Ci sono persone che dicono di combattere la mafia, e persone che lo fanno veramente. Sandro Sandulli, Generale dei Carabinieri e per parecchi anni alla guida della DIA di Genova, ci aiuta a comprendere il fenomeno mafioso nella nostra regione.
Hai cominciato a Sciacca, in Sicilia, vicino a Paolo Borsellino. Cosa ti ha insegnato Borsellino che non avresti potuto trovare in un manuale di investigazioni?
Appena arrivato in Sicilia con la direzione del Dott. Borsellino, abbiamo concluso un’operazione relativa al contrasto delle famiglie mafiose che operavano a cavallo tra il confine agrigentino e quello trapanese.
Lui era procuratore a Marsala, quindi era deputato a seguire l’attività investigativa insieme alla Distrettuale Antimafia di Palermo e successivamente era diventato Procuratore aggiunto a Palermo, con competenza territoriale sull’agrigentino.
Cosa mi ha insegnato: principalmente la serietà dell’impegno Antimafia. Serietà dell’impegno Antimafia, che vuol dire conoscenza del fenomeno per poterlo poi contrastare con le armi migliori.
Purtroppo – già all’epoca, ma forse poi anche negli anni successivi – ci si trova sovente di fronte a tante persone che parlano di fare antimafia, anche in ambito istituzionale, non solo nel sociale, ma questa antimafia a volte ha delle finalità secondarie, per cui si perde la genuinità della lotta alla mafia, che richiede una seria valutazione, un impegno, un sacrificio costante, una capacità di compenetrarsi nel fenomeno. Forse questo è il messaggio più lineare che mi ha mi ha trasmesso in quella breve esperienza.
Spesso si confondono i termini fra mafia, criminalità organizzata.
Molto spesso si abusa del termine “mafia”. Nel senso che si parla ad esempio di mafia albanese, di mafia nigeriana. Secondo il mio modestissimo punto di vista è un clamoroso errore, perché si va a fare poi un pastrocchio e un minestrone di tutto. Le organizzazioni mafiose hanno dei modus operandi e delle finalità, hanno una storia alle spalle e non possono essere mescolate con organizzazioni che sono semplici organizzazioni criminali, magari anche strutturate ma che nulla hanno a che fare con l’organizzazione mafiosa.
L’organizzazione mafiosa opera con un controllo del territorio – ed entrano in contatto con mondi che le altre organizzazioni criminali transnazionali non hanno -, con il mondo imprenditoriale, il mondo della politica, il mondo dell’amministrazione.
Puoi chiarire la differenza fra mafia, camorra, ‘ndrangheta?
Il punto in comune, è quello della prevaricazione. Non necessariamente caratterizzate sempre e solo dalla violenza, ma sempre basate sul prevaricare il debole, il prevaricare le strutture genuine della società.
Direi che “Cosa nostra” ha una struttura organizzativa di tipo militare, nel senso piramidale. C’è una commissione regionale, ci sono le varie commissioni provinciali, e poi al vertice c’è un capo che adesso è Messina Denaro Matteo.
Qualcosa di simile, nel tempo, si è data la ‘ndrangheta, negli ultimi 20-30 anni: anche questa organizzazione si è data una struttura piramidale con tre macro-aree; quindi c’è il “Mandamento tirrenico”, il “Mandamento centro” che è quello della città e della provincia di Reggio Calabria, e poi c’è tutto la parte ionica, quindi il “Mandamento ionico”.
All’interno dei “Mandamenti” sono collocati i “locali” di ‘ndrangheta che sono le strutture territoriali, un po’ come se fosse la stazione Carabinieri, per esemplificare, e all’interno dei “locali” si possono trovare una o più “’ndrine”. Questo è un termine che fa riferimento prevalentemente a delle strutture di tipo familiare.
Molto diversa invece la Camorra. Nel senso che in alcuni determinati momenti storici ha avuto una specie di vertice ed un “unico responsabile”, ma di fatto sono più gruppi organizzati sul territorio e che il più delle volte sono alleati in ragione degli affari che devono essere portati a termine e quindi alleanze che si possono anche adattare al momento, ma non c’è una struttura organizzata.
C’è stata una parvenza di organizzazione con la “Nuova Camorra Organizzata” (NCO) di Raffaele Cutolo che ha avuto la capacità di prevalere, ma per un periodo temporale limitato. Nel senso che arrestati i capi o disarticolata l’organizzazione si è ripresa la vecchia struttura di clan che parlano tra di loro, ma che non sono organizzati appunto in un’unica struttura.
Ci può fare una breve storia della mafia in Liguria?
In Liguria, l’organizzazione mafiosa prevalente e dominante è la ‘ndrangheta calabrese. A cavallo degli anni ’90 ci sono stati dei gruppi organizzati le cosiddette “decine” che facevano capo alla famiglia mafiosa di Caltanissetta, di Gela, di Riesi, quindi a Piddu Madonia, ma hanno avuto vita breve, circa un decennio: in quel periodo ci sono stati anche omicidi per imporsi sia nel commercio di stupefacenti, che nella gestione dei videogiochi.
Poi, sporadicamente, spuntano fuori soggetti che in qualche modo sono legati alla camorra o a “Cosa nostra”, ma non c’è un’organizzazione compartimentata e strutturata sul territorio, come invece ha la ‘ndrangheta.
Questa organizzazione sul territorio si è evoluta, facilitata da una incapacità di comprensione di questo fenomeno, anche da parte di chi avrebbe dovuto a suo tempo contrastarla, un po’ perché all’epoca non c’erano neanche le “armi”, ricordiamo che il 416-bis è del 1982. Ma non c’era proprio la capacità di comprendere questo tipo di fenomeno criminale, che era avvertito lontano.
Questi aspetti hanno permesso ai mafiosi di crescere, inizialmente con il contrabbando di bergamotto in Francia, con cui creavano i profumi tabacchi lavorati esteri, poi con il contrabbando di t.l.e. , per passare progressivamente a fare i sequestri di persona, anche se non numerosi. Ma c’è stata la stagione dei sequestri di persona anche in Liguria, come nel resto del nord Italia.
E tutto ciò ha portato alla creazione di un “tesoretto” con cui sono andati a investire nel traffico di stupefacenti, inizialmente relazionandosi con “Cosa nostra” e poi diventando autonomi nel traffico della cocaina.
Con il traffico della cocaina c’è stato il grande salto di qualità dell’organizzazione, che si è trovata ad avere dei proventi incredibili e quindi la necessità di investire, con la trasformazione di molte famiglie mafiose in famiglie imprenditoriali, con la creazione di numerose società, l’acquisto di mezzi e da lì sono iniziati i rapporti con il mondo della politica e dell’amministrazione (pubblica).
La ‘ndrangheta ha lavorato poi con un basso profilo: ad esempio, quando si parla di appalti, non si deve immaginare che il mafioso si metta a controllare e a coordinare la gestione dell’appalto stesso. C’è un profilo molto più basso che è quello del subappalto, del movimento terra, dove si insinuano più facilmente.
Cosa significa che la ‘ndrangheta in Liguria si è trasformata da “infiltrata” ad “integrata”?
L’infiltrazione ci dà l’idea di un qualcosa che piano piano si insinua in un corpo sano, mentre l’integrazione è un qualcosa che è diventato un tutt’uno con quel corpo. Ormai si sono creati dei rapporti, a volte anche di tipo lobbistico, tra organizzazione mafiosa, imprenditoria e politica. Diverse indagini hanno rivelato questa trasformazione, questo salto di qualità.
Con l’emergenza del Covid per la mafia è quasi tempo di “saldi”. E’ facile avvicinare aziende in crisi e acquisirle per poco. Come si reagisce a questo pericolo?
Diciamo che questo periodo ha ulteriormente esaltato questo aspetto della operatività mafiosa. Non è che in passato non ci fosse il tentativo di andare alla ricerca di aziende decotte per poi prenderne la gestione, ma ovviamente questo periodo rischia di facilitare questo lavoro.
Credo che sia necessario agire sotto il profilo informativo. Chi è deputato a fare azione di contrasto nei confronti delle organizzazioni mafiose deve esaltare l’attività informativa che è quella base per poter costruire le attività investigative.
Diciamo che l’Italia nei confronti delle organizzazioni mafiose ha una legislazione preventiva che è di altissimo profilo, come nessun’altra nazione al mondo. Per cui è importante utilizzare al meglio l’attività preventiva che permette, senza avere la necessità di raggiungere l’onere della prova, ma semplicemente lavorando su un piano indiziario, di poter raggiungere obiettivi e rendere la vita difficile alle organizzazioni mafiose. E’ necessario avere una solidità di indizi, in modo da riuscire a fare un quadro che permetta al giudice di ragionare sull’intervento di tipo preventivo.
E’ vero che il principale Hub per il traffico di droga era il porto di Gioia Tauro e ora è quello di Genova?
La ‘ndrangheta nel narcotraffico internazionale è una delle organizzazioni principali: per la cocaina hanno costruito solidissimi rapporti con i cartelli colombiani, tutt’ora esistenti. Ma poi si sono evoluti nel relazionarsi anche con i cartelli messicani. Ultimamente si è ripresentato anche il traffico di eroina, passando dagli ex Paesi della Cortina di ferro per arrivare poi in Europa.
In generale tutti i porti nazionali hanno sempre avuto una grande importanza. Genova ha sempre avuto un grande ruolo, come anche i porti europei, tipo Rotterdam, Anversa, piuttosto che altri porti della Germania, che sono sempre stati un punto di arrivo per il traffico della cocaina dal Sudamerica. Poi sono stati scelti altri scali, passando anche dall’Africa, per arrivare sempre e comunque in Europa con carichi importanti di stupefacente.
Il comune di Ventimiglia è salito alle cronache a settembre 2019 per un presunto inchino eseguito nei confronti di Carmelo Palamara, esponente di spicco della ‘ndrangheta ligure. Che opinione hai di questo episodio?
Su questo episodio abbiamo scoperto che l’organizzatore di questo inchino era un imprenditore che opera in maniera stabile in Francia. Queste manifestazioni sono indicative del fatto che l’organizzazione è estremamente radicata sul territorio e in tutto questo una grave colpa c’e l’hanno molti soggetti deputati a contrastare questo fenomeno.
Il punto è che per contrastare questo fenomeno bisogna prima conoscerlo, bisogna studiarlo. Non puoi contrastare efficacemente il nemico se non lo conosci. Devi sapere la sua storia, come si è evoluto sul territorio.
Quando ero impegnato a contrastare l’irredentismo altoatesino, inizialmente ero stupito. Perché quando sono arrivato a Bolzano era il 1982, la Prima Guerra Mondiale era finita da un pezzo. E allora mi sono messo a studiare per capire il motivo che spingeva queste organizzazioni terroristiche ad operare.
Ti sei sicuramente trovato faccia a faccia con boss mafiosi di un certo livello. Come è stato il confronto?
E’ fondamentale il rispetto. Non il rispetto nel senso “mafioso” del termine, ovviamente, ma per la persona umana. Cito un episodio: al termine di un’udienza alcuni imputati volevano vedere le proprie mogli e i propri figli.
Io tranquillizzo tutti, parlo con i detenuti e dico: “Uno alla volta”. Fuori dalla gabbia, uno alla volta, a distanza, ognuno di loro ha potuto fare un saluto breve alle mogli e ai figli. Questo fu molto apprezzato: si salvò la dignità della persona e allo stesso tempo si è conservò il senso dello Stato che doveva necessariamente salvaguardare la sicurezza dell’aula.
Hai mai chiesto ad un mafioso come ha potuto scegliere una vita di tale violenza?
No. Perché questa è una scelta criminale del tutto convinta. Quello che dici tu è il punto di vista della persona per bene: hai fatto un guaio, ma perché l’hai fatto? Ma cosa ti è successo? Questi nascono, crescono, vivono, secondo i principi mafiosi, secondo una vita mafiosa.