Nell’antica Roma le Vestali in latino Vestālēs, Vestālis erano sacerdotesse di Vesta.
Chi erano le vestali
L’unico collegio sacerdotale femminile era quello virgines Vestalis, sacerdotesse funzionali all’esistenza ed al benessere di Roma ( vedi Cic., Font. 21.48 e Hor., Carm. 1.26-28); esse eranoconsacrate a Vesta, dea della terra e del fuoco ( Ov., Fast. 6.459-460).
La tradizione è incerta se attribuire l’istituzione del sacerdozio a Romolo (Plut., Rom. 22) o a Numa (Liv., urb. cond. 1.20, Gell., noct. Att. 1.12.10, Ovid., fast. 6.259, Plut., Numa 9): tuttavia le fonti sembrano propendere per quest’ultimo. Dionigi d’Alicarnasso invece, proponendo una sorta di compromesso, attribuisce a Romolo l’istituzione del sacerdozio, mentre a Numa si dovrebbe la sostituzione dei singoli focolari privati con il focolare unico situato nel foro
Anche sul numero delle vestali le fonti sono discordanti: Plutarco afferma che Numa avrebbe istituito prima due sacerdotesse, poi ne avrebbe innalzato il numero a quattro (Plut., Numa 10.3), mentre Dionigi d’Alicarnasso sostiene che il collegio fu composto sin dall’inizio da quattro fanciulle (Dion. Hal., ant. Rom. 2.67). L’ipotesi più plausibile è la versione dello storico di Cheronea, dal momento che un numero iniziale di quattro sacerdotesse per una popolazione di dimensioni modeste, com’era Roma alle origini, sembrerebbe eccessivo, soprattutto considerando che ab origine le Vestali venivano scelte solo fra i patrizi.
Ma se da un lato l’indicazione di Plutarco sul numero originario delle Vestali sembra la più coerente con il contesto storico-sociale, dall’altro bisogna in qualche modo raccordare la notizia plutarchea con quella fornitaci da Festo (verb. sign, sv. ‘sex Vestae Sacerdotes ’ [L. p. 468]: il grammatico romano mette in relazione il numero delle sacerdotesse con quello delle tribù, ipotesi che è stata pienamente accolta dal Giannelli: «si potrebbe pensare che le sacerdotesse del focolare siano state originariamente tre, una per tribù, e che più tardi, per soddisfare alle necessità del culto, codesto numero sia stato raddoppiato» (GIANNELLI, Il sacerdozio delle Vestali romane).
Concorde è invece la tradizione che vuole un aumento del numero delle sacerdotesse da quattro a sei (si veda Dion. Hal., ant. Rom. 2.67, Plut., Numa 10), secondo Dionigi dovuto a Tarquinio Prisco, secondo Plutarco dovuto a Servio Tullio: numero che rimarrà invariato fino alla seconda metà del 300. Il documento più antico che testimoni un numero di sette Vestali è quello che comunemente viene chiamato Vetus orbis descriptio che il Müller ha datato tra il 350 e il 353 (C. MÜLLER, Geographi Graeci Minores, Paris, 1882, p. 513).
L’ingresso al sacerdozio: la captio
Non tutte le fanciulle potevano accedere al nostro sacerdozio istituito, secondo Plutarco, da Numa(Plut., Num. 9.10, Gell., noct. Att. 1.12.10, e Ov., fast. 6.257-261).
Il re avrebbe creato dapprima due Vestali, alle quali in seguito ne avrebbe aggiunte altre due(Plut., Num. 10.1).
La scelta della giovane novizia, di competenza del rex e poi dal pontefice massimo, veniva effettuata quando la fanciulla era ancora lontana dalla pubertà, tra i sei e i dieci anni(ciò aveva lo scopo di assicurare che la fanciulla, al momento del suo ingresso nel sacerdozio, fosse pura e illibata e conseguentemente di evitare che ella potesse essere causa di inquinamento dell’ordine).
Aulo Gellio elenca minuziosamente altri requisiti, fisici e giuridici (Gell., noct. Att. 1.12.1-4), imprescindibili affinché le Vestali esercitassero le loro funzioni: non dovevano appartenere a famiglie che svolgessero mansioni ignobili, né essere orfane di padre o di madre, né essere figlie di liberti. Si richiedeva, invece, che facessero parte di una famiglia libera, onorata e non oggetto di emancipazioni. Dovevano essere prive, inoltre, di qualunque difetto fisico, come quello relativo alla parola o all’udito, dal momento che «ascoltare» o «comunicare» erano prerogative fondamentali per poter espletare i loro compiti quotidiani, quali le preghiere.
Ma come avveniva materialmente la captio: la fanciulla, seduta in braccio al padre, aspettava l’avvicinarsi del pontefice che l’afferrava per mano e, strappandola al padre (Gell., noct. Att. 1.12.13) la conduceva nell’Atrium Vestae dopo aver pronunciato le seguenti parole:
“Per celebrare i riti sacri che la regola prescrive di celebrare a una Vestale per il popolo romano e i Quiriti, in quanto scelta secondo la più pura delle leggi, per questa purezza io prendo te, Amata, come sacerdotessa Vestale”.
Era la captio a conferire alla vergine autorità, a interrompere la patria potestas, a qualificarla tecnicamente come sacerdotessa. Quest’ultima cessava di appartenere al padre e, almeno per trent’anni, durata del suo sacerdozio, non sarebbe potuta essere di nessun altro uomo.
Privilegi delle sacerdotesse
Ella poteva così disporre liberamente dei suoi beni, sia inter vivos che mortis causa : lei e la sua famiglia costituivano ormai due entità separate, tali da non poter vantare – l’una nei confronti dell’altra – diritti patrimoniali. Ogni ingerenza privatistica sulla vergine era esclusa. Pertanto, la Vestale non poteva ereditare da un consanguineo morto intestato e nessuno poteva ereditare da lei se fosse morta senza aver predisposto un testamento. Rientrava infatti nel suo diritto decidere dei propri beni ma, qualora non lo facesse, il patrimonio veniva devoluto al populus Romanus e non più alla sua gens, come sarebbe avvenuto in un caso di ordinaria emancipazione.
Il ruolo di donna indipendente consentiva alla virgo Vestalis inoltre di acquistare, affittare, alienare terre e manomettere i propri schiavi; in particolare, il potere di amministrare e di disporre liberamente delle sue proprietà.
Accanto ai privilegi giuridici e finanziari, la Vestale godeva di numerosi privilegi sociali: soleva attraversare la città in un carpentum, una carrozza a due ruote che le conferiva grande prestigio(Tac., ann. 12.42.2, e Prud., contr. Symmach. 2.1086), e, come i magistrati e le persone particolarmente influenti, era preceduta da un littore che liberava la via prima del suo passaggio; i magistrati, qualora l’avessero incontrata, avrebbero dovuto cederle il passo e prendere un’altra direzione; se non potevano evitare l’incontro, erano tenuti ad abbassare i fasci (Sen., contr. 6.8). Le Vestali, ancora, assistevano alle rappresentazioni sedute nelle prime file, di fronte ai pretori e agli spettacoli gladiatori.
Le Vestali non vivevano in una situazione di clausura, come siamo forse indotti ad immaginare ma erano invece libere, anche nei rapporti sociali
I doveri delle virgines
Le Vestali, alternandosi, dovevano sorvegliare che il fuoco sacro, simbolo della continuità della vita, ardesse costantemente nell’Atrium Vestae.
L’aedes vestae veniva solennemente scopata una volta all ‘anno, il 15 giugno. Quel giorno, dice Varrone (L. L. 6, 32), è chiamalo Q(uando) St(ercus) D(elatum) F(as) ; Io stercus scopato viene trasportato, passando per il clivus Capitolinus, in un luogo determinato; Festo precisa: lo stercus di cui si è ripulito il santuario vieneportato nel vicolo cieco che si trova press’a poco a metà del clivus Capitolinus (in angiportum medium fere clivi C.), chiuso dalla Porta Stercorafia. Infine, stando alle parole di Ovidio, quei purgamina Vestae finivanonelle acque del Tevere (F. 6, 7 1 3-7 14).
Durante i giorni di ripulitura solenne, dal 7 al 15 giugno, l’accesso all’edificio era consentito alle donne, che vi entravano scalze. Al di fuori di questo periodo, solo le Vestali e il pontefice massimo vi erano ammessi, e inoltre il luogo più sacro, il penus, era vietato al pontefice.
Sempre in qualità di focolare della Città, l’aedes ospita insieme con il fuoco un’attività domestica: le Vestali vi preparano e vi conservano la salamoia sacra che serve a salare la mola, farina preparata essa pure dalle Vestali a giorni fissi, che deve essere sparsa (immolare) su ogni animale condotto al sacrificio.
Ecco come Verrio Fiacco, seguendo Veranio definisce quella muries: è una salamoia preparata con sale non raffinato, sminuzzato nel mortaio, versato in un vaso di terra, poi coperto di gesso e cotto nel forno; in seguito le vergini Vestali lo tagliano con una sega di ferro, e lo gettano nella parte esterna del penus dell’aedes Vestae; esse vi aggiungono poi acqua sorgiva, o comunque acqua non proveniente dall’acquedotto, e infine utilizzano il composto nei sacrifici.
L ‘unica sede di una aedes Vestae storicamente conosciuta è quella del Foro.
Distrutto al tempo della catastrofe gallica al principio del secolo IV, e poi ricostruito, I ‘edificio circolare non fu risparmiato dal fuoco divoratore : incendiatosi nel 241 , sfuggì appena a nuove fiamme nel 210. Abbellito da Augusto, il santuario bruciò ancora nel 64 sotto Nerone e nel 191 sotto Commodo. Settimio Severo e Caracalla Io ricostruirono; Teodosio lo chiuse nel 394 dopo la disfatta di Eugenio. L’edificio sopravvisse però, quasi intatto, fino al XVI secolo ; ne restano utili disegni di quel tempo.
Accensione del fuoco
Per accendere il fuoco sacro il pontefice massimo verberava le Vestali che successivamente trivellavano (terebrare) una tavoletta proveniente da un arbor felix, probabilmente quello posto nel recinto e noto dall’iconografia antica(Macr., Sat. 1.12.6.).
Quando una delle vergini riusciva a far scaturire la fiamma, questa veniva trasportata all’interno dell’aedes su di un vassoio èneo (si noti la somiglianza con quanto prescritto nelle Tavole eugubine), dando così vita al fuoco del nuovo anno(Paul. Fest., 94L.). Si tratta del processo, noto da tempo agli etnologi, del fire mill, ossia dell’accensione (o riaccensione) del fuoco perenne praticata presso molte culture antiche sempre per frizione e mai per traslazione. Pertanto:
1. il I di marzo era rinnovato, con le modalità note, il focolare di Vesta;
2. il focolare si trovava all’interno del tempio;
3. sempre il I di marzo era acceso anche il fuoco degli altari di Vesta;
4. da questi, ancora nello stesso giorno, i cittadini romani prelevavano il fuoco necessario a riaccendere il loro focolare.
Abbigliamento delle Vestali
All’inizio del sacerdozio, alla vestale erano tagliati i capelli, che venivano offerti ad un arbor elix, cioè un albero che portava frutti commestibili; questa offerta era poi rinnovata. Ci si è posti il problema se le vestali dovessero portare sempre i capelli corti, ma le opinioni sono divergenti. L’abito era costituito da una tunica bianca detta stola carbasina, appartenente alla specie della tunica recta, portata dalle spose e dai tirones. Sulla stola si metteva un mantello che, col tempo, sostituì il suffibulum, indumento bianco, bordato, quadrato, che si poneva sul capo durante i sacrifici, ed era fissato da una fibula, donde il nome. Quando le vestali espletavano i loro uffici religiosi, il mantello veniva rimboccato sul capo. La veste era stretta in vita da un cordoncino di lana annodato con il nodo di Ercole.
Tra gli abiti delle vestali compariva, nei tempi più antichi ed in particolari circostanze, la toga, che poteva essere usata anche dalla novella sposa insieme alla tunica. Al collo la vestale portava una striscia di stoffa cui era appesa una ricca bulla tempestata di gemme. I capelli erano spartiti, come avveniva anche per le spose, in sei trecce e coperti con l’infula, che fasciava la fronte e da cui pendevano le vittae, sorta di nastri che potevano scendere fino al seno.
Crimen incesti. Le punizioni delle vestali
Alle Vestali era richiesto un comportamento ‘professionale’ e rigoroso. I benefici e i privilegi loro assicurati corrispondevano ad obblighi indiscutibili ed inviolabili:
a) conservare debitamente acceso il fuoco di Vesta;
b) mantenere la loro verginità ( tale violazione veniva definita incestum)
In genere, per le ordinarie infrazioni alle regole commesse dalle Vestali, era prevista la frusta: in particolare, qualora una Vestale particolarmente negligente avesse lasciato addirittura spegnere il fuoco sacro, essa sarebbe stata sottoposta, salvo pena più dura, a fustigazione eseguita per ordine del pontefice massimo da un littore, o personalmente dello stesso sacerdote.
Plutarco racconta infatti che «talvolta lo stesso pontefice massimo punisce la colpevole, nuda dietro un velo disteso in un luogo oscuro» (Plutarco Numa 10, 8.).
Ben più gravi sicuramente le conseguenze per la Vestale che avesse violato l’obbligo di castità: la condanna prevista era infatti la morte, con modalità di esecuzione davvero terribili per la colpevole che veniva infatti sepolta viva.
In particolare la Vestale, spogliata dalle insegne del suo ministero veniva stesa su una lettiga, stretta da cinghie e circondata da pesanti tende così da attutirne le grida, attraversava il foro e giungeva al luogo della sepoltura davanti alla porta Collina, nel Campus Sceleratus (Liv., urb. cond. 8.15.7-8, e Fest. verb. sign., sv. ‘Sceleratus campus ’ (Lindsay², p. 494). Dietro di lei, chiusa in un silenzioso dolore, seguiva una processione di parenti ed amici che, impotenti, l’accompagnavano fino al luogo del supplizio. Qui il pontefice massimo, levate le mani al cielo, pronunciava preghiere dalle parole misteriose.
Quindi, sciolti i nastri che la tenevano legata, faceva scendere la Vestale dalla lettiga, conducendola sulla scala che portava nel cubiculum, una stanza sotterranea con un letto, una coperta, una lampada accesa, un po’ di pane, olio, latte e acqua(Plin., ep. 4.11.9.) . La fossa veniva poi livellata con un cumulo di terra, in modo che nessun segno potesse identificare il luogo. Non doveva rimanere alcuna traccia della sua esistenza. Non veniva eretto alcun monumento funebre in suo onore, non le veniva dedicata alcuna cerimonia religiosa. Solo una lugubre processione testimoniava una costernazione generale e composta. Il pontefice massimo, insieme agli altri sacerdoti, si allontanava senza più voltarsi indietro: se lo avesse fatto sarebbe stato contaminato da quel corpo peccaminoso SCHEID, Le délit religieux, cit., p. 134 ss., e FRASCHETTI, La sepoltura delle Vestali, cit., p. 122).
Fine del sacerdozio
La chiusura dei Templi, disposta da Teodosio il Grande nel 391, e, prima ancora, la rinuncia, in un anno imprecisato, da parte dell’imperatore Graziano, al titolo di pontifex maximus (Zos., hist. nov. 4.36.5, l’anno di tale rinuncia è controverso: alcuni lo individuano nel 375, altri nel 376), rappresentano due momenti emblematici, che simboleggiano la fine sacerdozio delle Vestali e del loro ruolo politico-religioso. Quest’ultima decisione, in particolare, segnò per sempre la scissione tra posizione imperatoria e gestione della religio publica. L’imperatore pose termine al finanziamento dei culti tradizionale. Il fisco non avrebbe più provveduto alle esigenze dei sacerdozi pagani (Symm., rel. 3.7, e Ambr. ep. 17.3 e 57.2.): in effetti le sovvenzioni, fino ad allora destinate alle Vestali, furono in parte impiegate per provvedere alle spese di una corporazione urbana
I sacerdoti si dispersero, le dimore degli Dèi furono abbandonate, le Vestali furono allontanate dal loro atrium. La legislazione, che regolava il loro reclutamento, venne pertanto abolita. Alcune sacerdotesse morirono, altre abbandonarono il sacerdozio. Dopo oltre mille anni il fuoco perenne dell’altare si spense. L’anno successivo, tuttavia, quando Eugenio fece ricollocare l’altare della Vittoria nella Curia, una flebile speranza si riaccese nel cuore dei pagani: tornò perfino a celebrarsi ancora una volta la festa dei Vestalia.
Ultima Vestale?
Prudenzio parla di una Vestale, Claudia, che si era convertita al cristianesimo nel tardo IV sec. Nell’inno dedicato a S. Lorenzo, viene descritta entrare nel santuario del martire: aedemque, Laurenti, tuam Vestalis intrat Claudia. Si tratta dell’unico caso certo di abbandono del sacerdozio pagano per conversione(parla di questo argomento LECLERCQ, H.: «Vestale chrétienne», in Dictionnaire dArchéologie chrétienne et de liturgie, Paris, pp. 2988-2989). Se è alquanto discutibile che questa vada identificata con la Vestale Massima a cui fu dedicata una statua nel 364 (vid. IL 3), è probabile che sia la stessa Claudia, sepolta proprio nella basilica di S. Lorenzo(l’iscrizione funeraria lì rinvenuta (JLCVl, 163) cita una Claudia, di fede cristiana e di rango senatorio, ma non fa accenno (forse volutamente) alla precedente condizione di Vestale.
Bibliografia
A.G. Frigerio Storia delle vestali romane e del loro culto
P. Galiano Vesta e il fuoco di Roma
G. Giannelli Le vergini di Vesta
Mario Trommino “Aspetti di diritto augurale: riflessioni intorno all’ «inauguratio» delle vestali romane”
Mariangela Ravizza “Pontefici e Vestali nella Roma repubblicana”
Fabio Giorgio Cavallero “Arae Sacrae”