Dormire a Roma in epoca imperiale era un atto d’iniziazione tanto quanto attraversare i suoi archi trionfali o salire la scalinata del Campidoglio. Ogni viaggiatore che giungeva nella capitale dell’Impero romano si confrontava non solo con la grandezza delle sue vie lastricate e il brulichio incessante delle sue folle, ma anche con l’incognita più fatale di tutte: dove avrebbe potuto riposare le membra stanche dopo giorni di viaggio? Se oggi la scelta di un hotel a Roma passa attraverso filtri e recensioni digitali, nell’antichità il viaggiatore doveva affidare la propria sorte a una città capricciosa, vibrante e imprevedibile, pronta tanto ad accogliere quanto a respingere con ferocia.
Il cuore pulsante della vita romana era il movimento: funzionari di provincia, mercanti fenici, scribi egiziani, ambasciatori partici, veterani delle legioni e pellegrini in cerca di redenzione si riversavano ogni giorno nelle sue strade. La città respirava al ritmo delle partenze e degli arrivi, e i suoi luoghi di ricovero erano specchio di una società profondamente stratificata, dove l’alloggio diveniva insieme necessità, marchio di status e banco di prova di adattabilità. Il panorama delle sistemazioni era variegato, incerto e spesso rischioso: tra locande e bettole, grandi insulae e pensioni improvvisate, ogni angolo della Roma imperiale offriva rifugio, ma non sicurezza. Sopravvivere, più ancora che dormire, era la vera sfida della notte romana.
Nel vocabolario urbanistico della città, il termine “hotel” naturalmente non esisteva. Esistevano però una molteplicità di strutture che ne anticipavano, almeno in parte, alcune funzioni: le cauponae e le tabernae, locande e taverne, erano sparse in gran numero sia sulla rete stradale periferica sia tra i vicoli affollati della città. Giovenale, nelle sue Satire, non nasconde lo sconcerto verso la fama sinistra delle cauponae, ritraendo la scena tipica di un forestiero giunto di notte alle porte di Roma, costretto a mendicare un posto “qualunque, almeno al riparo dalla pioggia e dal fango” (Sat. III, 232-267). Spesso queste locande offrivano ben poco: una panca dura, una coperta malandata, cibo scadente e un bicchiere di vino allungato. L’accoglienza dipendeva dall’umore dell’oste e dal censo del cliente.
La frequentazione delle cauponae includeva prevalentemente viandanti poveri, mercanti di passaggio, attori, soldati in congedo e pellegrini. La promiscuità regnava sovrana, e la notte trascorreva fra corpi ammassati, odori acre e ruberie frequenti. Accanto alle cauponae, la Roma imperiale offriva le stabula, veri e propri punti di sosta per chi viaggiava con animali o veicoli. Qui, il focus era più sulla cura degli animali e la custodia delle merci che su quella degli uomini; chi vi pernottava sapeva di non dover aspettarsi molti riguardi, accontentandosi di una copertura contro le intemperie e un’abbondante dose di pazienza.
Le tabernae, invece, rappresentavano una via intermedia tra l’osteria e l’albergo; durante il giorno erano frequentate da artigiani e lavoratori per il pranzo e il vino, mentre dopo il tramonto le loro sale venivano svuotate e adattate a uso dormitorio. Nel quartiere della Suburra, crogiuolo di vita popolare, le pareti delle tabernae erano impregnate di fumo e profumi intensi di spezie e sudore: qui non esistevano privacy né comfort, ma ci si poteva imbattere nei racconti delle mille genti che abitavano e attraversavano Roma.
È Orazio, nel celebre viaggio a Brindisi, a fornirci un quadro vivido delle locande sull’Appia, fra topi, pulci e vino aspro. Il poeta lamentava la mala sorte che spesso toccava a chi era costretto a fermarsi in locande decadenti prima di raggiungere la città. Non di rado, la camminata notturna tra le strade della capitale si risolveva, per il viaggiatore meno fortunato, in un bivacco improvvisato sotto i portici dei templi o il riparo provvisorio di un’insula. Petronio, nel “Satyricon”, narra addirittura del rischio di addormentarsi fra le botteghe e ritrovarsi vittima di furti o peggio, in una metropoli notturna che, secondo l’autore, non lasciava “un solo sesterzio all’incauto”.
Il mestiere degli osti – spesso esercitato da uomini liberi di modesta condizione o da schiavi liberati, come alcune iscrizioni funerarie testimoniano – aveva una reputazione ambivalente. Alcuni vantavano con orgoglio, sulle lapidi, una clientela internazionale e fedele, altri erano ricordati per inganni ai viaggiatori. Nelle commedie di Plauto, la figura dell’oste prende persino una connotazione grottesca, tra malizia e scaltrezza, simbolo di un mondo popolare dove il confine tra onestà e truffa si assottiglia. L’alloggio nella Roma imperiale poteva dunque essere un’esperienza avventurosa o una disavventura, e il confine spesso era tracciato dalla casualità degli incontri e dalla fortuna della notte.
La vera alternativa al rischio delle cauponae era la rete delle relazioni personali e del clientelismo, fulcro del mondo romano. Le case private dei cittadini benestanti – spesso, ma non sempre appartenenti all’aristocrazia – fungevano da hotel per amici, parenti, clienti e protetti. L’ospitalità privata non era mai fine a sé stessa, ma inserita nella logica dello scambio di favori e nell’intreccio di rapporti tra patroni e clienti. Essere ospitati da un cittadino romano significava divenire oggetto di un dovere e nel contempo di un privilegio; spesso questa accoglienza era ricambiata con piccoli doni, prestazioni lavorative, appoggi politici.
La letteratura epistolare e le testimonianze delle iscrizioni confermano che viaggiare nell’impero senza punti di riferimento poteva rivelarsi arduo, se non pericoloso. Seneca stesso ammoniva il suo Lucilio alla frugalità e all’accettazione delle mancanze: un letto duro, l’assenza di intimità, il cibo insipido, scriveva, erano il prezzo da pagare non solo per sopravvivere, ma per far parte del grande meccanismo che reggeva la vita della città. La sopravvivenza, più che il sonno, sembra essere il leitmotiv dell’esperienza alberghiera antica; un sopravvivere fatto di adattamento e costanza.
Nelle periferie urbane sorgevano infine le hospitia, pensioni a basso costo che accoglievano gli stranieri privi di raccomandazioni e indigenti provenienti da ogni angolo del mondo. Erano gestite spesso da donne, come dimostrato dai nomi femminili che ricorrono nelle dediche e nelle epigrafi. Le condizioni di vita erano ancor più precarie: letti condivisi in stanze affollate, assenza di servizi igienici, pasti di fortuna a base di pane e formaggio, rischio costante di soprusi. Tuttavia, era proprio qui che si creava il microcosmo cosmopolita della Roma imperiale, un luogo in cui le voci di Dacia si mescolavano a quelle di Siria e d’Egitto, e ogni notte aveva il sapore di un’avventura collettiva.
Lo spazio fisico degli alloggi era spesso modesto. Le stanze, in molti casi, erano ricavate alla bell’e meglio da locali al piano terra degli edifici o nelle retrobotteghe delle attività commerciali. Marziale, poeta della quotidianità romana, non perde occasione per ironizzare sulle minuscole camere in cui soggiornavano i visitatori, costretti talvolta a “contare le pulci” più che le notti. Il comfort era parola ignota; rarissima era la presenza di acqua corrente, e la condivisione di lenzuola e coperti era la norma più che l’eccezione. Nei migliori casi, chi poteva permetterselo alloggiava in una domus di amici o clienti; nei peggiori, si accampava tra i recinti degli animali o sotto le logge pubbliche.
Neppure la sicurezza era assicurata. Roma era città vivace quanto inquieta, e la notte un terreno fertile per ogni sorta di rischio. I clienti delle cauponae dovevano guardarsi sia dai ladruncoli sia dagli stessi osti, accusati spesso di collusione; il racconto di Orazio sulle locande dell’Appia sottolinea la difficoltà di trovare, in compagnia di amici, una sistemazione priva di imbroglioni. Mancava qualsivoglia sistema di sicurezza o tutela per il forestiero, che affidava i propri averi a Dio – o meglio, agli dèi protettori dei viandanti – e alla saggezza del caso.
Eppure, proprio questa precarietà costituiva il fascino e la forza della Roma antica. Dormire, viaggiare, sopravvivere non era solo una questione materiale, ma sociale e culturale. La città era spazio d’incontro, competizione e contaminazione. I racconti degli scrittori antichi sono punteggiati di esperienze grottesche, equivoci, furti subiti e amicizie nate tra una branda e un bicchiere di vino allungato. Roma non prometteva lusso né riposo, ma la possibilità di partecipare a una notte collettiva, fatta di riti, stanchezza e racconti scambiati sotto luci tremolanti.
Per chi veniva da lontano, arrivare a Roma significava, in fondo, accettare di essere travolto dalla sua energia. Tutto – dal modo di viaggiare alle modalità del dormire – parlava di una città in perenne fermento. Il perno della sopravvivenza era spesso la capacità di aggirare piccole trappole quotidiane: portare con sé, se possibile, una coperta personale o affidarsi alla cortesia di un conoscente, scegliere con attenzione la locanda (meglio se raccomandata da altri compagni di viaggio), rinunciare al comfort in cambio della sicurezza.
Solo i più ricchi, in certe occasioni, potevano contare su un’accoglienza raffinata nelle grandi domus aristocratiche, dove l’ospitalità era parte integrante del cerimoniale sociale. Qui, tra colonne di marmo e giardini ombrosi, la notte diventava occasione di intrighi, discussioni e alleanze. Ma il viaggiatore “medio”, privo di privilegi, vedeva nelle notti romane una sfida che andava ben oltre il semplice riposo: era sopravvivere nel caos della grande capitale, imparando a orientarsi in un labirinto di rumori, colori e dialetti.
In ultima analisi, viaggiare a Roma in epoca imperiale era molto più di un passaggio geografico. Era entrare, per il tempo di una notte o di un anno, in un microcosmo in cui il sonno era concessione, non diritto; in cui la sopravvivenza era un’arte condivisa, fatta di adattamento e cautela, speranza e coraggio. Le parole di Marziale – nei suoi epigrammi pungenti e ironici – riassumono forse meglio di chiunque altro la verità dell’esperienza alberghiera romana: “Roma, città dalle mille anime, mille letti e nessun vero riposo; dove ogni notte si dimentica il giorno e il domani appare sempre più lontano”.
Questa è la storia di chi, attraversando la Roma delle luci e delle ombre, imparava a viaggiare dormendo con un occhio sempre aperto – ma anche di chi, nonostante tutto, sapeva ritrovare nella confusione della notte romana una straordinaria, irripetibile umanità.
Fonti primarie antiche utilizzate:
- Giovenale, Satire, III 232-267 (trad. inglese, Loeb Classical Library)
- Orazio, Satire I, 5 (trad. inglese, Loeb Classical Library)
- Marziale, Epigrammi, XI 64; XII 57 (trad. inglese, Loeb Classical Library)
- Petronio, Satyricon, cap. 78 (trad. inglese, Loeb Classical Library)
- Seneca, Epistulae Morales ad Lucilium, 18-20 (trad. inglese, Loeb Classical Library)
- Plauto, Asinaria, vv. 380-402 (trad. inglese, Loeb Classical Library)