Le navi da guerra romane e le tattiche navali del mondo antico

La potenza di Roma si espresse anche e soprattutto sul mare.

I romani erano considerati navigatori di “acque dolci” come i fiumi del Lazio o dell’entroterra, ed effettivamente, quando arrivarono alla prima guerra punica contro i Cartaginesi, che avevano al contrario secoli di tradizioni navali alle spalle, sembravano destinati a soccombere.

Non potrete nemmeno lavarvi le mani nel mare“, avvertirono da Cartagine.

E invece, i romani svilupparono la più potente flotta navale del mondo antico, diventando i completi dominatori del Mediterraneo, che venne ribattezzato “Mare Nostrum” o anche “Il lago privato di Roma“.

Tutto questo fu possibile grazie alle straordinarie caratteristiche delle navi romane, e alle tattiche di combattimento, in cui la marina militare dell’Antica Roma toccò punte di eccellenza assoluta.

La bireme

La bireme era così chiamata per via dei due ordini di remi di cui disponeva.
Lunga circa 23 metri e larga 3, la bireme era l’unità più piccola dell’intera flotta navale, e veniva utilizzata per il trasporto di uomini, di alcune merci e di equipaggiamento, oppure con funzioni di avanscoperta o ricognizione.

Non si tratta di una imbarcazione particolarmente armata: notiamo solamente a prua un accenno di “rostro”, o sperone in legno, accompagnato, come tutte le navi da guerra, da scritte benauguranti o piccole immagini sacre.

Aveva a disposizione due vele: la prima, al centro della carena, la più grande, e una seconda più orientata verso la prua.

Sulla poppa, oltre che al timone per governare la direzione, anche la postazione del comandante, accompagnata dallo stendardo della legione di appartenenza.

La liburna

Si trattava di una variante della bireme, con delle caratteristiche abbastanza simili ma con un perfetto bilanciamento e particolarmente adatta a dei rapidi cambi di direzione.

L’idea della liburna era venuta ai romani dai pirati. Nella zona della odierna Croazia, vi erano delle aree chiamate Istria, Liburnia e Dalmazia. Erano terre dominate da terribili ed efficienti pirati, che avevano sviluppato proprio questo tipo di imbarcazioni per compiere le loro scorrerie.

Osservandole, Marco Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano Augusto, aveva pensato di copiarne lo stile.

Furono queste imbarcazioni ad essere decisive nella battaglia di Azio nel 31 d.C, lo scontro che consegnò il potere definitivo nelle mani di Augusto ai danni di Marco Antonio e di Cleopatra.

La trireme

Con 40 metri di lunghezza e 5 metri e mezzo di larghezza, e tre file di remi, la trireme era l’unità da combattimento più nota e abbondante nella flotta romana.

La sua funzione era di combattimento e di mischia: erano le prime ad entrare in contatto durante uno scontro navale e la versione certamente più abbondante.

Sulla prua, appena sotto il pelo dell’acqua, un vero e proprio rostro. Si trattava di uno sperone realizzato in bronzo o in ferro, studiato per colpire e bucare il fasciame della nave avversaria. Vicina al rostro, altri due speroni più piccoli, che avevano il compito di allargare lo squarcio e peggiorare il danno dopo il colpo.

Sempre vicino alla prua, un piccolo ponticello d’assalto. Era una specie di scala realizzata in legno e con dei pioli, al termine della quale era posizionata una punta acuminata, perfetta per incastrarsi una volta calata.

La nave si avvicinava, abbassava il ponticello e agganciava inesorabilmente l’imbarcazione avversaria. Attraverso il ponte, i soldati romani potevano passare e trasformare la battaglia da navale a corpo a corpo, dove eccellevano particolarmente.

Lungo il bordo della nave correva anche una sporgenza che permetteva di ospitare dei legionari, anche questa una idea che favoriva l’abbordaggio degli avversari.

Ma non solo: lungo tutto il ponte della nave erano posizionate delle piccole ma efficaci armi di artiglieria. Le più comuni erano certamente gli scorpioni, delle strutture maneggevoli che consentivano di scagliare una freccia o un giavellotto ad incredibile velocità e potenza.

Similmente, gli onagri: erano delle piccole costruzioni in legno e metallo che lanciavano delle palle di piombo o di ferro contro le navi che si avvicinavano ad una certa distanza.

Insomma: tutta la nave rappresentava una vera e propria piattaforma di tiro che rendeva estremamente pericolosa la trireme.

Verso la poppa, si trovava anche una piccola torretta rinforzata: era il luogo dove si appostavano degli arcieri, che erano efficacemente nascosti dallo sguardo dei nemici, ma che potevano tenere sotto tiro chiunque capitasse entro la gittata di un normale arco romano.

Sul fondo, sempre la posizione del comandante e lo stendardo della legione.

La quadrireme

Era una l’unità navale immediatamente successiva alla trireme, entrata in servizio a partire dal principato di Augusto.

Con quattro ordini di remi, aveva un potente rostro, e al posto di un semplice ponticello di assalto, era dotata questa volta di un vero e proprio piccolo corridoio, formato da un paio di assi di legno e un corrimano per evitare di cadere in acqua, spinti dai nemici.

Una costruzione snella ed efficiente che dava molta stabilità e consentiva di far passare un grande numero di soldati in poco tempo.

Le vele erano sempre due, ma più grandi e posizionate in maniera più centrale lungo la carena.

Rimangono invariate le armi di artiglieria, mentre la torretta degli arcieri è ancora più alta e fortificata. A volte potevano essere addirittura due.

In poppa, sempre il comandante e l’insegna della legione.

La quinquireme

Con cinque file di remi, era lunga 48 metri e larga 8 e mezzo.

Assomigliava molto alla quadrireme ed era quella che più risentiva dell’influsso dell’ingegneria cartaginese, da cui i romani copiarono abbondantemente.

Era leggermente più veloce della quadrireme e costituiva l’unità armata più grossa ed imponente della flotta.

I corvi potevano essere due: uno a prua e l’altro a poppa, per un abbordaggio da due punti contemporaneamente.

L’esareme

Era una nave di grandissima stazza con sei ordini di remi.

In realtà non veniva utilizzata per il combattimento, ma per il trasporto dell’ammiraglio e degli ufficiali delle legione. Era la nave del generale, che ispirava fiducia nelle altre unità e guidava l’intera operazione militare.

Non era dotata di un corvo, ma di due alte torri di guardia con un grande numero di soldati e di arcieri a protezione dello stato maggiore dell’esercito.

Aveva una sola, grande vela quadrata di colore porpora: il colore dei generali.

La caudicaria

Questa nave serviva per i trasporti, sia per mare che per fiume.

Si trattava di una grossa nave dalla carena bassa e piatta, una vera e propria chiatta, perfetta per trasportare una grande quantità di qualsiasi cosa.

Dai soldati, all’equipaggiamento e alle armi, ma anche macchine di artiglieria o di assedio, fino a torrette rinforzate in ferro o costruzioni imponenti.

Quando doveva scaricare, era abitudine attaccare una serie di buoi o animali da traino ad uno dei due bordi dell’imbarcazione, per avvicinarla alla riva e inclinarla leggermente, in modo da favorire lo sbarco delle attrezzature più pesanti.

Le tattiche navali della Roma antica

Una volta schierate in mare, la navi romane seguivano una serie di tattiche fondamentali che derivavano dall’esperienza greca e che vennero poi ottimizzate dai generali nel corso del tempo.

Mentre sulla terra si tende a posizionare il nucleo più forte dei propri uomini al centro e sull’ala destra, in mare era il contrario. La navi più potenti erano posizionate sulle ali, mentre il centro costituiva la parte più mobile e “liquida” dello schieramento.

Di norma, erano le navi più agili e maneggevoli a dare il via al combattimento, seguite da quelle più pesanti che intervenivano in un secondo momento.

L’affondo con il rostro

Il primo e più elementare metodo di attacco era quello di speronare la nave avversaria sul fianco attraverso il rostro, sfasciando la costruzione e facendo imbarcare acqua al nemico.

Le operazioni dei rematori venivano saggiamente organizzate e coordinate con i comandi che venivano impartiti dall’alto.

Il colpo di rostro doveva essere ben calibrato: doveva sicuramente avere una forza sufficiente per forare le protezioni dell’imbarcazione avversaria e creare uno squarcio sufficientemente ampio.

Ma se la forza propulsiva fosse stata eccessiva, il rostro si sarebbe addirittura conficcato e le due navi sarebbero rimaste incastrate. Cercando di disincagliarsi, la nave attaccante avrebbe potuto perdere il rostro e imbarcare acqua a sua volta.

L’attacco era quindi paragonabile ad una “pugnalata” ben assestata che doveva però ritrarsi altrettanto efficacemente per non diventare una azione controproducente

Il periplo

Il periplo era una tecnica da utilizzare quando si disponeva di un numero superiore di imbarcazioni rispetto all’avversario e quest’ultimo si posizionava in una sola fila di navi.

Dal momento che la propria fila di unità, schierate ordinatamente, era più lunga di quella dell’avversario, si cercava di avvicinarsi e di far convergere i propri fianchi su quelli del nemico, per circondarlo.

In questo modo si inglobava completamente il nucleo di navi nemiche che senza scampo venivano affondate.

Era la prima e più elementare tecnica che si tentava di utilizzare in mare

Il periplo con variante

Quando le proprie navi erano in inferiorità numerica, il periplo andava adattato ad una situazione di svantaggio.

In questo caso il nemico aveva una fila di navi più lunga rispetto alla propria. Si cercava allora di utilizzare le proprie ali per attaccare e tenere impegnate le ali dell’avversario.

Al centro, invece, le imbarcazioni tenevano la prua dritta contro il nemico in modo da mantenere una posizione normale, ma indietreggiavano con una mossa calcolata, per dare l’impressione che stessero perdendo terreno ed attirare le navi avversarie in un imbuto, in una trappola.

Quando la fila avversaria era stata divisa sostanzialmente in tre, le navi centrali invertivano la marcia e si facevano sotto.

Così, la forza numerica del nemico veniva compensata dividendone le forze.

Il Diekplous

Tecnica sopraffina e molto insidiosa.

A fronte di un nemico che schierava la proprie navi in una sola fila, si creava per contro una colonna, in fila indiana, di imbarcazioni che puntavano al centro dell’avversario.

Quando la prima nave della fila stava per entrare in contatto, un lato dei rematori iniziava di punto in bianco a remare all’indietro, mentre l’altro manteneva l’andatura in avanti.

Questa azione provocava un rapidissimo “giro” della nave di 90 gradi che andava rasente al nemico e ne rompeva i remi. La nave poi si allontanava e la seconda della fila si accaniva sull’imbarcazione colpita, che senza una parte della rematura aveva una possibilità di movimento alquanto limitata.

Se qualche altra nave nemica avesse tentato di andare in soccorso, le altre unità in fila avrebbero ripetuto la stessa manovra.

L’obiettivo era rompere lo schieramento avversario in due, e renderlo più debole.

Per questa tattica esistevano alcune contromisure. La prima era quella di avvicinare le navi le une alle altre per togliere lo spazio necessario alla manovra.

La seconda era quella di posizionare le proprie navi su due file, in modo che la seconda fila avrebbe potuto attaccare le navi in colonna. Questo, però, significava restringere il fronte della proprie navi, ed esporre lo schieramento al pericolo di periplo classico.

Il cerchio

Quando l’avversario aveva un numero soverchiante di unità e non vi erano i presupposti per vincere, si adottava una misura di estrema difesa, in attesa di poter fuggire o dei rinforzi.

Le navi venivano posizionate in cerchio con la prua rivolta verso l’esterno. In questo modo, ci si chiudeva letteralmente “a riccio” e il primo che avesse cercato di avvicinarsi sarebbe stato ripetutamente attaccato da una serie di rostri in sequenza.