La battaglia di Tagina si svolse nell’ultima fase della guerra Greco-Gotica, una volta subìta la grave sconfitta della battaglia navale di Senigallia, gli Ostrogoti persero significativamente il controllo dei mari italiani. Lo scontro militare si spostò inevitabilmente sulla terraferma e i due eserciti, quello ostrogoto e quello romano, vennero in contatto presso una località che le fonti indicano come Tagina, e che gli storici contemporanei posizionano nei dintorni di Gualdo Tadino (PG).
Prima di procedere nel descrivere le fasi militari della battaglia, è interessante esaminare i discorsi d’incitamento che i comandanti dei due eserciti, il re Totila degli Ostrogoti e l’autokrator Narsete dei Romani, tennero per spronare i propri uomini a combattere. Iniziamo dettagliando le frasi che pronunciò Totila in quella circostanza.
La battaglia di Tagina. Il discorso di Totila
«Io vi ho raccolti qui, o commilitoni, per rivolgervi l’ultima esortazione poiché, a mio credere, dopo questa pugna d’altro incitamento non vi sarà d’uopo, ma tutta la guerra sarà decisa e finita in un solo giorno.» Questa prima affermazione testimonia la piena consapevolezza dell’intelligente re barbaro di trovarsi alla fine del conflitto: le forze dei due contendenti erano ormai quasi interamente concentrate a Gualdo Tadino e, chi fosse stato sconfitto, non sarebbe più riuscito a radunare strategicamente soldati a sufficienza per riprendere la campagna. Evidentemente Totila riteneva che trasmettere questo senso di definitività ai suoi militari li avrebbe motivati nel combattimento.
«Ed invero tanto noi quanto l’imperatore Giustiniano siam fiaccati ed esausti di forze pei travagli, le battaglie, gli stenti fra i quali per lunghissimo tempo abbiam vissuto , ed anche le durezze della guerra ci son venute a noia; talché, se mai superassimo in questa battaglia i nemici, mai più non potranno essi rifarsi a pugnare; se poi in questa un disastro a noi toccasse, niuna speranza rimarrebbe ai Goti di rinnovar la pugna […]»
Il secondo passaggio tradisce esplicitamente un profondo stato d’animo del re: la stanchezza. Il conflitto era iniziato nel 535 d.C. e lo scontro di Tagina si verifica nel 552, quindi sono già passati diciassette lunghi anni di ostilità, con alterne vicende. Comunicare stanchezza ai suoi fu un gesto probabilmente più istintivo che razionale da parte di Totila, con esisti più negativi che costruttivi nella psiche della truppa, ma anche la freddezza del re doveva essere compromessa da un ventennio di massacri epocali nella nostra penisola.
«[…] Siate dunque animosi e pronti all’ardire; poiché coloro la cui speranza, come ora per noi, sta sul fil d’un capello, non conviene esitino neppure un istante; ché, passato il momento propizio, riesce inutile poscia lo zelo per propizio che sia […]» Il messaggio in questo caso è chiaro: le nostre speranze sono appese ad un filo e quindi non dobbiamo risparmiarci, qualsiasi cosa accada.
Non avremo un’altra occasione per vincere. «[…] Né merita considerazione la massa dei nemici, raccolta com’è da tante nazioni le più diverse. […] Né vogliate credere che gli Unni, i Longobardi, gli Eruli comprati da essi per non so quanto denaro, mai si cimenteranno per essi fino alla morte; poiché della vita non fanno coloro così poco caso da posporla al denaro […]»
In questo passaggio Totila fa leva su quello che pensa essere – ma non è affatto così – un punto di debolezza dell’avversario: i soldati nemici sono truppe mercenarie. Siccome combattono solo per soldi, pensa il re, vedendo l’assoluta determinazione dei Goti nel difendere il proprio popolo e il territorio che considerano loro, quasi sicuramente si ritireranno e disobbediranno agli ordini dei comandanti romani. In questo passaggio è possibile intravedere un certo grado di sottovalutazione del carisma e del genio militare di Narsete, che saprà gestire magistralmente un’armata così eteroclita, nonché del senso dell’onore tra i combattenti avversari.
«[…] Tanto tenendo in mente, con tutto l’animo marciamo uniti contro i nemici» La battuta finale non poteva che essere un appello all’unità e alla fratellanza, di cui gli Ostrogoti avevano un disperato bisogno per affrontare quello che, nella mente di tutti, appariva essere lo scontro decisivo. All’inizo della battaglia di Tagina tra Romani e Ostrogoti, che gli storici pensano essersi svolta presso Gualdo Tadino (PG), entrambi i comandanti tennero importanti discorsi alle rispettive truppe, molto rivelatori riguardo all’atmosfera che si respirava in quel particolare momento storico e in quella delicata fase delle operazioni belliche, le ultime ormai dell’interminabile guerra Greco- Gotica.
La battaglia di Tagina. Il discorso di Narsete
Abbiamo già analizzato l’incitamento del re barbaro Totila; vediamo adesso quali furono le tesi sostenute da quello che si rivelerà essere il più temibile avversario, ossia l’autokrator romano Narsete. Questi incominciò la propria arringa con le seguenti parole: «Là dove si viene a conflitto con nemici di forza uguale può darsi sia necessario eccitare gli animi con esortazioni […]. Per voi, valenti uomini, che avete a combattere con nemici assai inferiori per valore, per numero e per ogni apparato, non credo vi sia altro da fare che mettervi con favore di Dio in questa pugna.»
Già nell’incipit dell’orazione si intravede il primo elemento scelto per tranquillizzare la truppa: il senso di superiorità degli imperiali sui barbari. Nonostante un ventennio di sconfitte e rovesci, Narsete non si fa scrupoli a indicare i Goti come “inferiori”, probabilmente più al fine di tranquillizzare i propri soldati che per convinzione personale. Narsete aveva già partecipato alle fasi iniziali della campagna – durante la quale s’era trovato in grande contrasto con l’altro comandante, Belisario, sulle scelte tattiche da adottare – e sapeva bene che i Goti fossero combattenti tutt’altro privi di valore; ma, nella circostanza di Gualdo Tadino, sentì la necessità di infondere ai suoi la sensazione di trovarsi di fronte ad una battaglia dall’esito scontato e che non avrebbe potuto comportare perdite significative.
Un trucco psicologico, diremmo noi oggi con un linguaggio moderno. «Implorato dunque ardentemente l’aiuto divino, procedete col massimo sprezzo a battere questi ladroni dacché, già un tempo servi dell’imperatore, resisi contumaci si elessero un tiranno dalla feccia della plebe e ladrescamente riusciron per un certo tempo a mettere a soqquadro l’Impero Romano.»
La seconda affermazione si basa interamente su un assunto tipico delle realtà statuali che vedono la ribellione interna di una parte del proprio territorio: l’illegittimità dell’avversario. Narsete apostrofa il nemico come ribelle, traditore dei patti con l’imperatore in persona e formula una gravissima accusa della maniera in cui i barbari si sarebbero scelti il proprio re, “dalla feccia della plebe”. Occorre qui ricordare che, quando gli Ostrogoti arrivarono in Italia battendo Odoacre, 59 anni prima, vennero accettati come federati da Costantinopoli ed ebbero quindi una legittimazione da parte dell’autorità imperiale, salvo poi entrare in conflitto con essa nei decenni successivi: Narsete quindi li identifica come secessionisti e ribelli (“ladroni”), quindi privi dell’identità di veri nemici come lo sarebbero stati i militari di un paese straniero. Non devono sorprendere altresì le continue invocazioni all’aiuto “divino” perché, come segnala lo storico Paolo Diacono, Narsete era profondamente religioso e questa sua attitudine si rifletteva in maniera spontanea nelle proprie esternazioni.
«[…] essi con inconsulta temerarietà son vogliosi di perire, e con pazza precipitazione osano andare incontro a morte certa, […] chiaramente da Dio stesso menati alla punizione del loro malgoverno.» L’osservazione è spietata e, senza mezzi termini, l’autokrator imperiale considera pazzi i Goti che sanno, a suo avviso, di combattere una battaglia senza speranza. Più precisamente: i barbari stanno per soccombere perché spinti in quell’avventura senza sbocco dal loro “malgoverno”, sottintendendo che, se fossero rimasti fedeli all’Impero Romano, non avrebbero mai dovuto soffrire la fine a cui stanno andando ineluttabilmente incontro; si intuisce un sottile riferimento politico in questo particolare passaggio. «[…] ben meritano di essere avuti a vile, poiché ogni vitù viene meno a coloro che non sono retti da legge e da buon governo, e da essi rimane naturalmente lontata la vittoria, che non è solita tenere via opposta a quella della virtù.»
La fase conclusiva del discorso unisce un’ulteriore, sprezzante dichiarazione di illegittimità dell’avversario con una considerazione sulla vittoria, che in genere premia chi ha ragione. Può sembrare al lettore un epilogo molto semplicistico, ma se ci si cala nella realtà di una battaglia altomedioevale si intuisce il proposito di rassicurare la truppa convincendola di trovarsi, senza eccezioni, dalla parte della ragione.
È corretto ricordare che Procopio di Cesarea, l’autore del saggio “La guerra gotica” che dettaglia questa arringa, narra dapprima il discorso di Narsete e successivamente quello di Totila, con l’intenzione neanche tanto celata di dare maggior risalto alle argomentazioni del capo barbaro, non tanto per disprezzo della figura di Narsete – nei confronti del quale il narratore mantiene un atteggiamento asettico e neutro – quanto per disaccordo politico con l’operato dell’imperatore Giustiniano che aveva deciso, dopo diciotto anni di devastanti conflitti in Italia, un’ulteriore campagna allo scopo di consolidare definitivamente l’autorità dell’Impero nella penisola.
La battaglia di Tagina
La prima battaglia terrestre che Narsete dovette combattere contro Totila, re dei Goti, dopo il vittorioso scontro navale di Senigallia, si svolse a Tagina, oggi Gualdo Tadino (PG) ed esattamente in una località che i Romani all’epoca chiamavano Busta Gallorum, perché nelle lontane epoche della Roma Repubblicana si era svolto lì un importante scontro tra il console? Camillo e i Celti del Montefeltro? e la parola “busta” in latino indicava le pire con cui i Galli stessi erano soliti cremare i cadaveri dei propri caduti. Lo schieramento di Totila includeva, oltre che soldati Ostrogoti, anche parecchi Romani disertori che all’epoca della cattiva gestione militare di Belisario avevano disertato passando dalla parte del nemico; vi era anche alcuni soldati barbari di altra origine etnica tra cui, come vedremo, dei Gepidi.
La formazione barbarica prevedeva i cavalieri davanti e i fanti alle spalle. Le forze armate di Belisario includevano, oltre che cittadini romani (importante era la componente di Isauri provenienti dall’Anatolia e romanizzati ormai da secoli) anche truppe ausiliarie come Eruli e Longobardi. Nella prima parte della mattinata i due eserciti si schierarono sul campo a breve distanza l’uno dall’altro.
Narsete aveva avuto cura di sistemare Eruli e Longobardi al centro dello schieramento, probabilmente nel timore che durante il combattimento questi reparti mostrassero poca fedeltà e al fine di scoraggiare una loro fuga qualora si fossero trovati in posizione laterale. Tuttavia, per l’intera mattina nessuna delle due schiere diede l’assalto e si arrivò all’ora di pranzo senza incidenti di rilievo. Con l’intento di evitare un attacco a sorpresa, Narsete ordinò ai suoi uomini di pranzare sul campo di battaglia senza abbandonare armi e armature, e senza rompere le righe.
Nel pomeriggio si arrivò alla battaglia vera e propria. Le fonti scritte riportano che la sorte dello scontro fu determinata da un grave errore di Totila: per motivi sconosciuti, diede l’ordine ai suoi di combattere soltanto con le lance, lasciando perdere le spade e soprattutto senza l’uso delle frecce. Ma quando la cavalleria gota assalì l’esercito romano, questi ultimi fecero proprio un uso massiccio di frecce, gettando lo scompiglio tra i barbari che non riuscirono a difendersi; molti assalitori vennero falciati e i loro impeti si risolsero tutti in un disastro.
La cavalleria ostrogota
Ad un certo punto – si era ormai vicini al tramonto – la cavalleria ostrogota sbandò e fuggì. Il panico fu tale che, essendo i cavalieri goti arrivati alla posizione arretrata della loro fanteria, non solo non riuscirono a compattarsi dietro ad essa, ma addirittura i cavallli travolsero i loro stessi fanti uccidendone diversi e gettando nello scompiglio le retrovie stesse. L’intero esercito di Totila si ritirò confusamente. Sul campo morirono seimila barbari; i prigionieri, Ostogoti o disertori Romani indistintamente, vennero successivamente tutti uccisi dagli Imperiali.
Esistono due versioni della morte di Totila: la prima afferma che durante la grade fuga un soldato gepido di nome Asbade abbia scambiato lo stesso Totila per un romano che lo inseguiva e lo abbia trafitto con la lancia; la seconda sostiene che il re sia stato colpito per errore da una freccia scagliata da uno dei suoi combattenti durante una scaramuccia coi Romani. In tutti i casi, il re morì poco dopo per le conseguenze della ferita e fu sepolto in loco.
I Romani stessi non seppero della sorte di Totila se non più tardi grazie alla testimonianza di una donna gota: trovarono il luogo della sepoltura, riconobbero il cadavere e lo riseppellirono, soddisfatti di avere la certezza della sua sorte. La morte di Totila, che aveva regnato sull’Italia per undici anni, come riportano le fonti dell’epoca fu “non degna degli atti suoi passati”, perché in effetti si era rivelato un politico accorto, un buon economista e uno stratega di prim’ordine. Ma ormai le forze armate imperiali si erano strutturate in maniera da risultare decisamente superiori sul campo rispetto agli Ostrogoti e, soprattutto, avevano trovato in Narsete una condottiero all’altezza del compito di riconquistare l’Italia.