Filippo l’Arabo: l’imperatore dei mille anni di Roma, tradito e sfortunato

Di Riccardo Troiano

Il III secolo d. C. risulta un periodo di profonda crisi dell’Impero Romano, che quasi giunse sul punto di collassare di fronte alle enormi difficoltà politiche, economiche e sociali che affrontò in quegli anni.

La guida imperiale fu scandita frettolosamente da vari imperatori, che si susseguirono acclamati principalmente dal favore dei propri soldati.

Anche Filippo l’arabo ottenne la porpora imperiale in seguito all’acclamazione delle truppe orientali e guidò brevemente l’Impero, in particolar modo nell’anno in cui Roma festeggiò i mille anni dalla sua fondazione. La gloria di una storia eterna fu magnificata causalmente da un imperatore di umili origini, capace di cogliere l’opportunità di guidare uno dei più importanti Imperi della storia.

La presa del potere

Lo storico romano Aurelio Vittore riporta che Marco Giulio Filippo nacque nel 204 a Tracontis, l’odierna Shahba, una città della Siria meridionale, ed è soprannominato l’Arabo, sia perché la sua città natale apparteneva alla provincia romana d’Arabia, sia perché era probabilmente discendente proprio da una famiglia di origini arabe.

Filippo ottenne incarichi militari probabilmente grazie al fratello Prisco, prefetto del pretorio affianco a Timesiteo, reggente e allo stesso tempo suocero del giovane imperatore Gordiano III.

Nella primavera del 243 il generale Timesiteo morì improvvisamente durante la campagna militare intrapresa contro i Sasanidi, che avevano nuovamente invaso le province orientali dell’Impero romano. In seguito a tale evento, il collega Prisco convinse l’imperatore Gordiano a nominare il fratello Filippo prefetto del pretorio insieme a sé.

Poco dopo, nel 244, il giovane Augusto rinnovò lo scontro contro i Sasanidi, durante il quale perse la vita, probabilmente cadendo nella battaglia di Mesiche, in Mesopotamia, come testimonia anche una iscrizione sasanide redatta per glorificare le gesta del re Sapore I.

Alcune fonti romane ritengono, invece, che Gordiano III fu ucciso da una congiura ordita da Filippo. Secondo l’Historia Augusta, infatti, appena nominato prefetto del pretorio, Filippo mirò a sostituirsi al princeps, diffondendo malcontento tra i soldati, deviando i rifornimenti necessari all’approvvigionamento delle truppe.

Questa versione possiede comunque una scarsa attendibilità, perché alterata dalla posizione assunta da testi che dipingono e valutano l’operato degli imperatori secondo il rapporto instaurato con l’aristocrazia senatoria.

Il regno di Filippo l’Arabo e i mille anni di Roma

Le truppe acclamarono Filippo nuovo imperatore e immediatamente il princeps decise di tornare a Roma, dove il riconoscimento del Senato avrebbe legittimato ulteriormente la sua ascesa al titolo di Augusto. Concluse frettolosamente la guerra contro i Sasanidi, accettando umilianti condizioni di pace, che previdero la cessione dell’Armenia e di una parte della Mesopotamia, versando anche un lauto tributo.

Ben presto Filippo rafforzò ulteriormente la propria posizione, nominando il figlio omonimo come suo successore e sostituendo numerose cariche politiche, che affidò a figure a lui fedeli, come alcuni parenti. Il nuovo Augusto affidò l’Oriente al fratello Prisco, che assunse il titolo di rector totius Orientis e il comando delle truppe di stanza lungo il confine orientale dell’Impero.

Nel 245 il princeps intervenne in soccorso del generale Severiano, (probabilmente suo cognato), frenando l’incursione dei Carpi e dei Quadi nelle province romane della Mesia e della Pannonia lungo il fiume Danubio. Tornato a Roma, nel 248 l’imperatore organizzò magnifici festeggiamenti per i mille anni della città eterna, che gli valsero un favore crescente del popolo.

L’impero celebrò i Ludi Saeculares nel mese di aprile, quando secondo la tradizione l’Urbe fu fondata nel 753 avanti Cristo. I giorni tra il 21 e il 23 previdero quindi il susseguirsi di cerimonie religiose, spettacoli teatrali e giochi negli anfiteatri. Questo glorioso evento fu impresso sulle monete, che restituiscono una autentica testimonianza di una data significativa per la storia di Roma.

Le ribellioni

Nello stesso momento l’autorità imperiale fu discussa da alcune truppe provinciali, che scelsero il proprio comandante come nuovo Augusto.

I soldati in Gallia acclamarono il generale Silbannaco e in Oriente un tale Iotapiano fomentò la protesta contro la gravosa tassazione imposta a motivo della crisi agraria che in quegli anni investì l’Egitto. Recentemente tra gli usurpatori di questi anni gli studiosi aggiungono anche il nome del governatore della Dacia, Sponsiano, il cui nome fu restituito da una moneta rinvenuta in Transilvania nel XVIII secolo.

Sebbene tali ribellioni durarono poco tempo, scossero notevolmente la posizione di Filippo, che elargì somme di denaro per ingraziarsi i territori imperiali. I turbamenti dell’imperatore furono parzialmente ammansiti dai consigli del valido generale Decio, che frenò un intervento militare di fronte alla continue rivolte, destinate appunto a spegnersi da sé.

Il progressivo impoverirsi dell’erario comportò una serie di tagli come il tributo da versare ai Goti, che così ripresero a invadere le province romane, assediando perfino la città di Marcianopoli, in Tracia. La loro avanzata fu frenata e respinta dal generale Decio, che nel 249 fu ancora una volta incaricato dall’imperatore per reprimere la ribellione del comandante Pacaziano in Mesia e Pannonia.

Prima che giungesse allo scontro, però, Pacaziano fu ucciso dai propri soldati, che si unirono alle truppe di Decio e lo elessero imperatore, «poiché eccelleva per capacità politica ed esperienza militare», come racconta lo storico bizantino Zosimo.

Lo scontro finale e la morte

Filippo reagì alla defezione, raccolse il suo esercito e si scontrò contro le truppe guidate da Decio presso Verona; l’imperatore cadde sul campo, (o piuttosto vittima di una congiura ordita dai suoi stessi soldati), e poco dopo anche il figlio, Filippo II, fu ucciso dalla guardia pretoriana, intenzionata a ingraziarsi il nuovo Augusto. In seguito, Decio ottenne la porpora imperiale, riconosciuto anche dal consenso del Senato.

La figura di Filippo l’arabo emerge nei nostri giorni per la repentina ascesa alla guida dell’Impero, nonostante l’origine provinciale, garantita dalla valida esperienza militare e politica che gli permise di soggiogare Gordiano III. Appare anacronistica la sua scelta di tessere nuovamente un legame cordiale con il Senato, che soltanto durante l’alto impero conservò la propria autorità, dispersa poi quando l’esercito esercitò la funzione di nominare da sé l’imperatore.

Resta da annotare che autori del tardo impero insinuarono che l’imperatore Filippo l’arabo abbia professato la fede cristiana. I testi del IV secolo dei vescovi Eusebio di Cesarea e Giovanni Crisostomo raccontano che Filippo partecipò a un momento di preghiera in occasione della Pasqua nella città di Antiochia. Il vescovo Babila, tuttavia, lo invitò a confessarsi prima di unirsi alla cerimonia religiosa.

Questa notizia fu probabilmente costruita sulla religione sincretica promossa durante gli anni del suo regno, che lo distanzia dalla violenta persecuzione contro i cristiani promossa successivamente da Decio.

Il disegno di promuovere unità e pace nell’Impero, sotto la guida di una nuova dinastia, indusse probabilmente Filippo anche ad accogliere una religione distante da quella tradizionale. La fragilità dell’Impero romano non garantì, però, il perdurare del suo progetto, che fu scosso dalle incursioni lungo il limes danubiano e dalla crisi economica fino a cedere alla ennesima ribellione dell’esercito, che infine scelse un nuovo successore nella figura del generale Decio.

Fonti

  • Historia Augusta, Gordiani tres, 29, 2-5
  • Zosimo, Storia nuova, 21,2-22,1