La battaglia del Crèmera, combattuta nel 477 a.C. fra i romani e gli etruschi che abitavano Veio, è una delle prime e più importanti sconfitte della storia romana. In quell’occasione, l’intera famiglia, o Gens, dei Fabii venne completamente sterminata dai nemici. La sconfitta mise Roma in serio pericolo, e la città fu ad un passo dall’assedio da parte dei Veienti.
Il contesto storico
I romani erano impegnati a risolvere delle questioni tra patrizi e plebei quando il pericolo delle incursioni da parte delle tribù vicine li costrinsero a tornare sul campo di battaglia.
Vennero nominati i consoli Fabio Ceso e Tito Verginio. Dopo le ennesime incursioni della tribù degli Equi, Ceso mosse un grande esercito, superando il confine per devastare la loro città. Ma questi si trincerarono dietro le mura, evitando lo scontro e costringendo i romani ad un assedio.
Approfittando della situazione, i guerrieri della vicina città di Veio inflissero una pesante sconfitta ai romani guidati dall’altro console, Tito Verginio, che si era mosso sul territorio con imprudenza. L’intero esercito romano sarebbe stato distrutto se Ceso non fosse intervenuto prontamente per soccorrerlo.
Iniziò quindi la guerra tra Roma e Veio, costituita non tanto da grandi scontri campali quanto da un continuo saccheggio. La tecnica del “mordi e fuggi”, perpetrata dai guerrieri Veienti, causava ingenti danni al territorio e ai raccolti e impediva ai romani di occuparsi di altre importanti questioni sociali.
La proposta della Gens Fabia
La continua ostilità dei veienti, persistente e pericolosa, teneva costantemente i romani in sospeso. In questa situazione, l’antichissima Gens dei Fabii decise di presentarsi davanti al Senato e al console in carica. “Piuttosto che un grande esercito di difensori – disse un rappresentante della famiglia dei Fabii – è necessaria una forza permanente, o padri coscritti, come sapete, per la guerra contro Veio. Occupatevi delle altre guerre e assegnate ai Fabii il compito di opporsi ai veienti. Ci impegniamo affinché l’onore del popolo romano sia al sicuro. È nostra intenzione condurre questa guerra come se fosse una nostra faida di famiglia, a nostre spese private. Lo Stato – concluse l’inviato dei Fabii – può dispensarsi dal fornire uomini e denaro per questa causa.”
Il senatori accettarono con grande entusiasmo la proposta e il console uscì dal Senato scortato da una colonna degli appartenenti alla famiglia. I Fabii diramarono immediatamente l’ordine a tutti i parenti di presentarsi armati già il giorno successivo. Nel frattempo, la notizia si era diffusa in ogni parte della città e i Fabii venivano lodati da tutti i cittadini romani.
Qualche giorno dopo, l’esercito, costituito dai 306 appartenenti alla Gens dei Fabii, sfilò per Roma, fra gli applausi e la meraviglia degli cittadini. Tito Livio dice che tutti i soldati erano “patrizi e dello stesso sangue”, ed erano seguiti da una folla, composta sia da parenti e amici intimi, ma anche da tutti coloro che riponevano nei Fabii la speranza di vedere terminata la guerra contro Veio.
Le persone per le strade gridavano: “Andate nella vostra virtù e con buona fortuna e coronate la vostra impresa con un successo grandioso.”
Mentre i Fabi attraversavano il Campidoglio, i cittadini supplicavano gli dei di proteggerli e di assisterli in quel nobile intento, e di condurli presto in salvo alla loro terra natia e di ritorno presso le loro case.
Lo sterminio dei Fabii
I Fabi attraversarono la cosiddetta “Porta Carmentale”, ritenuta poi una via sfortunata, raggiungendo il fiume Cremera, in una posizione che sembrava favorevole per erigere una fortezza. I Fabii, con la loro presenza, garantivano la sicurezza dei concittadini e del territorio circostante, pattugliando il confine romano.
Inizialmente i Fabii furono in grado di interrompere i saccheggi dei Veienti, combattendo in campo aperto e in formazioni serrate. I Romani rimasero stupiti come una sola famiglia fosse in grado di vincere contro tutto l’esercito di Veio.
I guerrieri Veienti soffrirono degli attacchi dei Fabii, ma ben presto elaborarono un piano per tendere un’imboscata ai nemici.
Nel corso del tempo, i Fabii diventavano sempre più spericolati, sicuri com’erano di vincere ogni battaglia. Avevano maturato tanto dispezzo per il nemico da considerarsi invincibili e capaci di affrontare i Veienti in qualunque luogo e momento. Questa sicurezza li aveva pervasi a tal punto che, avvistando alcune greggi a grande distanza, attraversarono imprudentemente una grande pianura, trascurando la possibile presenza di armi nemiche.
Mentre i Fabii stavano inseguendo le greggi disperdendosi pericolosamente, i nemici li circondarono. I giavellotti cominciarono a cadere su di loro da ogni parte e mentre i Veienti si riunivano e li circondavano in numero sempre maggiore, sempre più piccolo diventava lo spazio all’interno del quale i Fabi erano costretti a fuggire.
Stretti da ogni parte, i Fabii vennero rinchiusi mano a mano in un cerchio sempre più stretto e furono rapidamente sovrastati nel numero.
I Fabii cercarono di rinunciare ad una lotta disordinata e di attaccare in un’unica direzione per liberarsi dall’accerchiamento. Si fecero quindi strada con la forza delle armi formando un cuneo. Conquistata una posizione favorevole, che gli aveva dato il tempo di respirare e di raccogliere le forze, i Fabii riuscirono a respingere le truppe che avanzavano e una manciata di loro, grazie alla buona posizione, stava addirittura per sovrastare i Veienti.
Ad un passo dalla vittoria, un contingente di Veienti emerse improvviso dalla cima della collina, annullando il vantaggio dei Fabii.
Iniziò così un terribile massacro: i Fabii furono tutti sterminati, fino all’ultimo uomo. 306 appartenenti a quell’antico clan perirono violentemente tra le lame. Solo uno di loro, poco più che un ragazzo, sopravvisse, tornando traumatizzato a Roma.
Le conseguenze della battaglia
La sconfitta metteva Roma in serio pericolo. Per affrontare la situazione, vennero subito eletti i consoli Gaio Orazio e Tito Menenio. Quest’ultimo fu immediatamente mandato a combattere contro i Veienti, ancora esaltati dalla vittoria. I romani conobbero però una nuova sconfitta e i nemici conquistarono il Gianicolo.
I Veienti furono così ad un passo dall’assediare Roma stessa, che soffriva non solo per la guerra ma anche per la scarsità di grano. Per fortuna il console Orazio venne richiamato dal paese dei Volsci, affrontando i Veienti presso Porta Collina. L’esercito romano, con un lieve vantaggio numerico, riuscì a mettere i Veienti in difficoltà, costringendoli a ritirarsi.
Ma i Veienti scelsero ancora una volta di evitare lo scontro diretto e, asserragliandosi di nuovo sul Gianicolo, si dedicarono al saccheggio. Dal Gianicolo, che fungeva come una piccola fortezza, inviavano continuamente spedizioni nel territorio dei romani, attaccando contadini e greggi.
Dopo qualche tempo, i romani utilizzarono con i Veienti la stessa tecnica da loro impiegata contro i Fabii. I romani lasciarono pascolare volutamente delle greggi per attirare i nemici in una trappola, attaccandoli poi con un’imboscata e causando numerose perdite.
Dopo degli ulteriori scontri, i Veienti si assarragliarono nel Gianicolo, ma ormai in grande difficoltà. Il console Orazio, compreso che la vittoria era vicina, attraversò il Tevere con i suoi uomini e fortificò un campo direttamente sotto la collina. Dopo combattimenti dalle alterne fortune, finalmente i Veienti furono intrappolati tra due linee di romani e furono abbattuti con grande massacro.
Così l’invasione di Roma da parte di Veio venne definitivamente scongiurata.