Il nazifascismo ha compiuto i peggiori crimini di guerra che l’essere umano possa immaginare, e nulla potrà mai cambiare questa realtà.
Tuttavia, il bombardamento di Dresda si candida, nelle valutazioni a posteriori degli storici, ad essere classificato come il “crimine di guerra” degli alleati: nel febbraio del 1945, centinaia di aerei, prima britannici e poi americani, operarono un’ecatombe con 20.000 morti su una città molto lontana dalle linea del fronte e nei confronti di una Germania quasi completamente al collasso.
La storia è sufficientemente chiara: su richiesta di Stalin, impegnato sul fronte orientale contro i tedeschi, e con la piena partecipazione e appoggio del primo ministro britannico Winston Churchill, gli americani guidati da Roosevelt, fino a quel momento restii ad utilizzare bombardamenti d’area, accettano di impiegare il cosiddetto “bombardamento strategico“. Come teorizzato dall’italiano Douhet, il bombardamento strategico mira alla distruzione delle industrie belliche nemiche, migliaia di civili inclusi.
Quell’episodio provocò già nei mesi immediatamente successivi un’ondata di sdegno. Se consideriamo come evidentemente di parte la posizione del ministro della propaganda nazista, Joseph Goebbels, che gridò all’ingiustificata distruzione di una “indifesa città d’arte e di ospedali“, lo stesso comportamento di Churchill, all’indomani del bombardamento, conferma un suo parziale passo indietro.
Rimane infatti nella storia il suo telegramma dove afferma che è “giunto il momento di rivedere quello che abbiamo chiamato “bombardamento d’area” delle città tedesche dal punto di vista dei nostri interessi”, un messaggio che in realtà costituisce una versione riveduta e corretta di una prima dichiarazione, mai diramata ufficialmente, ma ancora più chiara: “Mi sembra giunto il momento di rivedere la questione del bombardamento delle città tedesche al solo scopo di seminare terrore, sebbene con altri pretesti.”
Il dibattito odierno non si è placato. Come sempre, l’opinione degli storici e degli analisti tende a dividersi in due grandi correnti: la prima che considera il bombardamento di Dresda come un effettivo crimine di guerra, un’azione del tutto inutile in una Germania già prossima alla resa.
Fondamentalmente, secondo questa interpretazione, nonostante la presenza di alcune ferrovie e complessi di caserme, come ad Albertstadt o a Nickern, Dresda non aveva quella massa di armamenti o quella capacità di produzione bellica tale da poterla considerare un legittimo obiettivo militare, tantomeno così strategico da meritarsi un bombardamento a tappeto e indiscriminato.
Inoltre, nel febbraio del ’45 l’esercito tedesco si sarebbe potuto considerare già in completa ritirata, se non in rotta, il che fa del bombardamento di Dresda una pura azione terroristica, volta più che altro a fiaccare il morale dei tedeschi e ad accelerare la pressione dell’opinione pubblica, elemento determinante per la caduta del regime di Hitler, secondo la teoria di Clausewitz.
Questa interpretazione, supportata da storici di fama e notevolmente attendibili come Stanton, Grass e Beevor, costituisce dunque una sorta di “mea culpa” con cui gli alleati sono costretti a fare i conti, soprattutto negli ultimi mesi del conflitto. Non solo, il bombardamento di Dresda può essere considerato come il punto di partenza di una profonda riflessione, che si tradurrà, effettivamente, nella definizione di azioni di aeronautica militare non giustificabili, se non in casi estremi.
Un dibattito che si ripresenta, con rinnovato vigore, in occasione dello sgancio delle bombe atomiche.
Per amore di equilibrio, merita però una citazione anche la frangia che tende, se non a difendere quantomeno a ridimensionare, l’azione di britannici e americani.
Secondo questa “parrocchia”, e come si legge nel rapporto americano intitolato “Historical Analysis of the 14-15 february 1945 bombings of Dresden”, a cura della USAF Historical Division, Dresda, seppure non certo centro nevralgico della produzione bellica tedesca, aveva impianti per la produzione di gas, di armi di contraerea e di mitragliatori, in misura sufficiente a considerarlo un obiettivo militare legittimo.
Vi è anche la giustificazione in un possibile spostamento di massa dell’esercito tedesco: 42 divisioni, quasi mezzo milione di uomini, che avrebbe a breve iniziato una marcia verso est, per raggiungere il fronte orientale contro i russi, un pericolo micidiale che si sarebbe scongiurato con la voluta creazione, seppur drammatico a dirlo, di un gran numero di profughi, che sarebbero scappati in direzione opposta, inceppando i movimenti tedeschi.
Inoltre, poggiando i piedi sul concetto per cui non si può giudicare un fatto storico con i parametri di oggi, diversi opinionisti fanno notare, e anche gli americani si difesero così, come al tempo non vi fossero trattati in vigore che limitassero in qualche modo i bombardamenti sulle città nemiche.
Quello stesso iter, poi, venne seguito più volte per altre città, sia nella stessa Germania sia, precedentemente e al contrario, da parte della Luftwaffe nei confronti dei centri urbani britannici, come nel caso Coventry.
Così, vige ancora oggi un intenso dibattito, sempre venato di dubbi e di pericoli, rispettivamente di simpatia o di nostalgia per il nazifascismo qualora si voglia sottolineare la violenza di Dresda, o di un patetico americanismo per chi cerca di comprendere o addirittura di approvare le decisioni del “triumvirato” Stalin-Churchill-Roosevelt.
Una cosa è certa: in quei giorni, e dopo quelle tonnellate di bombe, gli alleati sembrarono perdere quella superiorità etica e morale che avevano sempre rinfacciato al nemico. L’esercito dei liberatori si rese conto che le macerie di Dresda avrebbero costituito uno scheletro nell’armadio, o un terribile incidente di percorso, con il quale, ancora oggi, si è costretti a fare i conti, nonostante la vittoria.