Presso la prestigiosa collezione babilonese dell’Università di Yale, una scoperta eccezionale sta ridefinendo le nostre conoscenze sull’uso delle sostanze farmaceutiche nell’Antico Egitto. Un gruppo di ricerca specializzato nello studio delle conoscenze farmaceutiche dell’antichità, lo Yale Ancient Pharmacology Program (YAPP), ha identificato tracce inequivocabili di oppio all’interno di un piccolo vaso di alabastro risalente al V secolo avanti Cristo, un oggetto di ben 2500 anni. Questa indagine, condotta dal team di ricercatori guidati da Andrew J. Koh, ha permesso di stabilire per la prima volta l’identità di un preparato a base di oppiacei contenuto in un contenitore di questo specifico tipo risalente all’epoca egizia.
Lo YAPP, che applica un approccio multidisciplinare alle sue ricerche, aveva già esaminato in precedenza un vaso di Bes, risalente all’epoca tolemaica (IV-I secolo avanti Cristo), conservato nella collezione dell’Università di Tampa in Florida, che aveva a sua volta restituito tracce di sostanze psicotrope. Tuttavia, l’oggetto al centro di questa nuova indagine è un alabastron, un piccolo vaso comunemente impiegato nell’antichità per custodire profumi e unguenti, e che si colloca temporalmente durante il regno dell’imperatore persiano Serse I, il sovrano che regnò tra il 485 e il 465 avanti Cristo e che è storicamente noto per il suo tentativo di invasione della Grecia. Questa datazione colloca il vaso nel periodo di dominazione persiana sull’Egitto.
L’alabastron in questione non è un reperto comune; si distingue per caratteristiche uniche. È realizzato in calcite, misura ventidue centimetri in altezza e dieci in larghezza ed è impreziosito da un’iscrizione dedicatoria al Gran Re Serse. La sua specificità più notevole risiede nel fatto che l’iscrizione è redatta in quattro lingue differenti: accadico, la lingua dell’antica Mesopotamia, elamico, un idioma dell’antica Persia, il persiano e, naturalmente, l’egiziano. Un oggetto, dunque, che riflette perfettamente il crocevia culturale e politico dell’Egitto sotto l’impero achemenide.
Per identificare i residui delle sostanze che il vaso aveva contenuto per millenni, il gruppo di studio statunitense ha dovuto sottoporre il reperto a sofisticate analisi chimiche. L’obiettivo primario era individuare i biomarker molecolari, ovvero le tracce delle sostanze rimaste intrappolate nella porosità della calcite, il minerale di cui è composto l’alabastron. Per preservare l’integrità del vaso e non comprometterlo, i ricercatori hanno optato per un metodo non distruttivo. Hanno utilizzato un solvente che ha permesso di disciogliere le molecole residue in un liquido, evitando così qualsiasi tipo di prelievo invasivo o distruttivo.
Il campione liquido estratto è stato successivamente sottoposto a due passaggi analitici fondamentali: la gascromatografia e la spettrometria di massa. Queste tecniche avanzate hanno consentito di isolare le sostanze chimiche contenute e di identificarle con precisione. Dato che gli alabastra erano tipicamente usati per oli o fragranze, i ricercatori sono rimasti sorpresi dalla natura del contenuto molecolare.
I biomarker molecolari rilevati dalle analisi hanno segnalato la presenza di una serie specifica di alcaloidi provenienti dalla pianta del Papaver somniferum, ovvero il papavero da oppio. Tra queste sostanze sono state isolate la morfina, la codeina, la tebaina, la papaverina, la noscapina e l’idrocortanina. La coesistenza di tutti questi composti è un tratto distintivo esclusivo della pianta dell’oppio, un dato che segnala in modo inequivocabile che il piccolo alabastron conteneva al suo interno un preparato a base di oppio.
Sebbene l’uso di sostanze psicotrope nell’Antico Egitto fosse già stato attestato da anni in altri contenitori rinvenuti nei corredi tombali risalenti a diversi periodi storici, questa indagine condotta dallo YAPP rappresenta la prima volta in assoluto che la presenza di oppiacei viene confermata in un vaso di questo preciso modello. La scoperta apre nuove e stimolanti prospettive di studio sul ruolo e la diffusione di questi preparati.
Il gruppo di ricerca suggerisce che la diffusione degli oppiacei nell’Antico Egitto potrebbe essere stata molto più estesa di quanto si credesse in precedenza. Questi preparati potrebbero essere stati impiegati come analgesici per alleviare il dolore o come parte integrante di particolari rituali. Un indizio affascinante che supporta questa ipotesi affonda le radici nella storia dell’archeologia. Si fa riferimento al celebre ritrovamento effettuato da Howard Carter nel 1922: durante la scoperta della tomba di Tutankhamon (un periodo storico molto più antico rispetto all’alabastron studiato a Yale), Carter e i suoi collaboratori rilevarono all’interno di molti alabastra appartenenti al corredo del giovane faraone tracce di una sostanza di colore marrone, appiccicosa e molto odorosa. Il contenuto di questi vasetti fu analizzato negli anni Trenta del secolo scorso, ma le tecniche chimiche disponibili all’epoca non avevano la sensibilità e la precisione necessarie per riconoscere la natura esatta di queste sostanze, che furono genericamente definite come “profumi”. I ricercatori dello YAPP, basandosi sui risultati attuali, avanzano l’ipotesi che la descrizione fornita da Carter possa coincidere con l’aspetto dell’oppio essiccato.
La metodologia analitica non distruttiva e altamente sensibile utilizzata all’Università di Yale offre un percorso chiaro per future ricerche. Se un campione maggiore di alabastra di epoca egizia venisse sottoposto a queste analisi chimiche avanzate, si potrebbero rivalutare le conoscenze attuali in merito agli usi delle sostanze di questo genere nell’antichità, permettendo così di comporre un quadro più completo e dettagliato della farmacopea egizia.

