La battaglia del Vesuvio, 340 a.C. I romani sconfiggono i latini

La battaglia del Vesuvio, combattuta nel 340 a.C. tra la repubblica romana e il popolo dei latini, è una delle più importanti battaglie romane dell’epoca alto-repubblicana.

Ebbe luogo nei pressi del Vesuvio, vicino alla città di Neapolis, e vide la vittoria dell’esercito di Roma grazie a Pubio Decio Mure, che morì sacrificando la vita in battaglia, e ad una scelta tattica dell’altro generale, Manlio Imperioso Torquato.

La situazione storica

La battaglia del Vesuvio si inserisce nella lotta tra romani e latini per il controllo della regione del Lazio. 

Secondo Tito Livio, i Latini, con il pretesto di prepararsi alla guerra contro i Sanniti, tenevano in realtà delle riunioni segrete in cui pianificavano un’offensiva contro i romani, probabilmente con la collaborazione dei Campani.

Nonostante il tentativo di mantenere segreti i loro propositi, a Roma giunse la notizia dell’imminente attacco, attraverso alcune delazioni. Questo portò alla richiesta delle dimissioni anticipate dei consoli in carica per accelerare le elezioni dei successori e affrontare immediatamente la crisi.

Venne quindi instaurato un regno temporaneo guidato da Marco Valerio e Marco Fabio, durante il quale vennero nominati i due nuovi consoli: Tito Manlio Torquato e Publio Decio Mure.

Le richieste dei latini e l’ambasciata di Annio

Nel frattempo, i Latini organizzarono un’assemblea per discutere la situazione e proporre ai romani un accordo prima di dichiarare guerra.

Il pretore latino Annio, di fronte all’assemblea riunita, evidenziò come, nonostante l’apparente uguaglianza, i romani si comportassero da padroni e propose che romani e latini avessero diritti equivalenti, inclusa la possibilità di nominare un console di origine latina ogni anno. 

Inoltre, Annio fece notare come i romani, negli ultimi tempi, avessero accettato delle sfide alla loro autorità, il che fu interpretato come segno di debolezza da parte di Roma.

Le proposte di Annio vennero accolte con grande entusiasmo e gli venne conferito il potere di agire e parlare per conto del popolo latino di fronte al Senato di Roma.

Quando i magistrati latini, guidati da Annio, arrivarono a Roma, il Senato li ricevette sul Campidoglio. Annio si espresse con grande fermezza, quasi come se fosse un generale vittorioso, rimproverando subito i romani per il loro trattamento dispotico.

Il delegato latino disse che i suoi cittadini erano disposti alla pace, ma chiedevano come condizione irrinunciabile la nomina di un console che provenisse da una delle città latine, oltre ad una rappresentanza latina nel Senato romano, per formare un unico popolo e stato.

Annio suggerì inoltre che la capitale del nuovo Stato unificato potesse essere una città latina, mentre il nome del popolo sarebbe stato quello di “Romani.”

A queste parole, il console romano Tito Manlio reagì con grande sdegno. Manlio ricordò i precedenti accordi tra romani e latini, stipulati subito dopo la battaglia del lago Regillo, che aveva dimostrato la forza militare dei romani. Manlio disse inoltre che le richieste latine rappresentavano un chiaro tradimento dei patti.

Di fronte a questa reazione, Annio decise di allontanarsi, ma mentre scendeva le scale per abbandonare il Campidoglio scivolò sui gradini, cadendo e battendo la testa con tale violenza da perdere i sensi.

I latini interpretarono questo segno come simbolo della rottura dei trattati. Torquato, testimone oculare della caduta di Annio, interpretò l’incidente come la volontà degli dei di scatenare la guerra ed esortò i romani a prendere le armi.

Le sue parole eccitarono la folla romana, tanto che i delegati latini furono costretti a scappare.

Il Senato approvò immediatamente la dichiarazione di guerra e i consoli arruolarono due eserciti, marciando attraverso i territori dei Marsi e dei Peligni e unendosi ai Sanniti, in quel momento loro alleati, vicino alla città di Capua, dove i Latini avevano già concentrato le loro forze.

La disposizione degli eserciti

La disposizione tattica della battaglia seguì la cultura militare del periodo. I romani avevano abbandonato il tipico scudo ovale e la formazione a falange, che derivava dal mondo greco, e avevano adottato la formazione manipolare, secondo quanto ci conferma lo stesso Tito Livio.

I manipoli romani erano divisi in tre linee: gli hastati, con il compito di sopportare il primo attacco, rappresentavano la prima fila. Qualora gli hastati non fossero riusciti a vincere l’avversario e si fossero trovati in difficoltà, sarebbero arretrati lasciando il posto alla seconda fila, composta dai principes, soldati più maturi e meglio equipaggiati.

Se nemmeno i principes avessero avuto ragione del nemico, la terza linea, composta dai triarii, i veterani, sarebbe intervenuta nella fase decisiva della battaglia.

I Latini, che avevano la stessa cultura militare dei romani, utilizzarono un equipaggiamento e un’organizzazione speculare.

I generali dei due schieramenti ordinarono ai loro uomini di mantenere le posizioni senza prendere iniziative personali, per non perdere di coesione.

La punizione di Tito Manlio

Poco prima della battaglia, Tito Manlio, il figlio del console romano e capo di uno squadrone di cavalleria, si imbatté casualmente in alcuni cavalieri della città latina di Tuscolo guidati da Gemino Mecio.

Dopo un breve scambio verbale, Manlio accettò una sfida a duello lanciata da Mecio, nonostante le regole militari romane proibissero in maniera categorica tali iniziative personali. Il duello si svolse con grande violenza, Manlio colpì dapprima l’elmo del nemico e poi, in una seconda carica, il cavallo di Mecio: quest’ultimo, sbalzato dalla sella, venne ucciso da Manlio mentre tentava di rialzarsi.

Manlio raccolse le armi dell’avversario e tornò trionfante all’accampamento romano, presentando le spoglie al padre come prova della sua vittoria e del suo valore. 

Ma nonostante l’atto eroico, il console condannò il figlio per aver disatteso i suoi ordini e violato gravemente la disciplina militare.

In un atto di estrema severità, ordinò l’esecuzione del figlio davanti all’esercito, che venne portata a termine direttamente nell’accampamento, scuotendo profondamente l’animo dei legionari, che reagirono con orrore e lutto.

Il corpo di Manlio venne cremato con onori militari.

L’incidente, oltre a diventare un esempio storico della severità dei generali romani, lasciò un segno importante nei soldati, che iniziarono a comportarsi con grandissima disciplina, diventando più efficienti durante i turni di guardia, il cambio delle sentinelle e nelle operazioni di picchetto.

Poco prima della battaglia, i consoli romani Decio e Manlio eseguirono dei sacrifici agli dèi. L’aruspice preannunciò dei risultati favorevoli per Manlio, mentre Decio ricevette un segno meno chiaro, che venne subito interpretato come la necessità di un sacrificio personale durante lo scontro.

Svolgimento della battaglia

La battaglia iniziò con Manlio alla guida dell’ala destra e Decio alla sinistra. Inizialmente le forze combatterono con grande ardore e inequilibrio, ma dopo qualche ora gli hastati romani iniziarono a cedere di fronte alla pressione dei latini e si ritirarono, come previsto, verso i Principes, il che creò comunque un momento di smarrimento tra le truppe romane.

Di fronte alla situazione critica, Decio prese una storica decisione. Chiamò Marco Valerio, il Pontefice Massimo presente sul campo di battaglia, per compiere un rito di sacrificio.

Seguendo le istruzioni del Pontefice, Decio si vestì con la toga pretesta, si coprì il capo e pronunciò una preghiera solenne, dove offriva la sua vita in cambio della protezione degli dèi per la vittoria di Roma.

Dopo essersi cinto la toga, montò a cavallo, armato, e si lanciò coraggiosamente tra i nemici, causando panico e terrore nelle loro fila. La sua figura appariva quasi sovrumana, come fosse un messaggero celeste inviato a placare l’ira divina.

Decio cadde sotto una pioggia di frecce e la sua morte segnò il punto di svolta della battaglia.

Le truppe latine cominciarono a perdere di coesione e a ritirarsi in modo disordinato, spaventate dalla sua audace incursione, come se gli dèi avessero deciso di abbandonarli.

I romani si lanciarono all’attacco, recuperando il terreno.

I latini tuttavia cominciavano a resistere e così il console Manlio, dopo aver ricevuto la notizia della morte e del sacrificio del suo collega Decio, prese una decisione tattica e organizzò una trappola.

Diede ordine alle truppe di riserva, i cosiddetti “Accensi”, di avanzare in prima linea, per dare l’impressione ai latini che i romani stessero esaurendo le loro forze e fossero costretti a schierare gli ausiliari. 

I latini caddero nell’inganno e, credendo di aver quasi vinto lo scontro, mandarono avanti i loro veterani triarii, nonostante fossero stanchi e male equipaggiati.

Al momento cruciale, i triarii romani, che erano rimasti in riserva sul fondo del campo di battaglia, si alzarono e si unirono allo scontro.

Questo cambio di forze causò il panico e disordini tra i latini, che iniziarono a scappare precipitosamente.

La carica finale dei romani risultò devastante: i latini soffrirono pesanti perdite, tanto che solo un quarto dei loro uomini riuscì a salvarsi.

Conseguenze della battaglia

I latini sconfitti si ritirarono presso la cittadina di Minturno. Il loro accampamento venne abbandonato e catturato dai romani dove molti, soprattutto Campani, vennero catturati e uccisi.

Il corpo di Decio, coperto di frecce e circondato da nemici caduti, venne recuperato il giorno dopo e gli furono tributati i massimi onori.

Dopo il conflitto, i romani riuscirono ad imporre la loro autorità sui latini, estendendo la loro influenza su buona parte del Lazio e ridefinendo a proprio vantaggio gli accordi con le popolazioni circostanti.

FONTI

  • Livio, Ab Urbe condita, VIII, 3-6.