce che tali confini sociali stiano per crollare.
Così la magia acquista almeno due funzioni peculiari: 1) essa agisce come un segnale di allarme riguardo al possibile crollo di tali confini; 2) serve come strumento per affermare, riaffermare o stabilizzare quei confini, evidenziando una trasgressione.
Segnalare qualcosa come inaccettabile aiuta a definire ciò che è accettabile e a controllarlo. La magia, a questo punto, fa da sfondo ad una contesa, e può quindi essere impiegata come arma in tale conflitto.
È una possibile manovra nel dibattito su ciò che è socialmente legittimo o illegittimo. La vittoria in un simile conflitto può, ovviamente, avere conseguenze molto pratiche, come liberarsi dei propri creditori o eliminare altri nemici; tuttavia, sebbene la disputa possa sfociare in un contenzioso legale, il conflitto in sé può sempre trasformarsi in qualcosa di più grande.
In verità, gli aurighi non rappresentano l’unico esempio di questa ‘trasgressione legata’ all’etichetta di ‘mago’. Due tra i più noti casi di accuse di magia nell’antica Roma, separati da oltre trecento anni, illustrano bene questo concetto.
Due esempi di accuse di magia
Il processo a Gaio Furio Cresimo, riportato da Plinio il Vecchio (Storia Naturale 18.8.41–43), risale al II secolo a.C., probabilmente intorno al 190 a.C. Cresimo, un contadino proprietario di un piccolo appezzamento di terra, viene accusato di veneficium dai suoi vicini, che vedono il suo successo economico crescere mentre le loro più ampie proprietà non producono altrettanta prosperità.
L’episodio, così come riportato da Plinio, offre proprio quegli elementi che gli studiosi associano alle accuse di magia nel mondo antico. Per esempio, l’accusa contro Cresimo avviene in un contesto di competizione: accusare di magia è un mezzo semplice per attaccare un rivale più prospero che, altrimenti, non offre alcun motivo apparente per essere accusato.
Fritz Graf ha sottolineato un ulteriore aspetto: lo status di Cresimo come liberto, un elemento che Plinio evidenzia chiaramente (C. Furius Cresimus e servitute liberatus, «Gaio Furio Cresimo, liberato dalla schiavitù»). In quanto tale, Cresimo è un ‘impostore’ agli occhi dei suoi vicini: che un liberto riesca a ottenere maggiore successo e ricchezza rispetto ai suoi vicini nati liberi rappresenta una sovversione dei tradizionali confini e gerarchie sociali, una sorta di ‘rovesciamento del divario originario’, come lo definisce Graf; ciò alimenta l’accusa di magia.
Il secondo esempio, ancor più noto, è il processo di Apuleio per magia, che si svolse nella città di Sabrata, in Nord Africa, intorno al 160 d.C. Il filosofo fu accusato di aver utilizzato la magia per sedurre una ricca vedova, Pudentilla.
Dal punto di vista della comunità locale di Oea, città natale di Pudentilla, ed in particolare agli occhi dei suoi accusatori, Emiliano ed Erennio, membri della famiglia della vedova, Apuleio era un estraneo: sebbene quest’ultimo fosse nato in Nord Africa, aveva comunque studiato ad Atene e a Roma, e, pertanto, era un prodotto della cultura urbana dell’Impero romano.
Anche in questo caso quindi, colui che attira l’accusa di magia è un outsider che minaccia di sovvertire le strutture tradizionali della comunità e della famiglia, incluse «le aspettative riguardanti l’eredità»: Apuleio ottiene una ricchezza e uno status percepiti come inappropriati per una figura del genere.
Come in questi casi individuali, anche gli aurighi potevano essere percepiti come aspiranti a un potere sociale che non apparteneva loro per tradizione. La ‘magia’ diventa così uno strumento per esprimere, evidenziare e potenzialmente demonizzare la trasgressione e l’illegittimità associate a tali figure.
In un simile contesto, la giustapposizione dei due testi analizzati potrebbe suggerire che gli aurighi coinvolti stessero cercando di trasformare una loro vulnerabilità in una possibile forza.
La loro ambigua posizione sociale era probabilmente proprio il tipo di condizione in grado di attrarre la percezione o l’accusa di magia, con conseguenze potenzialmente spiacevoli per chi veniva così etichettato.
Ma tale ambiguità offriva anche un potere che, a quanto sembra, alcuni aurighi romani riuscirono a sfruttare; un potere del tutto indipendente da eventuali attività rituali che potessero praticare o meno, scaturito dalla loro posizione sociale ambigua e dal ruolo della magia che veniva percepita, nella cultura romana, come vero e proprio distintivo sociale.
insomma: gli aurighi romani avevano una pessima ma importante reputazione, e alcuni di loro non esitavano a sfruttarla.