Il vettore fondamentale per lo sviluppo della peste nera in Europa è sempre stato considerato il topo: effettivamente fu proprio questo l’animale a infettare i commercianti italiani nei porti del Mar Nero. Ritornati a Messina a bordo delle galee nell’ottobre 1347, furono i genovesi a diffondere l’infezione.
Tuttavia, sappiamo già da qualche tempo che i topi non sono l’unico responsabile, tanto che nel 2018 alcuni ricercatori di Ferrara e di Oslo hanno dimostrato che anche pulci e pidocchi umani hanno contribuito attivamente allo sviluppo della pestilenza.
Ma dal momento che i ratti concentrano nel loro sangue dosi molto più elevate del bacillo e vivono vicino agli esseri umani, si continua a ritenere che siano prevalentemente loro ad avere amplificato la virulenza della peste.
Ma un recente studio introduce sulla scena un nuovo possibile responsabile: la marmotta.
Le origini della peste nera
La provenienza della peste che flagellò l’Europa è alquanto discussa. Sappiamo molto sulla diffusione della malattia dopo il suo arrivo in Europa ma abbiamo molte meno informazioni sul suo percorso prima che questa raggiungesse il mar Nero.
Infatti, mentre per l’Europa abbiamo resoconti come il “Decamerone” di Giovanni Boccaccio o l’opera “al Kitāb al-‘Ibar” di Ibn Khaldun, la traiettoria asiatica della peste è sostanzialmente priva di fonti documentali. L’unica opera che potrebbe aiutarci a capire è l‘”Istoria de morbo sive mortalitate quae fuit anno domini MCCCXLVIII” di Gabriele de’ Mussis, ma sulla sua attendibilità vi sono parecchi dubbi, dal momento che sembra che l’autore si sia limitato a raccogliere informazioni senza muoversi da Piacenza, la sua residenza.
Le teorie sulla tratta “asiatica” della peste si sono sprecate: per molti anni si è creduto che il morbo, presente sicuramente nel Caucaso già nel 1347, abbia iniziato il suo viaggio nell’Asia Centrale intorno al 1331, per diffondersi nel sud della Cina e dell’India e ad Ovest attraverso la Persia.
Alcuni, come William McNeill, hanno azzardato un’origine in Himalaya, ma la teoria è alquanto stiracchiata. Negli anni ’90, Rosemary Horrox identificò invece l’origine della peste nelle steppe asiatiche orientali, sostenendo che non meglio specificati cambiamenti ecologici spinsero i roditori più vicino agli insediamenti umani. Ma tutte queste teorie mancano di prove certe.
Un deciso momento di svolta è stato dato dalla paleogenetica: gli scienziati, nel corso degli anni Ottanta, hanno cominciato a capire come recuperare il DNA antico dei resti archeologici, il che ha permesso di rivoluzionare la nostra comprensione della peste nera.
La prima prova pratica venne eseguita prelevando campioni da una fossa comune nello Smithfield di Londra: grazie agli esami, è stato confermato oltre ogni ragionevole dubbio che il bacillo Y. Pestis fu davvero l’agente eziologico dell’epidemia del 1347 e 1353 in Europa.
Poi, gli studi sono proseguiti. Ma come?
La paleogenetica applicata all’origine della peste
Per capirlo dobbiamo comprendere le basi del funzionamento del DNA. Il DNA è costituito da una doppia elica, creata da due filamenti collegati, che assomigliano ad una scala a chiocciola. Ogni “piolo” di questa scala è costituito da una coppia di nucleotidi legati fra loro. Questi sono disponibili in quattro combinazioni: citosina (C), guanina (G), timina (T) e adenina (A).
Nel corso del tempo, il DNA subisce alcune mutazioni casuali. Ad esempio, una coppia AT potrebbe diventare una coppia CT già nella generazione successiva. Ora, non tutte le mutazioni sono significative. Anzi, la maggior parte di esse vengono “superate” dalla versione “originale” e scompaiono nell’arco di pochi anni.
Ma ogni tanto capita che una mutazione prevalga su quelle precedenti. Qualora gli organismi basati su questo tipo di DNA possano vivere in una zona meno popolata e con meno “concorrenza genetica”, questo ramo di DNA può affermarsi più facilmente. Una volta che quel DNA è diventato dominante, il processo può ricominciare.
Questo significa che possiamo tracciare una sorta di “albero genealogico” per qualsiasi organismo, noto come “Albero filogenetico” che ci permetta di capire cosa succede quando una mutazione di DNA si stacca da quella originale.
Un metodo per comprenderlo è confrontare il DNA odierno con quelli passati. L’operazione è particolarmente difficile, dal momento che i DNA di generazioni precedenti non sempre sono sopravvissuti ad ogni mutazione, e inoltre più si va indietro nel tempo più vi sono probabilità di riscontrare lacune nella documentazione genetica. Ma incrociando i dati, si può ricostruire con una precisione mai riscontrata fino ad oggi la storia genetica di un bacillo.
Il ruolo della marmotta nella diffusione della peste nera
Ed è qui che entrano in gioco le marmotte.
Nell’asia centrale le marmotte sono presenti da millenni, oltre i topi.
Raccogliendo il DNA da marmotte infette e morte recentemente e confrontandolo con il DNA di marmotte decedute in passato è stato possibile ricostruire lo sviluppo del bacillo della peste molto prima che arrivasse in Europa.
Correlando queste informazioni con la posizione in cui i campioni sono stati ritrovati, possiamo addirittura tracciare una mappa della diffusione della peste in Asia.
I risultati sono estremamente interessanti: il primo dato oggettivo è che, contrariamente a quanto pensavamo, non vi fu una sola forma di peste ma si svilupparono almeno quattro varietà principali. La prima è esattamente quella che ha causato la peste nera in Europa, la seconda si è divisa in due sottotipi prima di spostarsi rispettivamente a sud e ad est, verso l’India e il Mar Caspio, mentre la terza e la quarta sono in Siberia, in Mongolia e in Cina.
Ma la cosa ancora più sorprendente è che tutte e quattro le varianti sembrano essersi discostate dal DNA originale all’incirca negli stessi anni: una vera e propria “esplosione” della peste, una sorta di “Big Bang genetico”, che sarebbe avvenuto nelle montagne del Tian Shan, al confine tra il Kirghizistan e la Cina.
Ma se il Big Bang genetico della peste avvenne in Cina, com’è possibile che i nuovi ceppi di peste si diffusero così velocemente e in continenti diversi? Chiaramente la risposta non sta solo nella marmotte. Questi animali, originari dell’Asia centrale, sono altamente territoriali e tendono a non intraprendere importanti migrazioni su grandi distanze.
Una possibile spiegazione è stata avanzata dalla storica Monica Green: secondo tale interpretazione, le marmotte sarebbero state “aiutate” dai mongoli. Popolo altamente nomade, i Mongoli amavano consumare roditori e specialmente le marmotte, sia per una questione di gusto ma anche per la loro facilità di cattura.
Trovate in gran numero in tutta la steppa mongola, le marmotte erano un’eccellente fonte di carne, di pelle e di cuoio. Così, quando i Mongoli iniziarono le loro conquiste sotto Gengis Khan, avrebbero importato nuove abitudini culinarie, con conseguenze devastanti.
Il primo episodio significativo sarebbero state le conquiste del popolo Qara Khitai, nel 1216. Questa dinastia occidentale governò su un vasto impero che andava dal Kirghizistan moderno alla Cina nord occidentale, fino a parte del Kazakistan, comprese le famigerate montagne del Tian Shan.
È possibile che a quel punto, il popolo Qara Khitai incontrò per la prima volta le marmotte portatrici della peste e così facendo accelerarono notevolmente il processo. Ogni volta che un mongolo uccideva un animale infetto ne mangiava la carne, ne conciava la pelle e correva il rischio di contrarre la stessa malattia. E quando i Mongoli operarono le loro migrazioni su vasta scala alla ricerca di nuove conquiste, le carni di marmotta stagionate e le pelli che trasportavano il bacillo furono in grado di stabilirsi con facilità nei nuovi territori.
Dopo aver fornito l’impulso per il Big Band genetico, i Mongoli avrebbero contribuito poi a diffondere le quattro varianti in tutto il continente asiatico. Se confrontiamo le prove genetiche con le epidemie descritte dai resoconti notiamo una notevolissima corrispondenza tra la teoria e la realtà.
Nel 1253, ad esempio, il nipote di Gengis Khan, Möngke (1209-59), inviò un enorme esercito comandato da suo fratello, Hulagu (c.1215-65), contro il popolo Luri nell’Iran. La seconda varietà della peste iniziò ad essere registrata di lì a poco.
A seguito dei grandi assedi, si verificarono focolai a Girdkuh (1254), Lanbasar (1257), Baghdad (1258) e in numerose città della Siria.
Allo stesso modo, nel 1270, le rivolte in Almaliq e in Mongolia resero necessaria sia la deviazione delle tradizionali rotte postali che una serie di spedizioni punitive su larga scala. In questo caso, la scarsità di testimonianze ha reso difficile individuare gli episodi di una possibile malattia epidemica, ma, come ha sottolineato Green, corrisponde ai luoghi dove il bacillo della peste è stato rinvenuto.
Inoltre, le campagne militari contro il Khwarazm Shah (1218-25), in Georgia (1220-23) e contro i Bulgari del Volga (1229-32) avrebbero fornito al primo ramo della peste, quello più letale, una rotta diretta dal Tian Shan alla costa del Mar Nero, dove sarebbe avvenuto l’incontro con i commercianti Genovesi.
Ovviamente, come concorda la stessa autrice dello studio, le tracce sono labili e l’ipotesi altamente speculativa. Molti elementi possono essere messi in discussione da nuovi ritrovamenti e da nuovi studi.
Ma il dato più importante è che la ricerca paleogenetica ci permette di superare i limiti delle prove documentali e apre le porte a un nuovo straordinario modo di comprendere le origini della peste nera.
Ora che abbiamo questa nuova arma, possiamo chiederci, ad esempio, se vi siano stati focolai di peste anche in altre aree del mondo, come l’Africa subsahariana, per cui non abbiamo ancora rinvenuto alcuna traccia scritta di un’epidemia.
E in fondo, il lavoro di Green ci permette di capire che la peste nera non avrebbe avuto effetti così devastanti in Europa, senza il contributo della marmotta.