La battaglia di Augustodunum. I legionari romani contro gli uomini di ferro

A cura di Teresa Logozzo

Siamo agli inizi dell’anno 21 d.c., sotto il principato di Tiberio, quando oltre le Alpi, scoppiò una rivolta in alcune province della Gallia, precisamente nella Gallia Belgica e Gallia Lugdunenese, oppresse da un’alta tassazione imposta dai governatori di quelle province e dalla loro crudeltà.

A capo dei rivoltosi si posero due nobili galli Giulio Floro, a capo della tribù dei Treviri e altre tribù dei Belgi e Giulio Sacroviro , alla guida degli Edui (il nome Giulio indicava una cittadinanza acquisita ai tempi di Cesare o Augusto; infatti i loro padri l’avevano ottenuta come premio per la fedeltà a Roma, servendo nelle truppe ausiliarie e ricevendo in cambio la cittadinanza romana).

Gli Edui, stanziati nell’odierna Borgogna, tra i fiumi Loira e Saône, con capitale Bibracte – in seguito Augustodunum, avevano avuto in passato rapporti amichevoli con i romani, tanto da chiederne l’aiuto contro gli Allobrogi e Arverni nel 121 a.C., e durante la guerra gallica avevano inoltre appoggiato Cesare.

Sotto l’impero divennero una civitas foederata, e ottennero, primi tra i Galli, lo ius honorum (ossia il diritto ad avere eletti dei propri senatori).

I due nobili capi, inoltre, “affermavano che tra le truppe, da quando avevano appreso la morte di Germanico (molto amato in Gallia), serpeggiava il malcontento; che era il momento opportuno per recuperare la libertà, se si considerava che il loro paese era florido mentre l’Italia era povera, imbelle la plebe dell’Urbe e solo valido nell’esercito il nerbo straniero.

Quasi non vi fu città che rimanesse indenne da quei germi di rivolta; i primi a insorgere furono gli Andecavi, poi i Turoni,…”.

L’inizio della ribellione

Con i suoi Treviri e altre tribù, Giulio Floro mise in piedi un cospicuo esercito dirigendosi verso la Silva Arduenna (l’odierna foresta delle Ardenne, tra il Belgio e e il Lussemburgo). I Romani reagirono prontamente inviando le loro legioni dalla Germania Superiore e Germania Inferiore. Alla guida di coorti della XIII Gemina, XIIII Gemina, II Augusta e XVI Gallica vi era Gaio Silio, un gallo proveniente dalla stessa città di Floro.

Silio non era più un uomo giovane, ma avendo partecipato a numerose battaglie aveva sicuramente dalla sua una notevole esperienza militare. Le truppe partirono dal castra di Vindonissa (odierna Windisch, Svizzera), giungendo in poche settimane nei pressi della Silva Arduenna, ricongiungendosi con l’esercito della Germania Superiore, comandato da Viselio Varro. I Romani circondarono ben presto i ribelli.

Floro e i suoi Galli cercarono di forzare il blocco ma furono sbaragliati dai legionari e dalla cavalleria ausiliaria. Floro riuscì a sfuggire nascondendosi, ma capito di essere in trappola si uccise, ponendo fine definitivamente alla rivolta dei Treviri e della Gallia Belgica.

Con gli Edui di Giulio Sacroviro i Romani dovettero sudare e anche parecchio.

La loro ribellione “fu più grave, poiché la popolazione era più ricca e il presidio in grado di soffocarla si trovava più lontano. Sacroviro aveva occupato la capitale Augustodunum (l’odierna Autun) con coorti armate, per aggregare i figli delle famiglie più nobili delle Gallie, che risiedevano nella città per compiere gli studi e per mezzo di essi, tenuti come ostaggi, assicurarsi l’appoggio dei genitori e dei parenti; subito distribuì ai giovani armi fabbricate segretamente.

Erano quarantamila, la quinta parte dei quali armata come i nostri legionari, gli altri con spiedi e coltelli e con le frecce usate dai cacciatori.”

I rivoltosi ebbero facilmente ragione della guarnigione ivi dislocata, aprendo la via alla razzie di provviste e di armi. Sacroviro liberò molti schiavi destinati a essere gladiatori “tutti coperti di ferro, come usa da loro. Li chiamano crupellari e non sono molto abili nel colpire, ma invulnerabili ai colpi.”.

Un esercito di ribelli e di uomini invincibili

Questi gladiatori, impiegati nelle arene della Gallia centrale, portavano una particolare armatura, simile alle loriche segmentate dei legionari, che copriva busto e spalle, ma scendeva a proteggere anche le braccia, bacino e gambe. L’elmo avvolgeva interamente la testa e ricorda gli elmi mediovali. Combattevano con spada e scudo e dovevano essere robusti, visto il peso elevato dell’equipaggiamento che indossavano.

Davanti a questa minaccia ancor più pericolosa, costituita da un forte esercito di quarantamila ribelli, capeggiati dal romano-gallo e nobile Giulio Sacroviro, Roma decise di inviare contro due legioni, la XIII Gemina e la XIIII Gemina, affiancati da numerose turmae di cavalleria.

Al comando di Gaio Silio, coprirono la distanza che li separava da Augustodunum con l’obiettivo di porla sotto assedio.

“Silio mosse alla testa di due legioni, precedute da una schiera di ausiliari; devastò i villaggi dei Sequani, che si trovavano al confine ultimo del territorio, attigui agli Edui e loro alleati in armi.

Poi si diresse su Augustodunum a marce rapide, con i signiferi in gara tra di loro; e anche i soldati semplici, frementi d’impazienza, rifiutavano il riposo consueto e le soste notturne: che guardassero in faccia i nemici e fossero visti da loro, era sufficiente per vincere.”

Arrivati nelle vicinanze della città gli speculatores riferirono al comandante romano dove gli Edui si erano disposti.

La preparazione alla battaglia

Silio decise di schierare in formazione l’esercito con la cavalleria ai lati, convinto, che pur essendo in netta inferiorità numerica (due legioni – circa 11.000 uomini – e diversi reparti di cavalleria), rispetto all’esercito avversario (sui 40.000 uomini) avrebbe prevalso per disciplina e addestramento rispetto all’accozzaglia degli avversari tra le cui fila non molti erano quelli che potevano essere considerati guerrieri e ben equipaggiati, oltre ai citati crupellarii.

Il comandante gallo, dal canto suo, schierò in prima fila per l’appunto gli impenetrabili gladiatori, con ai lati i migliori guerrieri, armati come i legionari e dietro il resto dell’esercito, armato in modo sommario. “Aveva collocato all’avanguardia gli uomini coperti di ferro, ai lati le coorti, alla retroguardia quelli semi inermi.

Egli, in mezzo ai capi, avanzava su uno splendido cavallo, rammentava le antiche glorie dei Galli e tutte le sconfitte che avevano inflitte ai Romani; quanto sarebbe stata onorevole la libertà ai vincitori, e intollerabile ai vinti subire per la seconda volta la schiavitù.

Ma non parlò a lungo…poiché si avvicinavano le legioni in formazione di battaglia e quei cittadini raccogliticci, inesperti di guerra, non avevano più né occhi per guardare né orecchie per ascoltare.

Silio al contrario, benché la speranza che si era ripromessa lo dispensasse dall’incitare i suoi, tuttavia andava gridando che era vergognoso per loro, che avevano sconfitto i Germani, marciare ora contro i Galli come se si fosse trattato di veri nemici.

Recentemente una sola coorte è stata sufficiente per vincere i ribelli Turoni, un’ala per i Treviri, e poche squadre di questo stesso esercito hanno sbaragliato i Sequani. Ora sconfiggete gli Edui, quanto più ricchi e avvezzi a gozzovigliare, tanto più imbelli, e risparmiate quelli che scappano. A queste parole si levò un grido altissimo…”.

A rompere gli indugi furono i Romani che attaccarono con la cavalleria che riuscì a portarsi dietro il nemico e la fanteria che venne a contatto con il fronte e i fianchi.

E qui entrarono in scena i Crupellarii che con le loro corazze impenetrabili fermarono i pila e i gladi dei legionari della XIII e XIIII Gemina.

I Romani non si persero d’animo e ricorsero ad armi insolite: tirati fuori dai carri dolabre, picconi e scuri attaccarono gli uomini di ferro che cominciarono a cadere sotto la furia dei legionari.

Appesantiti dalle loro stesse armature i gladiatori galli non riuscivano ad alzarsi e questa fu la loro fine, venendo calpestati dai Romani che avanzavano e uccisi dalle seconde linee.

“Gli uomini vestiti di ferro procurarono qualche indugio, perché coperti di lastre resistevano alle aste e alle spade; ma i soldati impugnarono scuri e picconi, quasi dovessero abbattere un muro e così spaccarono corazze e corpi, altri con pertiche e forconi gettavano a terra quelle moli inerti; e li lasciavano lì distesi, come cadaveri, senza che facessero il minimo sforzo per alzarsi.”.

Avuto il sopravvento sulla prima linea avversaria, formata dai gladiatori che sembravano un muro temibile e impenetrabili, e con la cavalleria che ormai aveva stretto in un fatale accerchiamento i Galli, i legionari si aprirono la strada tra le linee degli Edui.

La confusione e la paura regnò in ogni dove portando alla fuga i superstiti. Sacroviro si ritirò nelle campagne circostanti Augustodunum, ma sapendo che non vi era alcuna possibilità di fuggire o di ottenere il perdono di Roma, si tolse la vita.

La vittoria di Roma

“Sacroviro prima si rifugiò ad Augustodunum, poi, temendo la resa della città, si diresse verso una fattoria non lontana, con pochi fedelissimi. Qui si tolse la vita e gli altri si uccisero a vicenda; la casa, incendiata dal tetto, fu il loro rogo.

Allora finalmente Tiberio comunicò al Senato per lettera che la guerra era incominciata e conclusa. Non tolse né aggiunse nulla alla verità, ma disse che la vittoria si doveva al merito dei legati, fedeli e valorosi, e alle sue direttive.

Spiegò poi per quale ragione non si erano recati sul posto delle operazioni né lui né Druso; magnificò la grandezza dell’impero, tale che non sarebbe stato dignitoso per i principi partire per la sollevazione di uno o due popoli e lasciare la città dalla quale si dipartiva il governo del mondo.

Ora che non si poteva attribuire a paura, sarebbe partito per controllare personalmente la situazione e ristabilire l’ordine. I senatori decretarono voti per il suo ritorno, rendimenti di grazie ed altre cerimonie.

Solo Cornelio Dolabella, per superare gli altri, si spinse a un’adulazione forsennata: propose che, al ritorno di Tiberio dalla Campania, fosse accolto con l’ovazione.

Arrivò subito una seconda lettera di Tiberio nella quale dichiarava che, dopo aver soggiogato in gioventù genti ferocissime e aver accettato e rifiutato tanti trionfi, non si riteneva così sprovvisto di gloria da aver bisogno, ora che era vecchio, del futile premio d’una passeggiata nei dintorni di Roma.”

Della presenza di particolari gladiatori in Gallia chiamati Crupellarii ci parla Tacito nei suoi Annales.

Probabilmente anche tra i Celti d’oltrealpe erano in voga i giochi (munera per I Romani) o duelli tra combattenti – schiavi o uomini liberi -. Dalla conquista delle Gallie, ufficialmente conclusa nel 50 a.C. a opera di Giulio Cesare, erano passati 70 anni, forse pochi per affermare con assoluta certezza che la c.d. romanizzazione fosse giunta a tal punto da penetrare nelle tradizioni dei popoli d’Oltralpe, portandosi dietro, tra l’altro, la pratica dei giochi dei gladiatori.

Pertanto si potrebbe supporre che i Crupellarii fossero già presenti nella cultura celtica già prima della conquista da parte di Roma, tenendo pure in conto che nella cultura celtica i duelli rituali hanno sempre avuto un certo rilievo. Tacito ci dice che erano “uomini vestiti di ferro”.

Grazie a una statuetta in bronzo trovata a Versigny, in Francia, è possibile ricostruire l’aspetto del Crupellarius: il torace è protetto da una armature di piastre, come protezione a braccia e cosce vi sono delle segmentate articolate che permettono la mobilità degli arti, e infine una coppia di schinieri.

L’elmo ricorda quello che con cui vengono solitamente raffigurati i Templari, con l’aggiunta di una “protuberanza” simile ad un naso. Non conosciamo però le sue armi, o il suo modo di combattere gli avversari.