di Teresa Logozzo
Dopo i magri successi sulla penisola italica con Roma che di fatto non perde le posizioni acquisite, né tantomeno l’interesse per la Magna Grecia, il re dell’Epiro Pirro decide di rispondere alla richiesta di aiuto delle città siciliote che volevano garantirsi la libertà contro le mire espansionistiche della potenza mediterranea di Cartagine.
Giunto in Sicilia usa lo stesso modus operandi utilizzato con i tarantini, imponendo la sua rigidità e determinazione. Ma anche in Sicilia il sovrano epirota non può dirsi al sicuro dall’Urbe, poiché quest’ultima, ben pagata da Cartagine non ratifica in Senato il trattato di pace stipulato con il console Gaio Fabricio, trattato che dava a Roma la strada libera per riaffermare la sua autorità sui popoli italici dei sanniti, Bruzi e Lucani, nonché su diverse città greche quali Crotone e Locri, pur se con la simbolica presenza di guarnigioni lasciate da Pirro.
Il sovrano diventa, diciamo, un sorvegliato speciale da parte delle stesse città siciliote che lo avevano chiamato in Sicilia e nel giro di due anni in cui i risultati sono scarsi anche sull’isola e con un esercito sempre più indisciplinato e malpagato, si vede costretto a rimettere i piedi sul suolo italico nella primavera del 275 a.C.
Pirro non è più lo stesso, sempre più consapevole di un concreto fallimento dei suoi desideri di costituire in Italia un suo regno.
Aveva pensato di trovarsi ad affrontare popoli barbari, facilmente domabili e invece ebbe a scontrarsi con un popolo, i Romani, che si era mostrato tutt’altro che docile e che in un misto di doti diplomatiche, politiche, militari, strategiche era riuscito a rivaleggiare sullo stesso piano del sovrano orientale.
Ma non tutto è perduto e Pirro decide di arrivare all’ennesimo scontro con i Quiriti. Arruola in tutta fretta un esercito tra i tarantini, rinforzando i suoi 23.000 uomini, di cui circa 3.000 cavalieri, e i suoi elefanti rimasti e si sposta per trovare il nemico.
I consoli per l’anno 275 sono Lucio Cornelio Lentulo e Manio Curio Dentato (console per la terza volte, vincitore ultimo della terza guerra sannitica, fautore della fondazione della colonia di Senigallia dopo aver battuto i Galli Senoni) che ricevono il comando delle truppe impegnate rispettivamente in Lucania e nel Sannio.
Alla notizia dell’avanzata di Pirro verso il Sannio i due consoli decidono di presidiare le vie per Roma, Lentulo quella centrale, Dentato quella più orientale, presso la città di Maleventum.
A questo punto il re dell’Epiro divide le sue forze inviando un grosso distaccamento a intercettare Lentulo e impedirgli di raggiungere il collega Dentato che, di conseguenza si trova ad affrontare il resto dell’esercito epirota (nell’ordine di circa 20.000 fanti e 3.000 cavalieri) con le sue sole legioni, per un totale di 17.000 fanti e 1.200 cavalieri, pur potendo contare sulla sua posizione favorevole, trovandosi su un’altura.
Secondo Plutarco Dentato prese tempo prima di ingaggiare battaglia al fine di potersi congiungere presto con Lentulo e ciò anche perché gli auspici (sempre richiesti prima dell’inizio di un combattimento ) erano infausti e quindi non favorevoli. Ma è più probabile, considerata la sua lunga esperienza militare, che il console, più che decidere in base ai riti propiziatori, avesse deciso in base alla situazione reale che si profilava in quel momento e la posizione del suo campo gli dava ragione.
In ogni caso l’atteggiamento dei Romani spinge all’azione Pirro che non ha voglia di aspettare: contrariamente al suo grande esempio, Alessandro Magno, che odiava attaccare di notte, decide di sfruttare il buio per portarsi in prossimità del castra romano. Consapevole delle difficoltà di una marcia notturna decide di portarsi solo parte del suo esercito, i migliori e parte degli elefanti.
Il resto delle truppe avrebbero avanzato in pianura affinché fosse avvistato dai romani all’alba (come riferisce Plutarco nel suo Pirro, XXV). E il suo collega Dionigi di Alicarnasso scrive che “era inevitabile che gli opliti, gravati da elmi, corazze e scudi e facendo la marcia per colline e sentieri non battuti da uomini, ma da capre, attraverso boscaglie e dirupi, non fossero in grado di mantenere l’ordine e fossero spossati per la sete e la fatica prima ancora che spuntassero i nemici” (Antichità romane, XX).
L’avanguardia epirota finisce per camminare talmente a lungo da fare spegnere le torce: gli uomini si disperdono e il nuovo giorno li vede ancora sulle colline prima di riuscire ricompattarsi e lontani dal resto dei compagni giù nella pianura, al libero sguardo dei romani.
Dentato coglie subito l’occasione e fa uscire i suoi legionari dal campo fortificato lanciandoli in battaglia e in poco tempo ha ragione dell’avanguardia che batte in ritirata per cercare di unirsi al grosso dell’esercito. Data la conformazione del territorio dove i due contendenti si affrontarono dovette trattarsi, più di una caccia all’uomo e all’elefante che di un regolare scontro in campo aperto.
Le sorti della battaglia saranno ancora da decidere, considerato che i Romani scendendo dalle alture si trovano in pianura, probabilmente non proprio in ordine compatto, e qui vi trovano gli epiroti nella classica formazione falangitica.
Le fonti sono alquanto scarse e non permettono una ricostruzione dei fatti che portano alla vittoria di Roma, comunque sono tali da concludere che anche questo terzo scontro non vede affrontarsi la sola legione contro la sola falange.
Il fattore determinante è nuovamente l’utilizzo degli elefanti e il loro successivo comportamento. Plutarco ci dice che fra fanti epiroti e fanti romani prevalessero quest’ultimi, mentre dove erano posizionati gli elefanti, verosimilmente sulle ali dove c’era più spazio per caricare, erano questi che avanzavano costringendo i Romani a indietreggiare (Orosio, di contro, posiziona i pachidermi in retroguardia – Le storie contro i pagani, IV).
Bravura degli elefanti o ripiegamento tattico preventivato da Dentato, sta di fatto che gli epiroti si avvicinano al campo romano, affrontando sia i legionari fuori che quelli dentro il castra, finendo per subire l’intenso lancio dei pila dagli spalti. Tra le vittime designate i conducenti degli elefanti e gli uomini nelle torrette e secondo quanto scrive Orosio furono usati “ordigni incendiari avvolti di stoppa, spalmati di pece e muniti di resistenti uncini…, li incendiavano e li scagliavano sul dorso delle bestie e all’interno delle torricelle” (Orosio, Le storie contro i pagani, IV).
I pachidermi, feriti, ustionati o senza guida, finiscono per perdere il controllo e si disperdono tra le fila epirote, seminando il panico tra i soldati.
Pirro è costretto a sganciarsi dallo scontro per evitare di subire il movimento a tenaglia dei romani di Lentulo che è ormai prossimo al campo di battaglia. Due elefanti vengono uccisi e altri otto sono consegnati dalle loro stesse guide ai legionari.
Questa volta non è una mezza vittoria per uno dei due contendenti ma una vittoria completa e decisiva, tanto che Roma decide di cambiare come segno fausto il nome di Maleventum in Beneventum.
Pirro è costretto a leccarsi le ferite e ormai, preso dallo sconforto, in lui si fa strada il pensiero di lasciare l’Italia: si ritira a Taranto e da qui si imbarca verso la Macedonia, lasciando una guarnigione al comando del figlio, un gesto per salvare le apparenze con i tarantini di un successivo ritorno, ma il sovrano non avrà nessuna intenzione di riattraversare il Mediterraneo, deciso invece a conquistare la Macedonia, cosa che riesce per poi perderla in poco tempo.
Ma il suo spirito irrequieto anela a nuove avventure e si ritrova nel Peloponneso, prima ad assaltare Sparta nel 272 a.C., su richiesta di un suo generale che aveva rivendicato il trono della città e poi si porta sulla città di Argo.
Una volta entrato in città e prima di ritirarsi, una vecchia affacciatosi dalla propria casa vede che il re sta combattendo contro il proprio figlio e staccata una tegola la lancia addosso, colpendolo alla base del collo, proprio sotto l’elmo, spezzandogli le vertebre.
Finisce così l’epoca di un condottiero, considerato in Oriente quasi alla stessa stregua del grande Alessandro.
I Romani riescono alla fine ad avere ragione di questo valente ma per certi versi inconcludente generale, ma quello che alla fine conta è che per l’Urbe è stata la proficua occasione per mettere le mani e imporre la sua influenza e autorità sulle terre del Meridione e sui popoli che vi abitano. Infatti la grande e tenace Taranto cade tre anni dopo con l’assedio portato a termine dal console Papirio Cursore il Giovane a cui è la stessa guarnigione lasciata da Pirro a consegnare la città.
Caduta Taranto l’intera Magna Grecia passa sotto Roma e le città greche sono considerate soci privilegiati. Il prestigio di Roma né esce più che rafforzato affacciandosi sul Mediterraneo come la nuova potenza da battere e presto avrebbe affrontato l’altra grande potenza dell’Occidente: Cartagine.