La tenda è bassa, il sole brucia ancora sulle pietre e il clangore delle armature si confonde con le voci dei soldati. Nei pressi di Vindobona, nell’odierna Vienna, un manipolo di legionari si prepara alla cena dopo una marcia interminabile. Non ci sono arrosti sontuosi né vino da banchetto; l’odore che sale dalle vie dell’accampamento richiama piuttosto quello del pane rustico, del grasso di maiale conservato e della posca aspra che taglia la sete. Ciò che si mangia tra le fila dell’esercito romano è preciso, severo e sorprendentemente equilibrato: lo si scopre nei resoconti dei grandi storici, testimoni dei giorni in cui Roma si faceva impero anche a tavola.
La dieta giornaliera di un legionario era calibrata per affrontare le fatiche del campo e della battaglia, come dimostra il Libro VI delle “Storie” di Polibio e il Codice Teodosiano. Al centro c’era il grano, quasi sempre frumento che ogni soldato riceveva in quantità precise: le idee divergono fra le fonti, ma si parla di una razione giornaliera fra gli 850 grammi e il chilogrammo e mezzo per soldato. Il grano, schiacciato a mano nel molino manuale della contubernium, diventava pane, “panis militaris”, o più spesso una densa polenta chiamata “puls”. Questa base forniva la parte più consistente del fabbisogno energetico quotidiano, ricca di carboidrati a lento rilascio, essenziali per sostenere marce di trenta o più chilometri al giorno.
Nel pane si chiedeva la resistenza, nella “puls” la forza che non tradisce. Le analisi delle fonti riportano che il consumo di questo cereale era almeno il 70% delle calorie totali giornaliere di un legionario, un vero carburante per il corpo. La preparazione era spesso spartana: il grano veniva cotto in acqua o vino acetoso – la “posca” – oppure impastato e cotto al fuoco come biscotti durissimi, i famosi “buccellatum” menzionati dal Codice Teodosiano. È questa la visione che Vegetio, nel suo trattato “De re militari”, ci consegna immortale: “il soldato deve avere grano, vino, aceto e sale in ogni stagione”. Di carne, nelle grandi campagne, ben poca.
La carne, e in particolare il grasso di maiale, rappresentava la vera ricompensa alimentare, non il piatto quotidiano. A documentarlo sono gli scritti di Plinio il Vecchio e di Cicerone, nonché gli archivi militari e i resti rinvenuti negli accampamenti. C’era il lardum, ossia il lardo salato e stagionato, che si inseriva nelle razioni come fonte di grassi e calorie per affrontare i climi più freddi o le marce più lunghe. Mentre le carni fresche erano una rarità, lo stesso grasso di maiale forniva il necessario per l’assorbimento delle vitamine liposolubili e un surplus energetico ben superiore al solo pane. Occasionalmente, soprattutto dopo vittorie o durante le festività, i legionari ricevevano carne fresca di maiale, manzo, pecora o selvaggina locale, come testimonia Ammiano Marcellino nelle sue “Storie”. Tuttavia, la base della loro nutrizione rimaneva profondamente legata ai prodotti vegetali.
Altre fonti proteiche provenivano dagli alimenti più umili, ma di straordinaria importanza. Sono Orazio e Columella, nella loro trattazione sulle pratiche agricole, che narrano del consumo assiduo di legumi: lenticchie, ceci, fave, piselli. Questi alimenti erano la principale fonte di proteine per il legionario comune e permettevano, insieme al grano, di avere un profilo nutritivo sorprendentemente bilanciato. Le lenticchie, ad esempio, contenevano circa 9 grammi di proteine ogni 100 grammi secondo le analisi mediche moderne applicate ai dati delle fonti antiche, mentre i ceci salivano a 7 grammi e le fave a 8 grammi, garantendo non solo forza ma anche la prevenzione di malattie da carenza, come l’anemia.
Non mancavano, comunque, i prodotti caseari. Il caseus viene menzionato più volte da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”. Il formaggio, spesso morbido e acido, era preparato con latte di pecora o capra, raramente con quello di mucca, e serviva nelle razioni a integrare la quota proteica giornaliera. Oltre all’apporto di proteine – circa 5 grammi per 100 grammi nei formaggi freschi – il caseus era fonte di grassi essenziali e calcio, particolarmente utile per la salute delle ossa dei giovani legionari.
A rendere il tutto meno monotono erano la frutta e le verdure, che comparivano sulla mensa non tanto per piacere, quanto per necessità. Dalle “Georgiche” di Virgilio e dai resoconti archeobotanici dei siti militari risulta che legionari consumavano cipolle, aglio, cavoli, mele, pere, fichi, uva e, nei momenti di fortuna, melograni e prugne. La frutta serviva non solo per variare il gusto del pasto, ma soprattutto come fonte fondamentale di vitamine, sali minerali e zuccheri semplici. I fichi, ad esempio, offrivano carboidrati rapidamente assimilabili, mentre le mele e le pere fornivano fibre e un apporto energetico gentile e costante. Questi frutti, oltre al gusto, erano anche strategici: aumentavano la resistenza immunitaria dei soldati, aiutando a fronteggiare le malattie che flagellavano i campi e le province più remote.
La presenza della frutta nei resoconti delle fonti, come in Cicerone e Ovidio, si associa spesso alla stagione e alla disponibilità locale. Il legionario romano non poteva contare su una dieta ricca di frutta tutto l’anno, ma sapeva sfruttare quanto la terra offriva durante la campagna estiva, seppur in piccole dosi. Le mele fornivano circa 14 grammi di carboidrati ogni 100 grammi, mentre i fichi salivano a 19 grammi, con una quota di proteine intorno allo 0,7 grammi e 1,3 grammi rispettivamente. Non erano fonti proteiche rilevanti, ma tornavano preziose per l’immediatezza energetica e l’effetto sulla flora intestinale.
Nel contesto delle proteine animali, una menzione speciale va al pesce. Negli accampamenti vicini ai fiumi e alle coste, diversi storici, fra cui Harold W. Johnston e Wilkins & Nadeau, attestano il consumo di pesci d’acqua dolce e salata. Il pesce rappresentava una fonte estremamente ricca di proteine di alta qualità e, sorprendentemente, era accessibile anche alle classi meno abbienti. Le fonti indicano che il pesce, soprattutto quello salato importato dai porti mediterranei, era “estremamente economico” e largamente diffuso. I legionari potevano consumare aringhe, sardine, anguille, triglie, e persino ricci di mare o molluschi raccolti durante le marce. Ovidio nelle sue “Metamorfosi” menziona l’importanza del pesce nelle diete, mentre gli scavi archeologici confermano la presenza di lische, conchiglie e persino ossa di pesce nei resti delle latrine militari.
La porzione proteica del pesce era davvero rimarchevole: le sardine, ad esempio, contenevano 24 grammi di proteine ogni 100 grammi, mentre le triglie superavano i 18 grammi. Di certo il pesce non era disponibile ogni giorno, ma la sua presenza nei magazzini militari e nei mercati locali permetteva ai soldati di non patire la monotonia alimentare e di mantenere in salute i muscoli e il sistema nervoso, grazie ai sali minerali come il ferro, il fosforo e gli omega-3, già noti indirettamente dalle fonti mediche del tempo.
Centrale nella dieta non era solo il “cosa”, ma il “come”. Il contubernium – la piccola unità di otto legionari – si comportava come una famiglia allungata sull’erba, accanto ai fuochi. Non vi erano mense comuni o cucine centralizzate, ogni gruppo si arrangiava con pentole di bronzo, padelle di ferro e cibi conservati nelle borse di cuoio. Il pasto era un momento di coesione, occasione per rafforzare i legami e per condividere le fatiche del giorno. Il racconto di Polibio nel descrivere i gesti e le abitudini dei legionari attorno al fuoco ci restituisce immagini di una quotidianità che, seppur rigorosa, non era priva di calore umano.
Il vino non era riservato alle grandi occasioni: nella routine del campo aveva un ruolo quasi medicinale. Era la “posca”, il liquido acido ottenuto mescolando acqua e scarti di vino, a dissetare e proteggere dai batteri. La Naturalis Historia ci spiega che la posca veniva distribuita regolarmente, soprattutto nei periodi di grande caldo e nelle campagne in regioni sconosciute. L’effetto principale era duplice: fornire liquidi senza rischi sanitari e assicurare un minimo di apporto calorico addizionale, utile in caso di carenza di pane. Il vino vero e proprio, invece, era dosato con parsimonia e assegnato spesso come ricompensa dopo grandi vittorie o eventi speciali, come rammenta Ammiano Marcellino.
La realtà degli accampamenti romani era quella di un equilibrio nutrizionale ardito, ottenuto mescolando il rigore della logistica con le sfumature della natura circostante. I legionari imparavano ad adattarsi, sfruttando ciò che la terra e il mercato offrivano, distinguendo le stagioni in base a ciò che si poteva consumare, e gestendo crisi e abbondanze con intelligenza. Le fonti antiche parlano di una dieta che, grazie al predominio dei cereali e dei legumi, alle iniezioni proteiche periodiche di carni e pesci, agli zuccheri naturali della frutta, riusciva a evitare le grandi carenze nutrizionali che affliggevano altre popolazioni contemporanee o eserciti rivali.
Il sistema dei granari militari o “horrea”, citato da Polibio e descritto negli archivi archeologici, era il cuore logistico della sopravvivenza romana. Questi magazzini erano disseminati lungo le vie militari e le basi più importanti: conservavano grano, olio di oliva, vino, pesce salato e legumi secchi, assicurando la sopravvivenza del legionario anche in mesi di assedio o marce lontane dalle città. Ogni soldato, nel contesto della sua contubernium, imparava a gestire le risorse, trasportando e razionando il proprio grano per venti giorni, come richiesto dai regolamenti imperiali.
Questi meccanismi di conservazione e di rifornimento sono testimoniati anche dalle fonti di Aulo Gellio e dall’iscrizione del Codice Teodosiano: il soldato portava con sé il necessario per affrontare lunghe distanze e poteva contare, in caso di emergenza, su cibi estremamente resistenti come il buccellatum, di difficile masticazione ma praticamente immortale. Questo pane duro, a differenza del pane fresco, poteva essere conservato per settimane senza perdere consistenza, diventando simbolo di resilienza e di adattamento militare romano.
La monotonia del menu veniva spezzata anche dall’occasionale consumo di spezie, di semi oleosi come le noci e di erbe aromatiche, citate da Plinio e dalle fonti agricole, che aggiungevano varietà e un pizzico di piacere. Oltre a migliorare il sapore dei piatti di legumi e verdure, le spezie offrivano proprietà conservanti e medicamentose, particolarmente preziose durante le stagioni più dure.
Sul piano metabolico, lo storico Wilkins & Nadeau e le analisi comparative con la moderna dieta mediterranea suggeriscono che il legionario accumulava poche riserve di grasso corporeo, mantenendo una massa muscolare ben sviluppata grazie al movimento e alla dieta ricca di proteine vegetali, integrate sporadicamente da quelle animali. La prevalenza di legumi e pesce garantiva, di fatto, una quota proteica sufficiente a sopportare sforzi prolungati, mentre i carboidrati della frutta e del pane assicuravano resistenza e recupero rapido dopo le battaglie.
Non bisogna ricercare la magnificenza delle cene patrizie fra le tende legionarie: qui il cibo è un’arma, una medicina e, a volte, un conforto. La fame di un legionario romano non è mai la fame della povertà, ma quella della disciplina e dell’ingegno. “Un esercito marcia sullo stomaco”, dicevano i generali – e lo stomaco romano ha saputo resistere, adattarsi e conquistare.
Oggi, aggirandosi fra le rovine di un accampamento a Vindobona o fra i granari di Carnunto, ci si può quasi sentire parte di quella catena di uomini che preparavano la puls con gesti antichi, attenti a non sprecare una sola briciola di pane, un singolo chicco di farro, una nocciola condivisa. La loro forza nasceva anche dalle fibre invisibili della dieta, dal frumento macinato fra le mani sporche e dai legumi conditi con l’aceto, dal pesce essiccato acquistato con le poche monete durante la pausa fra le battaglie. In ogni pasto del legionario romano rivive la storia stessa dell’impero.
La lezione che si offre oggi è potente e trasversale: la grandezza di Roma non si misura solo nel marmo e nel ferro, ma nella sapiente gestione della fame, nell’equilibrio e nella frugalità di una cucina che ha saputo fare della necessità virtù. In quel pane duro, in quella “posca” aspra, c’è la memoria di un popolo che ha saputo marciare per secoli, sostenuto non solo dalla disciplina, ma da un’intelligenza alimentare capace di attraversare i continenti. Basta chiudere gli occhi e sentire il rumore del pane spezzato, il profumo della puls calda, l’asprezza del vino acetoso al tramonto: lì, per un momento, siamo tutti legionari.
Fonti:
- Polibio, “Le Storie”, Libro VI (traduzione inglese ufficiale)
- Codice Teodosiano, 7.4.11 (traduzione inglese ufficiale)
- Plinio il Vecchio, “Naturalis Historia” (traduzione inglese ufficiale)
- Orazio, “Epistole”, I.5 (traduzione inglese ufficiale)
- Columella, “De re rustica”, Libro VIII (traduzione inglese ufficiale)
- Virgilio, “Georgiche”, Libro I (traduzione inglese ufficiale)
- Cicerone, “De Officiis” (traduzione inglese ufficiale)
- Ovidio, “Metamorfosi” (traduzione inglese ufficiale)
- Ammiano Marcellino, “Le Storie”, Libri XXV-XXVI (traduzione inglese ufficiale)
- Wilkins, J., & Nadeau, R., “Food in the Ancient World” (estratti in traduzione Inglese)
- Harold W. Johnston, “The Private Life of the Romans” (traduzione inglese ufficiale)
- Aulo Gellio, “Noctes Atticae” (traduzione inglese ufficiale)