Di Bernard Pouderon, Professore lettere classiche presso l’Università di Tours
Traduzione e adattamento di: Alfredo Barrella
San Pietro è mai stato realmente a Roma? Ed è stato davvero martirizzato nella città?
Grazie all’epistola di San Clemente, conosciuta come la “prima lettera di papa Clemente I”, della fine del I secolo e indirizzata alla chiesa di Corinto, siamo in possesso di una delle poche testimonianze sulla venuta di San Pietro a Roma nonché di un possibile martirio dell’apostolo avvenuto a Roma.
La prima traccia: il pronome ἡμῶν
Possiamo ragionare sulla veridicità del mistero della venuta di San Pietro a Roma attraverso due elementi filologici molto caratteristici del testo in lingua greca: il pronome ἡμῶν e la gelosia, quest’ultima identificabile nella parola greca zēlos, ripetuta per ben 7 volte.
Relativamente al pronome ἡμῶν, l’espressione “Λάβωμεν πρὸ ὀφθαλμῶν ἡμῶν τοὺς ἀγαθοὺς ἀποστόλους…” (capitolo V dell’epistola di Clemente) pone l’accento sulla natura di questi apostoli.
La particolarità che sta nell’uso del pronome ἡμῶν (nostri) sta nel fatto che, a seconda della sua posizione nel testo e della parola che determina, è suscettibile di diverse interpretazioni. Pertanto, tra le tante, Cullmann propone la lettura “tutti i nostri apostoli”: potrebbe trattarsi di quella giusta, tenendo conto che la stessa espressione appare anche al capitolo XLIV, 1.
In questi casi dunque si tratta di una lettura non generica del pronome. Talvolta, ἡμῶν comprende la doppia comunità di Roma e Corinto: «Mettiamoci davanti agli occhi» (V, 3); «Non subiremmo un danno leggero, se ci lasciassimo andare al volere degli uomini (sediziosi)» (XIV, 2) ecc. Inoltre, volendo, ἡμῶν potrebbe applicarsi al popolo ebraico, unito al nuovo Israele, per salutare Abramo con il titolo di «nostro padre» (XXXI, 2), e così via.
Ma è qui che apriamo alla domanda: ma allora, questi apostoli, o meglio Pietro, è mai giunto o no a Roma? Dunque, si potrebbe semplicisticamente pensare che l’insieme dei cristiani sia stato evangelizzato dagli apostoli, anche se nessuno di questi fosse venuto a Roma.
Di conseguenza, dalle seguenti parole di Clemente è evidente il riferimento ad una “arena comune” tra apostoli di Corinto e apostoli romani: «Vi scriviamo questo, carissimi, non solo per ammonirvi (voi = Corinzi), ma per metterci in guardia noi stessi (noi = Romani), perché siamo (voi e noi) nella stessa arena; lo stesso combattimento ci attende. Lasciamo dunque da parte le preoccupazioni vane e inutili; allineiamoci alla gloriosa e venerabile regola della nostra tradizione (cioè quella dei cristiani) e contempliamo ciò che è bello agli occhi di Colui che ci ha creati (noi = genere umano)…» (VII, 1-3).
Ed è a questo punto che il discorso si fa più interessante. Se bisogna leggere (V, 3): «Mettiamoci davanti agli occhi i valorosi apostoli», il pronome non è privo di significato. Clemente introduce più volte questi esempi con la parola λάβωμεν. Se qui specifica «sotto i nostri occhi», è perché si tratta di un’immagine che Clemente e i suoi destinatari possono visualizzare. L’autore desidera probabilmente richiamare alla memoria dei suoi destinatari un’immagine familiare, ovvero “comune”: quella degli apostoli, di cui conoscono la bontà e che hanno dato il minor appiglio possibile alla gelosia.
Tuttavia, questi sono solo indizi, capaci di creare una certa presunzione riguardo alla venuta di san Pietro a Roma.
L’altra traccia: la parola Zēlos
Come dicevamo poc’anzi, zēlos è il termine greco che indica la “gelosia”, dalla quale i valorosi apostoli prendono le distanze. Gli esempi di gelosia presentati da San Clemente nei capitoli IV-VI della sua lettera formano una doppia serie di sette.
Intanto, ciò che a noi deve maggiormente interessare riguarda quelli che egli chiama “i generosi esempi della nostra generazione”, e, più specificatamente, questi primi 3 punti di 7:
- È per effetto della gelosia e dell’invidia che furono perseguitati coloro che erano le colonne più elevate e giuste, e che combatterono fino alla morte.
- Mettiamoci davanti agli occhi i valorosi apostoli: Pietro, che, per effetto di un’ingiusta gelosia, soffrì non una o due, ma numerose pene, e che, avendo così reso la sua testimonianza, si recò al soggiorno della gloria che gli era dovuto.
- È per effetto della gelosia e della discordia che Paolo dimostrò quale fosse il valore della pazienza: sette volte incatenato, esiliato, lapidato, diventato araldo in Oriente e Occidente, ricevette la gloria splendente che la sua fede gli aveva meritato; avendo insegnato la giustizia al mondo intero, raggiunto le estremità dell’Occidente e reso testimonianza davanti ai governanti, lasciò il mondo e si recò al luogo santo, illustre modello di pazienza.».
Per comporre questi esempi, Clemente opera una sorta di sdoppiamento: distingue Pietro e Paolo.
Ora, San Clemente distingue i due apostoli dalla “folla dei martiri” non per ragioni cronologiche, ma logiche. Non ci dice se Pietro o Paolo siano stati martirizzati prima o dopo gli altri cristiani della persecuzione neroniana. Tuttavia, sottolinea che il loro esempio di vita santa fu in grado di radunare attorno a loro una comunità di fedeli.
Due verbi chiave nel testo greco aiutano a chiarire la questione:
- “πολιτευσαμενος” (avere condotto una vita santa): San Pietro e San Paolo avevano già dimostrato la loro santità prima del martirio, non dopo la morte.
- “συνθροισθεισα” (si era radunata): La comunità di martiri che Clemente cita si era riunita attorno a Pietro e Paolo in un tempo precedente alla loro morte, o al momento del loro martirio.
Questa scelta linguistica suggerisce che la folla non poteva unirsi agli apostoli se non fossero già stati a Roma.
Non esistono prove che San Pietro e San Paolo siano stati i primi martiri della persecuzione neroniana. Lo stesso Tacito, storico romano, non menziona l’attenzione di Nerone rivolta a Pietro in particolare. Ma la tradizione e la lettera di Clemente suggeriscono fortemente la loro presenza a Roma:
“Con questi uomini” (Pietro e Paolo), scrive Clemente, “si era radunata una grande folla di eletti”, lasciando un “magnifico esempio” a Roma. Questa frase implica che Pietro e Paolo si trovavano effettivamente a Roma, perché lì la comunità cristiana si raccolse intorno a loro.
San Clemente non dice che Pietro e Paolo portarono per primi il Vangelo a Roma. È probabile che missionari anonimi avessero seminato la fede cristiana in città prima del loro arrivo. Ma come spiega lo studioso Paul Monceaux, le comunità cristiane consideravano “fondatori” coloro che organizzavano e consolidavano la fede in modo definitivo. In questo senso, Pietro e Paolo furono riconosciuti come i “veri fondatori” della Chiesa di Roma.
Secondo Clemente, il martirio di Pietro e Paolo non necessita di specifiche sul luogo, poiché ai suoi tempi era un fatto ampiamente noto. Ciò che conta è l’esempio della loro vita santa: la santità dei due apostoli fu talmente evidente da unire i cristiani romani in una comunità forte e coesa.
La lettera di San Clemente non è una prova definitiva, ma offre una forte probabilità storica della presenza di Pietro a Roma.