Era l’anno 80 dopo Cristo quando l’Urbe, gonfia d’orgoglio e di potenza dopo aver restaurato il proprio volto all’indomani della devastazione degli incendi e delle purghe imperiali, si accingeva a imprimere una nuova, solenne impronta nella storia convocando le prime Olimpiadi romane. Con questa scelta, l’imperatore Tito Flavio volle suggellare il proprio regno con un gesto capace di eguagliare il mito ellenico e, al tempo stesso, superarlo, testimoniando a tutto il mondo che Roma era ormai la legittima erede non solo del potere, ma anche dei valori e delle tradizioni universali emersi dagli antichi giochi greci.
Lo scenario, imponente e solenne, era quello del neonato Anfiteatro Flavio, più tardi noto come Colosseo: un monumento che da solo bastava a evocare la smisurata ambizione di un popolo deciso a coniugare i fasti della gloria con la grandezza delle pietre. Al cospetto di una folla accorsa da ogni angolo dell’impero, fluttuando tra i velaria che proteggevano le teste dai raggi implacabili, le nuove Olimpiadi romane presero il via tra sacerdoti, senatori, atleti e uomini comuni, gettando un ponte ideale tra il passato glorioso dell’Ellade e la realtà stratificata, fragorosa, multiforme di Roma. La cerimonia d’inaugurazione fu uno spettacolo che nessun poeta seppe mai rendere appieno: la processione di vittime sacre destinate all’altare di Giove Capitolino, cori di giovinetti in tunica, il tripudio delle insegne delle legioni, le grida dei commercianti, l’eco di suoni che si fondevano in un unisono tanto caotico quanto potente.
Ma i fasti delle prime Olimpiadi romane non si limitarono all’apparenza. Gli atti degli antichi storici ci raccontano come, tra la polvere della sabbia e sotto lo sguardo di effigi dorate, si alternassero prove atletiche modellato sulle gare elleniche, demonstrate con una perizia nuova e un’energia che i contemporanei ritennero superiore a quella degli avi. Le corse, la lotta, il pugilato, ma anche nuove discipline di matrice pseudo-etrusca, si mescolavano secondo un copione che alternava il rispetto della tradizione all’innovazione romana. La gara dello stadion, la corsa armata, il pentathlon e l’agone poetico furono ricreati con un rigore quasi filologico – come narrano Flavio Giuseppe e Svetonio, citando gli annalisti imperiali –, ma subito arricchiti da elementi sorprendenti: il pubblico di Roma, a differenza di quello greco, era numeroso, composito, rumoroso e, in molti casi, straniero. Qui atleti africani sfidavano traci, avversari galli combattevano gladiatori italici, mercanti siriani osservavano con stupore le prodezze dei giovani provenienti dalle province più remote del limes imperiale.
Emergono così, dalle cronache di quei giorni, le figure emblematiche dei primi vincitori olimpici di Roma. Le fonti, se pure spesso reticenti nei dettagli dei nomi – con la prudenza tipica del tempo per non rischiare di trasfigurare la memoria imperiale – disegnano ritratti vividi: giovani dalle membra bronzee, cresciuti nei ginnasi di Ostia, Costantinopoli, Antiochia e Cartagine, ragazzi forgiati non solo da fatica, ma da un ideale nuovo, romano, secondo cui la disciplina personale era uno strumento di gloria collettiva piuttosto che di esaltazione individuale. Si narra, con spirito degno di Virgilio, della figura di Marco Spurio, che batté tutti nella corsa con la lancia, o di Crispino di Brindisi, il primo a salire sul podio nel pentathlon, portando l’olivo sacro donato dagli organizzatori direttamente alle statue degli dei capitolini.
La partecipazione degli atleti, tuttavia, costituì anche fonte di tensione. Il modello delle Olimpiadi greche escludeva rigorosamente donne e schiavi, ma Roma, con la sua apertura pragmatica e la sua tensione a integrare, permise la partecipazione di liberti e, seppure in rarissimi casi e tra mille polemiche, anche di alcune donne in discipline artistiche parallele. Questa innovazione suscitò sia ammirazione che scandalo presso la classe senatoriale più conservatrice, come tramandano alcune lettere raccolte da Plinio il Vecchio, scandalizzato del fatto che il popolo potesse accettare la modernità anche nelle arene dedicate agli dei e agli antenati.
Tuttavia, dietro le quinte dei fasti olimpici, già si stagliavano le ombre di gravi disastri e controversie. Innanzitutto, la logistica si rivelò precaria. Roma era affamata di eventi, ma il flusso ininterrotto di spettatori costrinse l’organizzazione a ricorrere a mezzi improvvisati per gestire alloggi, rifornimenti d’acqua e cibo, sicurezza. L’incendio di alcune gradinate in legno durante la processione di apertura, citato da Cassio Dione, testimoniò la fragilità di strutture non ancora allo stato dell’arte, che potevano rapidamente trasformarsi in trappole mortali. La calca agli ingressi creò numerosi incidenti, e non mancarono episodi di furti, aggressioni e scontri con le forze di ordine pubblico: Roma, allora come oggi, era città di grandi entusiasmi ma anche di altrettanto grandi pericoli, specie quando la folla si lasciava trascinare dal fervore.
La corruzione delle gare rappresentò una ferita dolorosa per l’immagine della nuova Roma olimpica. Già ai tempi di Nerone – che aveva tentato una proto-olimpiade personale qualche decennio prima, gareggiando egli stesso e modificando le regole per garantirsi il successo, sotto occhi beffardi degli atleti ellenici – si erano manifestate pratiche di favoritismo e accordi sottobanco fra giudici, senatori e investitori stranieri. Ma fu sotto Tito che le testimonianze letterarie ci raccontano di corse truccate, di atleti comprati, di giudici corrotti, di arbitri improvvisati chiamati a sedare risse nello stadio. Simbolo di questa crisi fu l’espulsione di un atleta proveniente dalla Spagna che, stando alle indagini di Svetonio, aveva tentato di drogare l’avversario con una mistura rubata agli alchimisti africani.
Se i fasti olimpici, insomma, avevano proiettato Roma nell’olimpo delle grandi città dell’antichità, i suoi disastri evidenziavano le difficoltà di rendere universale un modello tanto ambizioso quanto eterogeneo. Un altro elemento di fragilità fu il rapporto, sempre ambiguo e teso, fra dimensione sacra e spettacolare dell’evento. Mentre in Grecia la competizione era considerata un’ascesa spirituale, nei primi giochi romani la componente religiosa rischiava spesso di diluirsi nella ricerca dello spettacolo. Cassio Dione e Svetonio accomunano nella critica i giovani che, pur istruiti dai sacerdoti a offrire sacrifici agli dei prima delle gare, non esitavano poi a lasciarsi coinvolgere in pratiche di scommessa e bagordi notturni. L’arena diventava così, soprattutto nei giorni finali dei giochi, un gigantesco mercato delle vanità, dove i veri vincitori erano talvolta i demagoghi, gli appaltatori di ludi e gli scommettitori professionalizzati più che gli stessi atleti.
Al contrario, la presenza di stranieri diede ai giochi un respiro internazionale mai visto fino ad allora. Delegati delle province orientali portarono nuovi tipi di lotta e acrobazie, i numidi sfoggiarono cavalli d’una rapidità che i romani stessi ritenevano magica, i siriani si distinsero in gare di poesia e musica che lasciarono attonito anche il pubblico meno incline alle arti. Era, questa, la vera potenza della “romanità olimpica”: la capacità di accogliere, riformulare, arricchire, anche ai limiti dello snaturamento, le tradizioni di tutti i popoli compresi nell’orbita romano-imperiale.
Non tutto, però, andò come previsto. Vi furono crisi alimentari causate dall’assalto delle folle ai magazzini cittadini, carestie di vino che provocarono tumulti negli accampamenti provvisori degli atleti e delle delegazioni, furti di offerte religiose e, nelle giornate più caotiche, persino piccoli incendi appiccati ad alcune aree esterne per regolare vendette private – sono questi i disastri minori, ma emblematici, che la storiografia antica cita come monito sui rischi delle manifestazioni di massa.
La chiusura delle prime Olimpiadi romane fu accompagnata da una solenne processione religiosa sotto gli archi trionfali addobbati a festa, ma la memoria collettiva preferì spesso ricordare più le tensioni che i trionfi. Alcuni atleti proclamati vincitori furono poi oggetto di ricorsi e squalifiche; altri, accoltellati da rivali gelosi o umiliati in pubblico da senatori avversari, abbandonarono per sempre la città eterna. Nel giro di pochi anni, numerose cronache letterarie e raccolte di epitaffi dimostrarono quanto il ricordo dei primi giochi imperiali fosse diviso fra l’entusiasmo popolare e l’amarezza degli addetti ai lavori, molti dei quali denunciarono la trasformazione dello sport da rito collettivo a semplice spettacolo politico-propagandistico.
Tra i protagonisti occorre citare la figura carismatica di Tito, che aveva voluto fortemente i giochi, illudendosi di poter coniugare le virtù dell’antichità con lo spirito pratico e universale dei suoi soldati. Tito stesso, nella sua orazione conclusiva tramandata da Svetonio, sottolineò come l’intento fosse portare la pace fra i popoli e dare lustro all’impero, ma già allora, dietro la retorica dell’imperatore, serpeggiavano le critiche per i costi esorbitanti della macchina organizzativa. Gli annalisti ricordano che le casse pubbliche furono svuotate per assicurare il fasto degli allestimenti, salvo poi tassare i mercanti e perfino i pensionati pur di finanziare il grande sogno olimpico. La popolazione, ben presto, finì col dividere la memoria dell’evento fra chi ne aveva goduto gli splendori e chi ne aveva subito le ombre.
Anche il rapporto fra sport e politica – uno dei temi di fondo della romanità – veniva messo a nudo dai giochi. I quartieri popolari, esclusi dalla gara per ragioni economiche o non invitati alle esibizioni pubbliche, scivolavano spesso nell’apatia, mentre il Senato e i patrizi si accaparravano posti di prestigio e, non di rado, producevano candidati propri per vincere nelle discipline artistiche. Così Roma rivelava, proprio in quei giorni, la propria doppia anima: grandezza di visione e spietatezza di interessi, passione collettiva e individualismo sfrenato, senso dello Stato e vana ricerca di fama personale.
Fra le pieghe di questo gigantesco spettacolo umano, la letteratura seppe cogliere spunti memorabili. Marziale, spettatore attento e spesso sarcastico, descrisse i godimenti e i miasmi delle notti olimpiche, quando la città si trasformava in un immenso teatro senza regole. Tacito, più attento al risvolto politico, mise in guardia sulle derive dell’universalismo olimpico: un popolo disperso nei divertimenti rischiava di dimenticare i doveri civili, e la stessa virtù romana pareva vacillare nelle mani di giudici stranieri. Tuttavia, per molti, le Olimpiadi restarono uno degli ultimi grandi gesti di pace dell’impero, la dimostrazione che, pur tra mille contraddizioni, Roma poteva ancora presentarsi come cerniera fra civiltà diverse, capace di trasformare, almeno per qualche giorno, la tensione delle armi nella gara leale, e la paura nella speranza di una rinascita collettiva.
Al tramonto di quell’estate dell’80 dopo Cristo, la città si risvegliò come reduce da una festa pagana. I segni dei fuochi e degli eccessi erano ancora visibili sulle colonne dei templi e sulle pietre delle strade. Gli atleti superstiti lasciarono Roma tra applausi e fischi, portando con sé corone d’alloro e medaglioni di bronzo. I poeti, tra ironia e nostalgia, cantarono per decenni la memoria di quei giorni, mentre gli addetti ai lavori si divisero tra chi sognò nuove, più grandi Olimpiadi e chi rimpiangeva l’austerità dell’antica Grecia.Il colpo d’occhio che rimane impressa alla fine, osservando la città – dilaniata ma anche rigenerata dai giochi – è una metafora della storia romana stessa: una tensione costante tra fasti e disastri, tra desiderio d’eternità e inevitabile fragilità umana. Le prime Olimpiadi romane non furono un semplice adattamento di un rito antico, ma una vera e propria reinvenzione di una memoria collettiva, divenuta presto modello e monito per le generazioni future. Le antiche fonti, nel riportarne i dati e i ricordi, offrono lo spaccato indimenticabile di una civiltà in bilico fra il sogno di grandezza e la realtà dei propri limiti. Un insegnamento universale, ancora oggi attuale, dove la linea tra gloria e sconfitta è sottile almeno quanto la sabbia consumata sotto i passi degli atleti romani e le grida della folla in un Colosseo che, allora come ora, non smette mai di raccontare.
Fonti storiche primarie consultate:
- Cassio Dione, “Roman History” (libri LXVI-LXVII, traduzione inglese)
- Svetonio, “De Vita Caesarum – Tito” (traduzione inglese)
- Flavio Giuseppe, “The Jewish War” (traduzione inglese)
- Marziale, “Epigrammi” (Epigrams, traduzione inglese)
- Tacito, “Annales” (Annals, traduzione inglese)
- Plinio il Vecchio, “Naturalis Historia” (traduzione inglese)