Annibale nacque nel 247 a.C. a Cartagine, figlio di Amilcare Barca, un abile condottiero che aveva combattuto contro i Romani nella prima guerra punica.
Fin da bambino, Annibale giurò odio eterno a Roma e seguì il padre nelle sue campagne militari in Spagna, dove apprese l’arte della guerra. Nel 221 a.C., alla morte di Amilcare, Annibale gli succedette come comandante dell’esercito cartaginese in Spagna e iniziò a espandere il suo dominio. Nel 219 a.C., attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma, scatenando la seconda guerra punica.
Annibale concepì un audace piano per invadere l’Italia: attraversare i Pirenei e le Alpi con il suo esercito, composto da fanti, cavalieri e elefanti. Nonostante le difficoltà e le perdite, Annibale riuscì nell’impresa e scese nella pianura padana, dove sconfisse i Romani in quattro grandi battaglie: Ticino, Trebbia, Lago Trasimeno e Canne.
Quest’ultima fu la più devastante per i Romani, che persero circa 50.000 uomini. Annibale sperava di convincere gli alleati di Roma a passare dalla sua parte, ma la maggior parte di essi rimase fedele a Roma. Solo alcune città del sud Italia, come Capua, si allearono con Annibale.
Annibale continuò a combattere in Italia per oltre quindici anni, cercando di mantenere il controllo dei territori conquistati e di resistere ai contrattacchi dei Romani, guidati da Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. Nel 203 a.C., Scipione invase l’Africa e minacciò Cartagine, costringendo Annibale a ritirarsi dall’Italia e a tornare in patria per difenderla. Nel 202 a.C., i due generali si scontrarono nella battaglia di Zama, dove Annibale fu definitivamente sconfitto.
Cartagine dovette accettare le dure condizioni di pace imposte da Roma, che la privarono di gran parte delle sue ricchezze e del suo potere.
Dopo la guerra, Annibale si dedicò alla politica e riformò le istituzioni cartaginesi, ma fu costretto all’esilio dai Romani, che lo consideravano ancora una minaccia. Si rifugiò prima presso il re Antioco III di Siria, poi presso il re Prusia I di Bitinia, continuando a propugnare la guerra contro Roma.
Nel 183 a.C., i Romani chiesero a Prusia di consegnare Annibale, ma egli preferì suicidarsi con il veleno, piuttosto che cadere nelle loro mani.
Origini familiari e il giuramento contro Roma
Annibale Barca (247-183 a.C.) è stato uno dei più grandi generali dell’antichità, noto per le sue imprese militari contro Roma durante la seconda guerra punica.
Annibale era il primogenito di Amilcare Barca, il comandante cartaginese che aveva combattuto nella prima guerra punica e che aveva poi conquistato la Spagna come base per una futura rivincita contro Roma. Il cognome Barca, che significa “fulmine” o “saetta” in lingua punica, era un soprannome che Amilcare aveva guadagnato per la sua audacia e che era stato poi trasmesso ai suoi discendenti.
Annibale aveva due fratelli minori, Asdrubale e Magone, che lo seguirono nelle sue campagne militari e che condivisero con lui il sogno di distruggere Roma. Fin da bambino, Annibale fu educato dal padre al culto della guerra e al profondo odio verso i Romani. Si narra che, quando aveva nove anni, Amilcare lo portò con sé in Spagna e lo fece giurare sul sacrificio di un toro di non essere mai amico di Roma.
Annibale crebbe in Spagna, dove apprese l’arte della guerra e si distinse per il suo coraggio, la sua intelligenza e la sua capacità di guadagnarsi la fedeltà dei suoi soldati. Dopo la morte di Amilcare, avvenuta nel 229 a.C., gli succedette il fratello Asdrubale, che fu assassinato nel 221 a.C. A quel punto, Annibale fu eletto comandante in capo dell’esercito cartaginese in Spagna, all’età di 26 anni.
Annibale aveva un piano ambizioso: portare la guerra in Italia, attraversando i Pirenei e le Alpi con il suo esercito e i suoi famosi elefanti da guerra. Il pretesto per scatenare il conflitto fu l’assedio di Sagunto, una città alleata di Roma, che Annibale attaccò nel 219 a.C.
L’assedio di Sagunto e lo scoppio della seconda guerra punica
Sagunto era una città iberica situata sulla costa orientale della Spagna, a sud del fiume Ebro. Era alleata di Roma fin dal 226 a.C., quando i Romani e i Cartaginesi avevano stipulato un trattato che stabiliva il limite dell’espansione cartaginese in Spagna proprio sull’Ebro.
Annibale, che aveva ereditato il comando delle forze cartaginesi in Spagna dal padre Amilcare e dal fratello Asdrubale, non riconosceva la validità di quel trattato e considerava Sagunto come un ostacolo alla sua ambizione di conquistare tutta la penisola iberica.
Nel 219 a.C., Annibale attaccò Sagunto, sostenendo di aver ricevuto delle provocazioni da parte dei Saguntini, che erano entrati in conflitto con i Turdetani, una popolazione iberica alleata di Cartagine. I Saguntini chiesero aiuto a Roma, che inviò una delegazione ad Annibale per intimargli di cessare l’assedio. Annibale ignorò l’ultimatum e proseguì le sue operazioni belliche.
L’assedio durò otto mesi, durante i quali i Saguntini opposero una strenua resistenza, nonostante la superiorità numerica e tecnologica dei Cartaginesi. Annibale dovette usare diverse macchine d’assedio, come arieti, torri e catapulte, per sfondare le mura della città, che erano rinforzate da mattoni e pietre. I difensori si difesero con frecce, pietre, fuoco e olio bollente, e fecero anche delle sortite per attaccare i nemici. I Romani, intanto, inviarono un’altra ambasciata a Cartagine, per chiedere la consegna di Annibale, ma i Cartaginesi rifiutarono e dichiararono guerra a Roma.
Alla fine, dopo aver conquistato la rocca, la parte più alta e fortificata della città, Annibale riuscì a espugnare Sagunto. I Saguntini, disperati, preferirono uccidersi tra loro o darsi alle fiamme, piuttosto che cadere in mano ai Cartaginesi. Annibale saccheggiò la città e ne fece schiavi i pochi superstiti.
L’assedio di Sagunto è ricordato anche per una celebre frase che si attribuisce al console romano Marco Fabio Buteone, che, mentre a Roma si discuteva sul da farsi, esclamò: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (“Mentre a Roma si consulta, Sagunto viene espugnata”).
La traversata delle Alpi di Annibale
Nel 218 a.C., il condottiero cartaginese Annibale iniziò la sua audace impresa di portare la guerra in Italia, attraversando i Pirenei e le Alpi con il suo esercito e i suoi elefanti da guerra.
Annibale partì da Nova Carthago, l’attuale Cartagena, in Spagna, dove aveva stabilito la sua base dopo aver conquistato gran parte della penisola iberica. Aveva con sé circa 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e 37 elefanti. Seguì il litorale mediterraneo fino al fiume Ebro, dove si scontrò con le tribù iberiche che si opponevano al suo passaggio. Dopo averle sottomesse, proseguì verso nord, entrando nella Gallia Transalpina.
Qui dovette affrontare la resistenza dei Galli, che temevano la sua invasione. Annibale riuscì a convincere alcune tribù a schierarsi con lui, offrendo loro doni e promesse. Altre, invece, gli si opposero con le armi, come i Volci, che tentarono di bloccare il suo attraversamento del Rodano. Annibale li sconfisse in una battaglia sulle rive del fiume e poi costruì delle zattere per trasportare il suo esercito e i suoi elefanti sull’altra sponda.
Dopo aver attraversato il Rodano, Annibale si diresse verso le Alpi, la catena montuosa che separava la Gallia dall’Italia. Qui si trovò di fronte a una delle sfide più difficili e pericolose della sua marcia.
Le Alpi erano infatti coperte di neve e di ghiaccio, e i sentieri erano stretti e scoscesi. Inoltre, Annibale dovette affrontare gli attacchi dei montanari, che cercavano di approfittare della sua situazione di difficoltà. Annibale dovette combattere, negoziare e ingannare per aprirsi la strada tra le montagne.
Il punto esatto in cui Annibale valicò le Alpi è ancora oggetto di dibattito tra gli storici. Alcuni ritengono che sia passato per il Colle della Traversette, altri per il Colle del Monginevro, altri ancora per il Piccolo San Bernardo o il Gran San Bernardo.
La traversata delle Alpi fu un’impresa straordinaria, che richiese circa 15 giorni e che costò ad Annibale la perdita di gran parte del suo esercito. Si stima che solo 20.000 fanti, 6.000 cavalieri e pochi elefanti riuscirono a raggiungere l’Italia.
Le grandi vittorie in Italia: dal Ticino a Trasimeno
Dopo aver attraversato le Alpi con il suo esercito e i suoi elefanti da guerra, il condottiero cartaginese Annibale si lanciò alla conquista dell’Italia, dove sperava di sollevare i popoli italici contro Roma.
In due anni, dal 218 al 216 a.C., Annibale inflisse ai Romani quattro sconfitte memorabili, che misero in crisi la Repubblica romana e la costrinsero a cambiare strategia.
La prima battaglia si svolse sul fiume Ticino, nel novembre del 218 a.C. Annibale affrontò il console Publio Cornelio Scipione, padre dell’Africano, che era arrivato in Italia da Marsiglia. Lo scontro fu una battaglia di cavalleria, in cui i Cartaginesi ebbero la meglio grazie alla superiorità numerica e alla qualità dei loro cavalieri, soprattutto i Numidi. Scipione fu ferito e si ritirò a Piacenza, dove si ricongiunse con l’altro console, Tiberio Sempronio Longo.
La seconda battaglia ebbe luogo alla Trebbia, nel dicembre del 218 a.C. I due consoli, nonostante il parere contrario di Scipione, decisero di attaccare Annibale, che li aspettava in una posizione favorevole. I Romani dovettero attraversare il fiume gelato e furono accolti da una pioggia di frecce e giavellotti. Poi dovettero affrontare la fanteria e la cavalleria cartaginesi, che li circondarono e li massacrarono. Solo una parte dell’esercito romano riuscì a fuggire e a rifugiarsi a Piacenza.
Dopo questa vittoria, Annibale si guadagnò il sostegno di molte tribù galliche, che si ribellarono a Roma. Annibale sfruttò la sua posizione nel nord Italia per riposare le sue truppe e prepararsi alla sua marcia verso sud. Nella primavera del 217 a.C., Annibale attraversò l’Appennino superando i posti di blocco dell’esercito romano, ma dovette affrontare le difficoltà delle paludi dell’Arno, dove perse molti uomini e un occhio per le malattie e i disagi.
Nonostante questo, Annibale continuò la sua avanzata e raggiunse il lago Trasimeno, nel giugno del 217 a.C. Annibale si nascose con il suo esercito tra le colline che circondavano il lago e attese che i Romani entrassero in una stretta valle, avvolta dalla nebbia. All’improvviso, i Cartaginesi attaccarono da tre lati, mentre il lago impediva la fuga ai Romani. Flaminio fu ucciso e il suo esercito fu annientato.
La battaglia di Canne
Dopo un semestre di dittatura da parte di Quinto Fabio Massimo, che evitò lo scontro diretto con Annibale, la politica romana decise che era giunto il momento di affrontare il nemico in una grande battaglia risolutiva.
Annibale, dopo aver attraversato la Puglia, si scontrò con i due consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone, che avevano raccolto il più grande esercito mai schierato da Roma, composto da circa 80.000 fanti e 6.000 cavalieri.
Annibale, pur essendo inferiore di numero, con circa 40.000 fanti e 10.000 cavalieri, adottò una geniale tattica: schierò la sua fanteria al centro in forma convessa, con i lati più deboli, e la sua cavalleria ai fianchi, con i lati più forti. Quando i Romani attaccarono il centro, Annibale ordinò ai suoi soldati di cedere gradualmente, facendo assumere alla sua formazione una forma concava.
Nel frattempo, la sua cavalleria sbaragliò quella romana e si riunì alle spalle del nemico, chiudendo la tenaglia. I Romani si trovarono così accerchiati e compressi in uno spazio sempre più ristretto, dove non potevano né combattere né scappare. Annibale li fece massacrare senza pietà, uccidendo circa 50.000 fanti e 4.000 cavalieri, tra cui lo stesso Emilio Paolo. Solo 14.000 romani riuscirono a salvarsi e a raggiungere Canusium, una città alleata
La battaglia di Canne fu una delle più grandi manovre tattiche della storia militare, il più riuscito esempio di manovra di accerchiamento compiuta da un esercito numericamente inferiore agli avversari.
Fu anche una delle più pesanti sconfitte subite da Roma, che perse gran parte dei suoi soldati, dei suoi comandanti e dei suoi alleati. Annibale, tuttavia, non sfruttò appieno il suo successo e non marciò su Roma, preferendo consolidare la sua posizione nel sud Italia e aspettare l’arrivo dei rinforzi dal fratello Asdrubale, che però non arrivarono mai.
Roma, invece, non si arrese e si riorganizzò per resistere all’invasione cartaginese, affidando il comando a Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore, che adottò una strategia di logoramento e di evitamento dello scontro diretto con Annibale.
Guerra di posizione nel sud Italia
Dopo la sua strepitosa vittoria a Canne, nel 216 a.C., Annibale sperava di convincere i popoli italici a ribellarsi a Roma e ad allearsi con lui. Tuttavia, il suo piano non ebbe il successo sperato, poiché molti alleati di Roma rimasero fedeli, mentre altri si mostrarono esitanti o opportunisti.
Solo alcune città e regioni, come Capua, Taranto, la Lucania e il Bruzio passarono dalla parte di Annibale, che dovette affrontare la resistenza dei presidi romani e dei loro sostenitori.
Annibale cercò di consolidare la sua posizione nel sud Italia, assediando e conquistando diverse città, come Nola, Casilinum, Arpi, Herdonia, Benevento, una parte di Tarentum e Crotone. Purtroppo per lui non riuscì a espugnare le principali fortezze romane, come Napoli, Nuceria o Salerno.
Inoltre, dovette affrontare la strategia di Quinto Fabio Massimo, detto il Temporeggiatore, che seguiva il nemico senza accettare lo scontro diretto. Annibale non riuscì a provocare una battaglia decisiva, né a impedire ai Romani di recuperare terreno e alleati.
Annibale sperava anche di ricevere rinforzi e aiuti da Cartagine e dai suoi alleati esterni, come il re di Macedonia Filippo V, il re di Siria Antioco III e il re di Numidia Siface. Ma questi aiuti furono scarsi e tardivi, e non cambiarono l’esito della guerra.
Il fratello di Annibale, Asdrubale, che aveva guidato un altro esercito dalla Spagna per soccorrerlo, fu intercettato e sconfitto dal console Gaio Claudio Nerone nella battaglia del Metauro, nel 207 a.C. La testa mozzata di Asdrubale fu lanciata nel campo di Annibale, che capì di aver perso ogni speranza di vittoria.
Il ritorno in Africa e la battaglia di Zama
Annibale, dopo aver combattuto per oltre quindici anni in Italia, senza riuscire a conquistare Roma né a convincere tutti gli alleati italici a passare dalla sua parte, si trovò isolato e privo di rinforzi. Il suo esercito era ridotto a circa 20.000 fanti e 4.000 cavalieri, composti in gran parte da veterani e volontari italici. Il suo unico sostegno esterno era il re di Macedonia Filippo V, che però era impegnato in una guerra contro Roma e i suoi alleati greci, nota come prima guerra macedonica.
Nel frattempo, i Romani, dopo aver recuperato il controllo del sud Italia e conquistato la Spagna con le campagne di Scipione, decisero di portare la guerra in Africa, per costringere Cartagine a chiedere la pace.
Il compito fu affidato di nuovo a Publio Cornelio Scipione, figlio dell’omonimo console ferito da Annibale al Ticino, che si era distinto per le sue vittorie in Spagna, dove aveva cacciato i Cartaginesi e i loro alleati. Scipione, che aveva ottenuto il consolato e il comando della spedizione in Africa, sbarcò nel 204 a.C. con un esercito di circa 30.000 uomini e si alleò con il re di Numidia Massinissa, che era passato dalla parte di Roma dopo aver rotto con il re di Cartagine Siface, suo rivale in amore.
Scipione e Massinissa iniziarono a devastare il territorio cartaginese, conquistando diverse città e sconfiggendo le truppe di Siface. Cartagine, in preda al panico, inviò una richiesta di aiuto ad Annibale, ordinandogli di tornare in Africa per difendere la patria. Annibale, pur a malincuore, dovette obbedire e abbandonare l’Italia con il suo esercito, salpando da Crotone nel 203 a.C. e sbarcando a Leptis Minor.
Annibale si accampò a Zama Regia, a circa 160 km da Cartagine, dove si preparò ad affrontare Scipione. I due generali si incontrarono per negoziare una pace, ma non riuscirono a trovare un accordo. Si diedero quindi appuntamento per la battaglia decisiva, che si svolse nel 202 a.C. e che vide la vittoria di Scipione e la sconfitta definitiva di Annibale
L’esilio e la morte
Dopo la sua sconfitta nella battaglia di Zama, nel 202 a.C., che pose fine alla seconda guerra punica, Annibale tornò a Cartagine, dove cercò di riformare lo stato e la politica.
Fu eletto suffeta, una sorta di magistrato supremo, e introdusse misure per ridurre la corruzione, il malgoverno e il debito pubblico. Tuttavia, le sue riforme gli attirarono l’ostilità di molti nobili e oligarchi, che lo accusarono di tradimento e cospirazione con Roma. Annibale, temendo per la sua vita, decise di andare in esilio nel 195 a.C. e si recò prima a Tiro, in Fenicia, poi alla corte del re seleucide Antioco III, che era in guerra contro Roma.
Annibale divenne il consigliere militare di Antioco III, sperando di poter vendicare la sua patria e di sfidare ancora una volta Roma. Tuttavia, il re seleucide non ascoltò i suoi saggi consigli e preferì seguire i suoi generali e cortigiani, che lo indussero a commettere gravi errori strategici.
Annibale gli aveva suggerito di invadere l’Italia con una grande flotta e un esercito, per sollevare i popoli italici e costringere Roma a ritirare le sue truppe dall’Asia. Invece, Antioco III si limitò a inviare una piccola spedizione in Grecia che fu sconfitta dai Romani nella battaglia di Termopili, nel 191 a.C. Poi, Antioco III si scontrò con i Romani in Asia Minore, dove fu sconfitto nella battaglia di Magnesia, nel 190 a.C.
Dopo questa disfatta, Antioco III fu costretto a firmare una pace umiliante con Roma, che gli impose di cedere gran parte dei suoi territori, di pagare un enorme tributo e di consegnare i suoi elefanti da guerra e le sue navi. Inoltre, Roma chiese la consegna di Annibale, che era considerato il nemico pubblico numero uno.
Annibale, però, riuscì a fuggire e a rifugiarsi prima presso il re di Bitinia, Prusia I.
La storia del generale cartaginese ebbe la sua conclusione in Bitinia, vicino a Libyssa (l’attuale Gebze), a 40 km a est di Bisanzio. Secondo Nepote, un rappresentante bitinico informò accidentalmente l’inviato romano Tito Quinzio Flaminino, il vincitore della seconda guerra macedonica nel 197 a.C., della presenza di Annibale in Bitinia.
Di nuovo, i Romani sembravano determinati a catturarlo e inviarono Flaminino per richiederne la consegna. Prusia accettò di consegnarlo, ma Annibale scelse di non cadere vivo nelle mani del nemico. A Libyssa, sulle coste orientali del Mar di Marmara, prese il veleno che, affermava, aveva conservato per lungo tempo.
Secondo Tito Livio, le sue ultime parole furono: “Quanto sono cambiati i Romani, soprattutto nei costumi, non hanno più nemmeno la pazienza di aspettare la morte di un vecchio. Su allora, liberiamoli da questo lungo affanno”.
E così prese il veleno. La data esatta della sua morte è oggetto di controversie. Di solito viene indicato il 182 a.C., ma, come sembra suggerire Tito Livio, potrebbe essere stato il 183 a.C., lo stesso anno della morte del suo avversario: Scipione l’Africano.