Le navi di Nemi, gigantesche imbarcazioni costruita dall’imperatore Caligola, rappresentano una delle più gravi perdite in tutta la storia dell’Archeologia. Recuperate dopo secoli di tentativi, andarono infatti bruciate nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
Le navi dell’imperatore Caligola
Le gigantesche navi di Nemi vennero fatte costruire da Caligola, controverso appartenente alla dinastia Giulio-Claudia. Inizialmente gli storici ritenevano che l’imperatore volesse solo assecondare la propria megalomania, ma più recentemente la presenza nel lago del Santuario monumentale di Diana Aricina, ha fatto comprendere agli esperti che le navi avevano una funzione cerimoniale.
La prima, lunga 71m e larga 20, era dotata di remi e la seconda, lunga 75m e larga 29, era invece trainata a rimorchio: le navi ebbero non solo una funzione religiosa ma diventarono addirittura la residenza ufficiale dell’imperatore.
Le imbarcazioni erano davvero gigantesche: posizionate in orizzontale occupavano 5 campi da tennis, mentre in verticale sarebbero state più alte di un palazzo di 20 piani. Erano più grandi della HMS Victory, la nave con cui l’ammiraglio Horatio Nelson vinse la battaglia di Trafalgar, e oggi sarebbero di dimensioni simili ad una nave corvetta o ad un pattugliatore della marina militare.
Lo scafo era composto da un misto di legno di pino, abete e quercia e sull’esterno era stato posizionato un vasto strato di lana, imbottita di sostanze impermeabili, rafforzato da fogli di piombo abilmente inchiodati.
Oltre alla presenza di un rostro sulla prua, la prima nave era dotata su ogni lato di un corridoio per ospitare 30 coppie di rematori. Il ponte della nave, adornato da splendidi mosaici, era dominato da un grande piazzale ed una serie di colonne che andavano a costituire un vero e proprio portico.
Protagonista della nave era un tempio, con colonne doriche alte 4 metri. Tutta la nave era ricoperta di lamine di rame, affinché splendessero con la luce del sole.
Le navi di Nemi avevano inoltre delle soluzioni tecniche straordinarie come l’utilizzo di àncore avveniristiche per i tempi e tecnologie simili ai moderni cuscinetti a sfera. Addirittura, sotto il ponte erano stati posizionati alcuni pilastrini di terracotta, che permettevano da un lato di mantenere la superficie stabile per sostenere il tempio, e dall’altro di conservare l’elasticità del legno dello scafo.
I tentativi di recupero medievali e rinascimentali
Durante l’epoca tardo imperiale, le navi di Nemi affondarono nel lago. Ma la loro memoria non venne affatto cancellata, tanto che ancora nel Medioevo erano diffuse leggende sull’esistenza delle antichissime navi di Caligola. Spesso, diversi pescatori recuperavano casualmente ma regolarmente reperti che confermavano la loro presenza sul fondale.
Solo nel rinascimento partirono i primi tentativi di recupero. Nel 1446, il cardinale Prospero Colonna, appartenente alla potentissima famiglia romana dei Colonna, incaricò l’architetto Leon Battista Alberti di escogitare un metodo per il recupero delle navi.
Secondo un testimone oculare, Flavio Biondo, vennero utilizzate delle botti vuote affinché galleggiassero, sulle quali era stata costruita una zattera e posizionate alcune macchine per il recupero, dotate di lunghe funi che terminavano con degli uncini, per arpionare le navi e trascinarle fino alla riva.
Posizionata la struttura, alcuni nuotatori genovesi vennero incaricati di immergersi e di attaccare gli uncini alle navi. Purtroppo, queste erano talmente gigantesche e pesanti che il tentativo di Battista Alberti fallì miseramente e, anzi, gli uncini causarono danni alle imbarcazioni.
Più tardi, nel 1535, lo speleologo ed ingegnere bolognese Francesco De Marchi tentò di raggiungere le navi con un approccio diverso. De Marchi utilizzò infatti una campana di legno dotata di un oblò in corrispondenza del volto e che lasciava libere le braccia e le gambe, una sorta di antenato dello scafandro.
Dopodiché, si calò per raggiungere le imbarcazioni: il primo tentativo fu interrotto perché De Marchi cominciò a sanguinare dal naso e dalla bocca, ma dopo essere riemerso ed essersi ripreso, lo speleologo fu in grado di raggiungere finalmente le navi e di osservarle da vicino. Secondo il suo stesso racconto, riuscì ad intravedere delle meravigliose stanze, ma ebbe paura di addentarsi per timore di rimanere bloccato e non poter risalire.
Un tentativo simile avvenne nel 1827, da parte di Annesio Fusconi, che utilizzò una versione più raffinata dello scafandro noto come “Campana di Halley”, dotato di una pompa d’aria. Fusconi fu in grado di raggiungere le navi e di asportare diverso materiale tra cui lamine di rame, pezzi di mosaici, oggetti di grande valore e decorazioni. Tuttavia il materiale, una volta riemerso, venne immediatamente rubato.
Qualche anno dopo, nel 1895, il ministero della Pubblica Istruzione incaricò la famiglia Orsini di procedere ad un nuovo tentativo. Gli Orsini scelsero Eliseo Borghi il quale, sempre utilizzando una sorta di scafandro, riuscì a raggiungere le navi. Questa volta, la spedizione si trasformò in un vero e proprio saccheggio. Ghiere in bronzo, tegole dorate, pezzi di mosaici e lastre di porfido vennero trafugate e rivendute sul mercato.
Così, i responsabili del Governo italiano vietarono di eseguire nuovi tentativi.
In realtà, agli inizi del Novecento, si capì che l’unico metodo possibile per recuperare le navi di Nemi non era quello di arpionarle e trascinarle sulla riva, quanto piuttosto di abbassare il livello delle acque.
Il recupero delle navi di Nemi in epoca fascista
Nel 1927, durante il periodo fascista, Mussolini diede ordine di recuperare le navi di Nemi sfruttando la nuova tecnica. Grazie al fondamentale apporto delle “Costruzioni meccaniche Riva”, guidate dall’Ing. Guido Uccelli, quattro gigantesche idrovore cominciarono a prelevare l’acqua dal lago, che venne poi fatta convogliare in una galleria sotterranea, la stessa utilizzata dai Romani secoli prima, opportunamente ripulita ed allargata.
In sei mesi vennero asportati 5 milioni di metri cubi d’acqua. Famosa è la foto scattata il 20 ottobre 1928, dove Mussolini osservava lo svuotamento del lago di Nemi, appoggiato alla balaustra.
Finalmente, dopo centinaia di anni, il 28 marzo 1929 la prima nave cominciò ad affiorare e gli archeologi di tutto il mondo si precipitarono per osservare l’evento. Nel gennaio del 1930, anche la seconda nave vide finalmente la luce.
Abilmente trainate e riparate a riva, coperte da teli bagnati perché il legno non subisse danni, si pensò immediatamente ad imbastire un museo apposito. L’incarico venne affidato all’Arch. Vittorio Morpurgo, che costruì il “Museo delle navi romane”.
Si trattava di un doppio hangar, realizzato interamente in calcestruzzo, che venne completato su tre lati, e solo dopo aver fatto entrare le navi, richiuso con la quarta parete. Si trattava di un vero e proprio “museo su misura” per le navi di Nemi, dotato di meravigliose vetrate e di una terrazza panoramica per osservare dall’alto il lago.
Rapidamente, il Museo delle Navi romane divenne un orgoglio italiano nel mondo, che attraeva regolarmente migliaia di visitatori.
L’incendio delle navi di Nemi
Le navi di Nemi furono tragicamente distrutte da un incendio durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo l’ipotesi più accreditata, quella della commissione di inchiesta del 1946, composta da architetti, ingegneri, vigili del fuoco ed esperti di artiglieria, i responsabili furono i soldati tedeschi.
Il 31 maggio 1944, vennero visti quattro cannoni tedeschi, guidati da un reparto di artiglieria, avvicinarsi all’entrata del museo, mentre i soldati allontanavano i custodi. Successivamente, un pesante bombardamento dell’aviazione anglo-americana aveva colpito il territorio, fino alla mattina del 31 maggio.
Dopodiché, era iniziato un intenso cannoneggiamento, durato fino alle 20:15. Alle 21:15, un custode avrebbe visto un lume aggirarsi all’interno del museo, mentre alle 22.00 sarebbe divampato l’incendio, causato dagli artiglieri tedeschi.
Il 2 giugno, i nazisti si sarebbero ritirati, lasciando dietro di loro solamente le ceneri delle navi di Nemi.
Recentemente, sulla base di questo rapporto realizzato per lo stato italiano, il comune di Nemi ha addirittura chiesto un risarcimento alla Germania per la distruzione di questo tesoro inestimabile.
Una teoria alternativa, appoggiata dal Prof. di storia contemporanea Pietro Cappellari e dell’Arch. Giuliano Di Benedetti, afferma invece che l’incendio si sarebbe verificato dopo la partenza dei tedeschi, e i veri responsabili sarebbero stati gli sfollati o i partigiani.
In particolare, le centinaia di sfollati in fuga dai bombardamenti si sarebbero riparate durante la notte all’interno del museo. Presi dalla paura e dal freddo, avrebbero utilizzato il legno delle navi per dei piccoli fuochi di fortuna, che si sarebbero poi accidentalmente propagati al resto delle imbarcazioni.
Oppure, i responsabili potrebbero essere stati i partigiani, che del tutto inconsapevoli della reale età delle navi, le avrebbero scambiate per strutture fasciste. Così, al grido di: “Diamo fuoco alle navi di Mussolini!”, avrebbero volontariamente appiccato le fiamme al museo.
Oggi, delle navi di Nemi non rimane più nulla, se non alcune ricostruzioni in legno, tutt’ora presenti nel museo, e diversi oggetti decorativi originali.