Di Jacob Hammer, Università di Vienna
Traduzione e adattamento di Riccardo Troiano
Le donne dell’antica Roma consideravano la bellezza un dono ricevuto dagli dèi. Ma, allo stesso tempo, erano consapevoli che gli anni scorrono e che rughe e capelli grigi sono inevitabili. Il poeta d’età augustea Ovidio racconta che, sotto il regno di Tazio, le donne sabine avrebbero addirittura preferito coltivare i campi paterni piuttosto che impegnarsi costantemente nella cura del proprio corpo.
Ma nel mondo romano, la cultura della bellezza femminile assunse contorni ben diversi. Durante il periodo imperiale, l’ideale di bellezza femminile era senza dubbio rappresentato dalla culta puella, la ragazza raffinata.
Il portamento
Era dunque richiesto un portamento leggiadro e grazioso, venustum et incessum, in cui emergevano soprattutto oculi flagrantes, occhi splendenti, e capelli sciolti sul collo. I Romani, dunque, individuavano nella donna un corpo leggiadro, capace di trasmettere magnificenza e grazia. Accanto a un tale esempio di bellezza femminile erano possibili anche venustas, eleganza e motus animi, animo energico.
Un segreto della bellezza femminile nell’antica Roma era, però, la spontaneità. Un valido esempio è offerto dal poeta del I secolo d. C., Orazio, nella figura mitologica di Pirra, che seduce un ragazzo più giovane simplex munditiis (con semplice eleganza), nonostante la maggiore età. Non era necessario, inoltre, che una donna apparisse in pubblico, mostrando la sua ricchezza. L’abbigliamento femminile non mostrava, quindi, ricami dorati e non ostentava pietre preziose. Al contrario, l’autore latino Giovenale afferma che, per una donna, indossare abiti sontuosi risulta addirittura volgare.
I capelli
Le donne dell’antica Roma prestavano una delicata cura ai propri capelli. In antichità, la pettinatura risultava assai semplice: i capelli erano raccolti in un nodo sulla nuca (coma religare), talvolta annodati e posti sulla parte alta della testa.
Durante l’età imperiale, invece, le acconciature erano variegate. I capelli erano talvolta semplicemente sciolti o avvolti in trecce o ancora decorati con fili d’oro e fermagli. Alcune donne indossavano anche delle parrucche con onde curate o ricamavano riccioli artigianali, raggiungendo anche una considerevole altezza.
Questa scelta era propria anche delle imperatrici, che hanno sfoggiato un propria acconciatura secondo l’epoca vissuta. Alcune delle statue che le ritraevano erano addirittura dotate di parrucche rimovibili e, quando la moda cambiava, era adottata una nuova acconciatura, rimuovendo quella precedente.
Innumerevoli erano i prodotti per i capelli, utilizzati anche dagli uomini, come unguenti, pomate ed oli. Il loro acquisto era garantito dagli unguentarii, anche definiti ungropolae dal commediografo Plauto. I nomi più diffusi erano quelli di capillare, cinnamea o semplicemente unguenta. I più facoltosi impiegavano anche il malobathrum Syrium, importato dalla città di Antiochia.
La letteratura latina riporta i loro nomi in diverse opere, come in quelle del poeta Catullo, che descrive un unguento ricevuto dall’amata Lesbia, o del satirico Orazio, che descrive un giovane come perfuas liquidis odori bus, mentre il naturalista Plinio il Vecchio, nella sua Storia Naturale, elenca molte ricette per la produzione di questi prodotti.
Sono addirittura giunti fino a noi anche i nomi di alcuni unguentarii, come Niceros, i cui prodotti erano chiamati Nicerosiana, e Cosmus, i cui emporetica Cosmusiana erano assai famosi. I loro prodotti hanno goduto di una buona reputazione fino al V secolo, testimoniando come anche nell’antichità il nome del produttore fosse sinonimo di qualità.
Il sorriso
I denti erano molto osservati, tanto che solo alle persone con una perfetta dentatura era consigliato di ridere o sorridere. La cura dei denti era affidata a dentifrici e polveri, come la spuma nitens, utilizzata principalmente dalle donne, così come riportato da alcuni autori latini.
Il poeta Marziale (xiv. 56) ironizza in uno dei suoi versi: «Dentifricio: cosa hai a che fare con esso? Ma mi fai ridere! Non sono forse abituato a lucidare entrambi i denti?» I denti artificiali erano ottenuti dalla lavorazione di osso e avorio e successivamente uniti con fili d’oro.
I denti rovinati erano spesso il risultato di un alito cattivo. Le donne affette da questo problema erano ammonite e invitate a mantenersi distanti dai loro ammiratori. L’alito cattivo era parzialmente eliminato grazie a pastiglie o lozioni (pastilli), prodotte dagli unguentarii, anche se scolorivano i denti quando usati in eccesso.
Le persone affette da cattivo odore corporeo erano chiamate spiros o hircus. I profumi erano usati frequentemente in questi casi, seppur non ottenessero un risultato garantito.
Trucchi di bellezza
Un altro strumento per la cura del corpo era l’alipilus, un depilatore specifico per le ascelle. Seneca narra di un uomo che si vantava della propria abilità nello strappare i peli, mentre braccia e gambe venivano depilate con pietra pomice o con preparati a base di resina e argilla.
L’aggettivo candidus descrive la carnagione ideale delle donne romane, definita dal poeta Properzio “bianca come il giglio” (ii. 3, 12). Per accentuare il colorito, alcune applicavano del fucus, una tintura rossa ottenuta facendo bollire la radice di robbia, sulle guance e sulle labbra.
Il rossetto, chiamato erubes, si ricavava dai sedimenti del vino o dalle prugne. Per rendere la pelle del viso liscia, si utilizzavano oli mescolati, a cui talvolta veniva aggiunta della cera per attenuare le rughe, anche se questa preparazione andava rimossa al mattino per evitare effetti indesiderati.
Le donne si abbellivano anche con polveri e tinture a base di zafferano, usate come un moderno mascara. Frine, nelle Eccles., si lamentava delle palpebra infectae (palpebre colorate artificialmente), commentando che le sopracciglia disegnate non ispiravano virilità, ma indignazione.
La freschezza del viso veniva preservata con cure meticolose. Di notte si applicavano creme speciali, una delle quali prevedeva una preparazione curiosa: orzo inumidito con urina di capra, unito a uva passa senza semi, pestata in un mortaio di granito, e poi miscelato con miele. Si credeva che questa crema rimuovesse le macchie e ammorbidisse la pelle, rendendola più brillante di uno specchio.
Per eliminare le imperfezioni, si usava la cosiddetta “crema alcione”, preparata con nidi di alcione e miele. Erano noti anche i cerotti di bellezza (splenia), portati sia da donne che da uomini.
Altre preparazioni includevano miscele di vino, grasso, mirra, mirto, miele, finocchio e petali di rosa. Tuttavia, a causa del vino, queste creme non potevano essere lasciate sul viso troppo a lungo per evitare danni.
Un cosmetico chiamato escurium era ottenuto da paglia di grano e fichi secchi e veniva importato dalla Grecia. Un altro unguento, il mediumum, si preparava con resina di corteccia di pino, ma Plinio il Vecchio lo giudicava negativamente a causa dell’alto contenuto di grasso.