Nel cuore della Firenze trecentesca, tra i vicoli che risuonano ancora dell’eco della Commedia, un interrogativo seduce storici e appassionati di cucina: quale cibo sfamava Dante Alighieri e i suoi contemporanei? Aprire il sipario sulla tavola medievale significa addentrarsi oltre le nebbie di stereotipi e racconti folklorici: il piatto quotidiano di un poeta non è mai banale, racchiude universi di simboli, privazioni, e, a volte, vere e proprie stranezze. Un solo morso, nel Trecento, poteva condurre attraverso sentieri di superstizione, devozione, scienza e piacere, narrando la storia d’Italia ben prima dei manuali scolastici.
Per tentare di ricostruire la dieta di un fiorentino colto come Dante, occorre immergersi nella letteratura medicale e culinaria del tempo; la Scuola Medica Salernitana, nel suo celebre “Regimen sanitatis Salerni” e i ricettari come il “Libro per cuoco” anonimo veneziano, sono lo specchio del pensiero alimentare dell’epoca. Non erano solo consigli pratici: il cibo era parola e allegoria, materia e spirito. Persino le cronache delle grandi famiglie, i menù cerimoniali e i trattati di igiene pubblica documentano il valore che la società attribuiva a nutrirsi bene, con misura e secondo il ritmo liturgico dell’anno.
Mangiare, per Dante, non era solitudine. Lo si faceva in compagnia, spesso in sale dove si parlava di politica e poesia. La cultura medievale vedeva nella convivialità uno spazio sacro, tanto che la “lectio mensae”, la lettura ad alta voce durante i pasti, era pratica diffusa nei conventi. Ma cosa metteva davvero in bocca il poeta? Nulla di simile ai bistecconi moderni o ai raffinati risotti: la dieta era essenziale e, per certi versi, sorprendente.
Il pane, simbolo di civiltà e misurazione stessa del tempo (“Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui,” recita Dante nel Paradiso), era onnipresente. Tuttavia, il pane del Trecento era spesso misto, composto da orzo, segale, spelta o farro; il bianco era riservato ai più ricchi. Il “Regimen sanitatis Salerni” consiglia esplicitamente di scegliere pane “bruno”, perché meno raffinato e, secondo la medicina di scuola greca, più sano e sostanzioso. Un pane, dunque, rustico, a volte condito con fava (che i medici dell’epoca, come testimonia il “De observatione ciborum” di Anthimus, consigliavano e temevano insieme, attribuendole proprietà ambivalenti tra nutrimento e insalubrità).
Accanto al pane, le minestre – o pottage – non potevano mancare. Una delle ricette più comuni, presente tanto nei testi italiani quanto in quelli francesi e inglesi (come nel “Viandier” o nel “The Forme of Cury”), era il brodo di legumi: ceci, lenticchie, piselli e fave erano cotti a lungo con aromi come prezzemolo, porri e aglio. Fondamentale era il controllo della “qualità umorale” degli alimenti, secondo il principio galenico. Il “Regimen” raccomanda minestre semplici e poco grasse per le nature calde, più ricche per quelle fredde. Le spezie non erano solo vezzo esotico, ma strumento medico; lo zafferano, il pepe, il cumino e il coriandolo comparivano con frequenza, donando calore agli umori e nobilitando anche il cibo dei poveri.
Sorprende notare quanto la carne fosse rarefatta nella dieta quotidiana. Nel “Libro per cuoco” del Trecento si trovano sì ricette di carni arrostite e bollite, soprattutto per giorni di festa e pranzi cerimoniali, ma nella realtà quotidiana si mangiavano soprattutto parti “povere”: trippa, interiora, lingua e piedi. Il manzo era raro, più comuni erano ovini, suini, pollame e, soprattutto, selvaggina in certe stagioni: i cinghiali, i cervi, le lepri. Nelle città, però, la carne era spesso prerogativa delle classi alte, mentre la gente comune sosteneva la propria dieta con formaggi freschi (cacio, robiola, ricotta) e uova. Il “Regimen sanitatis Salerni” insiste sul consumo moderato delle uova, “né troppo cotte né troppo crude”, per non squilibrare l’organismo; regole osservate e tramandate anche dagli autori del “Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria”.
Il pesce era invece pane quotidiano, specialmente nelle numerose giornate di magro imposte dal calendario liturgico. Testi come il “Libro della cucina” dell’Anonimo Toscano offrono ricette di “anguilla in agrodolce” (con aceto, miele e spezie), di merluzzo, di stoccafisso e, sorprendentemente, di animali oggi impensabili: rane, lumache e persino istrici. L’olio d’oliva, per quanto prezioso, veniva riservato ai piatti delle zone produttrici e diventava spesso ingrediente per piatti di pesce o verdure. Il lardo, più a buon mercato, era il grasso preferito nelle cotture della carne.
La frutta aveva un ruolo centrale, consumata fresca o conservata in forma di confetture, sciroppata in miele o cotta con spezie. Spesso veniva servita all’inizio o alla fine del pasto, secondo un ordine che la dietetica medievale imponeva per favorire la digestione. Le mele cotogne, le pere, l’uva e soprattutto le noci entravano sia nelle pietanze dolci sia in quelle salate. Il vino era, insieme all’acqua (che però si beveva raramente pura), la bevanda principale in tavola: “vino annacquato” o vino speziato (claretum, hypocras), preparato con cannella e chiodi di garofano, costituiva un vero nettare per i ricchi, mentre i poveri ricorrevano volentieri alla birra e persino alla sidra.
Un aspetto affascinante sono le “stranezze” che oggi ci sembrano bizzarre ma che nel Medioevo erano normali: la cottura delle carni in salse dolci, arricchite di miele e uvetta (come documentano numerosi passi nel “Viandier” francese); il largo uso di aceto e mostarda come conservanti e correttori di sapore; la consuetudine di inserire frutta secca, come datteri e prugne, anche nei piatti di pesce, in nome di un’equilibrata combinazione tra i “quattro umori”. Persino il famoso “castrone” arrosto finiva irrorato di succo d’arancia amara, secondo la raffinata moda importata dagli arabi in Sicilia e documentata nell’“Anonimo Veneziano”.
Le tavole dell’élite – le uniche talvolta descritte nei menù di corte conservati in archivi come quello di Parigi o di Ferrara – erano costellate di capolavori della cucina-scultura: cigni arrostiti, pavoni ricoperti delle proprie piume, pietanze colorate con zafferano e spirulina, impasti che imitavano animali fantastici. Ma la quotidianità, anche per uno come Dante, rimaneva semplice: pane, minestre di legumi, latticini, qualche uovo, ortaggi a foglia larga (bietole, cavoli, verze), cipolle e porri erano i protagonisti. Un piatto tipico descritto nei ricettari è la “minestra di farro”, cotta lungamente con aromi e formaggio – un vero comfort food ante litteram.
Le commemorazioni religiose e le feste offrivano però l’occasione di sperimentare nuovi sapori, ricorrendo a ricette codificate. Durante la Quaresima, la “zuppa di mandorle” (a base di latte di mandorla, pane, zucchero e cannella) era molto popolare, testimoniando l’ingegnosità medievale nell’evitare carne e latticini di origine animale. Il “Libro della cucina” indica anche piatti come lo “sformato di anguilla”, cotto in vino bianco e arricchito di spezie orientali; una rarità, segno della presenza, sulla tavola dei ricchi, dei traffici con l’Oriente, tanto esaltati nella Commedia.
I dolci, spesso riservati agli ultimi momenti dei banchetti, erano appannaggio di chi poteva permettersi zucchero o miele: torte di mele e pere, crostate arricchite con mandorle, biscotti speziati e confetti di anice. Il gusto per l’agrodolce era costante: non mancavano nei testi le ricette di “mostarda”, un condimento ottenuto con mosto d’uva cotto, spezie e frutta secca, usato tanto sulla carne quanto sul pesce.
Un capitolo a parte merita la medicina. Nei manuali di dietetica come il “Regimen sanitatis Salerni”, si sottolinea più volte il rapporto tra cibo e salute: mangiare troppo poco portava malinconia, troppo portava biliosità. Ogni alimento riceveva una valutazione precisa secondo il sistema dei “quattro umori”: caldo, freddo, secco, umido. Questa visione scientifica si innestava nella pratica quotidiana: per esempio, il pesce d’acqua dolce, considerato “freddo e umido”, esigeva di essere servito con salse calde e speziate a compensare il bilancio degli umori.
Alcuni dettagli sorprendono ancora: il vino si aromatizzava con fiori di viole e petali di rose, i grassi si alternavano secondo la stagionalità, il cibo era spesso servito in piatti comuni, da cui si attingeva ognuno con il proprio cucchiaio di legno o di stagno. La forchetta, inesistente sulle tavole europee sino al tardo Medioevo, avrebbe scandalizzato Dante, che mangiava con le mani, secondo un preciso galateo non meno stringente della nostra etichetta.
La sazietà, tuttavia, era sempre incerta: secondo il “De observatione ciborum” di Anthimus e la vasta letteratura del tempo, la povertà alimentare era la norma. La carne era riservata a pochi, gli avanzi venivano subito reimpiegati, il concetto di “spreco” era quasi sconosciuto. Le cronache narrano di carestie in cui perfino la crusca diventava pane, misto a legumi e ortaggi raccolti nei boschi.
Eppure, in questo contesto, la cucina medievale era tutt’altro che monotona e ripetitiva. Da nord a sud, le differenze regionali si avvertivano già in età dantesca: la Sicilia arabo-normanna privilegiava gli agrumi e i piatti speziati, l’Emilia Romagna la pasta ripiena (già documentata in alcune fonti), il Veneto il riso, la Toscana i legumi e la selvaggina. Le stesse tecniche di conservazione – salagione, affumicatura, essiccazione – modificavano la materia viva del cibo, creando un mosaico di sapori che Dante, nelle sue pagine, tratteggia qua e là, come quando descrive l’abbandono a voracità bestiali delle anime dei golosi.
Oggi, recuperare le ricette del tempo di Dante significa riscoprire una cucina antica, fatta di pazienza, penuria e ingegno. Le parole dei trattati ci restituiscono il gusto del viaggio: dal pane misto all’orzo, alla minestra di farro e porri; dalla trota al forno con agrumi amari, all’arrosto di castrone irrorato di miele e spezie; dalla zuppa di mandorle al pane di crusca, dalla robiola fresca alla grande protagonista invernale, la rapa. Ognuna di queste pietanze racconta la società che le ha generate, la lotta quotidiana per il benessere e la salute, ma anche la capacità di trovare poesia perfino nella fame.
Oltre le abbondanze dei banchetti signorili e le privazioni delle plebi, il cibo medievale conserva ai nostri occhi il fascino di un mistero da svelare – un po’ come il verso nascosto nella Commedia. Immaginare Dante a tavola oggi, con un tozzo di pane bruno fra le dita e qualche mestolo di zuppa di legumi davanti, è forse la maniera più autentica per sentire ancora vivo lo spirito di un tempo in cui la fame, la festa e la fede sedevano sempre, insieme, alla stessa mensa.
Fonti primarie utilizzate:
- “Regimen sanitatis Salerni”, traduzione inglese di Thomas Paynel (1535) e Sir John Harington (1617).
- “De observatione ciborum” di Anthimus, traduzione ufficiale in inglese (6° secolo).
- “Libro per cuoco” anonimo veneziano, traduzione moderna inglese di Louise Smithson (XIV secolo).
- “Anonimo Toscano, Libro della cucina”, traduzione inglese di Ariane Nada Helou (2013).
- “Viandier” (francese), traduzione inglese di James Prescott (XIII-XIV secolo).
- “Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria”, in traduzione inglese (XIV secolo).
- “De flore dietarum”, attribuito a Constantino Africano, ed. Piero Cantalupo; referenza alla tradizione inglese del XIII secolo.
- Menù cerimoniali e ordinanze di corte riportati in “Antiquitates culinariae” a cura di Richard Warner (1791).