La storia delle streghe è una storia di paura e controllo, di potere e superstizione, di donne e di uomini che videro in esse lo specchio oscuro delle proprie angosce. Immaginate una notte europea del tardo Medioevo, le case immerse nel silenzio, il vento che scuote le imposte. Basta un urlo nel buio, un raccolto andato male o un bambino febbricitante perché il sospetto diventi accusa. È così che, tra la fine del Quattrocento e il Seicento, l’Europa si convince che il male cammina tra noi, nascosto nei volti familiari delle donne del villaggio. Le streghe non nascono da un incantesimo, ma da un bisogno collettivo di nominare e punire la paura.
La prima grande codificazione di questa ossessione è il “Malleus Maleficarum”, il “Martello delle streghe”, scritto nel 1486 dal domenicano Heinrich Kramer e attribuito in parte anche a Jakob Sprenger. Pubblicato in Germania e approvato dalla Facoltà di Teologia di Colonia, il testo divenne presto la bibbia inquisitoriale d’Europa. Le sue pagine — tradotte come The Hammer of Witches — non erano soltanto un trattato teologico, ma una vera e propria guida per magistrati e inquisitori su come riconoscere, interrogare e condannare una strega. Al suo interno si legge: “Poiché la donna è più inclinata alla fede leggera e alle passioni carnali, il demonio la trova più facile da ingannare”. Con questa frase, apparentemente dottrinale, Kramer sigillava secoli di sospetto contro il femminile, trasformando una costruzione teologica in un dispositivo di persecuzione.
Il “Malleus” descriveva con approccio giuridico la stregoneria come una forma di eresia concreta, non simbolica. L’accusa non era solo spirituale, ma fisica, tangibile: coinvolgeva il corpo della donna, la sua carne, la sua sessualità, la sua voce. Il testo illustrava come identificare una strega — dal “segno del diavolo” impresso sul corpo fino all’incapacità di piangere durante l’interrogatorio — e sanciva che il silenzio sotto tortura fosse già prova di colpevolezza. Il suo linguaggio era scientifico nella forma, spietato nella sostanza. La superstizione diveniva legge, la fede giustizia, la paura istituzione. Da quel momento in poi, migliaia di donne — guaritrici, levatrici, vedove o semplicemente indipendenti — vennero trascinate davanti ai tribunali. Il fuoco, più che strumento di purificazione, diventava teatro del potere.
Eppure, già nel XVI secolo, si levò una voce dissonante. Era quella di Reginald Scot, giurista e gentiluomo inglese, che nel 1584 pubblicò “The Discoverie of Witchcraft”, opera destinata a scandalizzare il mondo cristiano. Scot scrisse in un’Inghilterra attraversata da un fervore religioso che non perdonava l’incredulità. Ma egli non si limitò a dubitare: smontò con lucidità logica le pretese legali e morali della caccia alle streghe. Nei suoi capitoli più feroci accusò i giudici e gli inquisitori di ignoranza e crudeltà, definendo i processi “una farsa crudele che condanna l’innocente e loda l’impostore”. Gli accusatori, sosteneva, non facevano che proiettare i propri demoni su donne prive di difesa. Le confessioni, ottenute con la tortura, erano agli occhi di Scot “testimonianze dettate dal dolore e dalla disperazione, non dalla verità”.
Scot affrontava la stregoneria con gli strumenti della ragione empirica: l’esperienza e l’osservazione. Dimostrava che fenomeni ritenuti magici — apparizioni, possessioni, incantesimi — potevano essere spiegati con cause naturali o psicologiche. In questo senso, “The Discoverie of Witchcraft” fu una delle prime opere moderne di debunking. Il suo impatto, tuttavia, fu limitato: pochi anni dopo, salito al trono Giacomo VI di Scozia, futuro Giacomo I d’Inghilterra, pubblicò il suo “Daemonologie” (1597), ribadendo con forza la realtà dei patti demoniaci. La tensione tra superstizione e ragione non era ancora pronta a risolversi.
Intanto, nei paesi cattolici, il “Malleus” continuava a circolare. I gesuiti ne fecero uso nelle missioni dell’Europa orientale e nelle province dell’Impero Asburgico. In Francia, durante i grandi processi di Loudun e Bordeaux, le accuse di stregoneria si intrecciarono con la politica e la lotta per il controllo del potere. Le cronache raccontano che a Loudun, nel 1634, un intero convento di orsoline fu accusato di possessione diabolica: il protagonista, il sacerdote Urbain Grandier, fu torturato e arso vivo. Il suo caso, studiato anche dal giurista François de Rosset, è emblematico della fusione tra teologia, isteria collettiva e autorità politica. Ancora una volta, il corpo della donna — terreno di conflitti simbolici e morali — diventava il campo di battaglia su cui si combatteva la guerra tra il sacro e il profano.
Il secolo successivo, però, vide l’inizio del declino della febbre inquisitoria. Le guerre di religione avevano fiaccato l’Europa, e la scienza stava guadagnando terreno. In Inghilterra, dopo la pubblicazione della “Discoverie”, la cultura scientifica di uomini come Francis Bacon e Robert Boyle contribuì a ridimensionare il soprannaturale, relegandolo in un ambito di curiosità più che di terrore. Ma il cuore più tragico della caccia alle streghe doveva ancora pulsare: l’America puritana.
Nel 1692, nel villaggio di Salem, nel Massachusetts, un gruppo di ragazze iniziò a mostrare sintomi misteriosi: convulsioni, urla, allucinazioni. I medici del tempo le dichiararono vittime di “maleficio”. Bastarono poche settimane perché il panico contagiasse l’intera comunità. I processi furono magistralmente documentati nei verbali del “Court of Oyer and Terminer”, oggi conservati come “Salem Witchcraft Papers”. Da quelle pagine traspare l’orrore metodico del sospetto: “Io vidi lo spettro di Sarah Good arrampicarsi sul letto”, testimonia l’adolescente Ann Putnam; “Ella mi soffocò nel sonno e mi comandò di servire il diavolo”. Parole semplici, ma sufficienti per avviare un processo di condanne e impiccagioni. Nineteen people — diciannove persone — furono giustiziate, tra cui Rebecca Nurse, una donna di settantun anni nota per la sua pietà. Le carte del tribunale raccontano un’America ancora stretta nella morsa dell’antico incubo europeo.
Eppure, anche in quella tragedia si aprì una breccia di consapevolezza. Un anno dopo, nel 1693, il governatore William Phips sciolse il tribunale, e lo stesso giudice Samuel Sewall chiese pubblicamente perdono per aver condannato innocenti. Nei decenni seguenti, le colonie americane avrebbero ricordato Salem come il simbolo di quanto può accadere quando la fede diventa giustizia e la paura si traveste da certezza morale. In questo modo, la stregoneria cessò di essere soltanto un reato religioso per diventare un monito politico.
Ripercorrere oggi la vera storia delle streghe significa riconoscere in essa un grande esperimento collettivo di autorità e disciplinamento. Le streghe non furono quasi mai figure magiche nel senso popolare del termine, ma semplicemente donne che vivevano ai margini. Il pregiudizio religioso unito alla misoginia rese la povertà, la solitudine o la conoscenza dei rimedi erboristici motivi sufficienti per un processo. Così la cultura della paura plasmò la società. Nei villaggi tedeschi, i roghi segnavano il ritmo della giustizia; nelle università, si discuteva se i demoni potessero realmente possedere il corpo umano. E su tutto aleggiava la certezza che chi dubitava, come Reginald Scot, rischiava l’accusa stessa di empietà.
Non si deve pensare, però, che la caccia alle streghe sia stata una follia irrazionale priva di logica. Al contrario, essa rispose a un bisogno profondo di dare ordine al mondo. In epoche segnate da carestie, pestilenze e guerre, la credenza nel complotto demoniaco offriva una spiegazione semplice e collettivamente accettabile. Il “Malleus” e i processi successivi organizzavano la paura come linguaggio sociale. In questo senso, le streghe furono il capro espiatorio di un’Europa alla ricerca di certezze. Ogni confessione estorta, ogni rogo acceso serviva a ricompattare la comunità attorno all’illusione di purezza.
Dal punto di vista culturale, la distruzione delle streghe rappresentò anche la perdita di un sapere antico. Le curatrici e le levatrici di villaggio custodivano conoscenze mediche che non trovavano spazio negli ambienti accademici dominati dagli uomini. Eliminandole, la Chiesa e le autorità civili spazzarono via un patrimonio di medicina pratica e credenze popolari che sarebbe riaffiorato solo secoli dopo. Lo stesso “Malleus” lo afferma implicitamente quando condanna le donne che “guariscono con incanti e unguenti”: la guarigione senza intercessione divina era vista come una minaccia. Il fuoco dei roghi ardeva dunque su due fronti: quello della fede e quello del sapere.
Con l’arrivo dell’Illuminismo, la ragione impose un nuovo ordine alle domande antiche. Gli studiosi iniziarono a leggere i documenti dei processi con spirito storico più che morale. Ma la parola “strega” non scomparve. Rimase come categoria simbolica: la donna indipendente, la ribelle, la conoscitrice dei misteri naturali. Proprio per questo, nel corso del XIX e XX secolo, la figura della strega tornò a essere riletta non come vittima ma come eroina. Le nuove correnti spirituali — dall’esoterismo romantico al neopaganesimo moderno — ne fecero un emblema di autonomia contro i dogmi. E tuttavia, anche in queste rinascite, permaneva l’ombra del “Malleus”: l’archetipo della donna pericolosa, capace di sedurre, ingannare e sfuggire al controllo.
Oggi, parlare delle streghe significa affrontare la genealogia del potere stesso. Ogni “caccia” è anche una storia di chi insegue e di chi fugge, di chi accusa e di chi è accusato. Nell’Europa del XXI secolo, nessuno sarebbe bruciato per eresia, eppure le dinamiche di esclusione non sono scomparse. Ogni volta che una società isola il diverso per ricompattarsi, ogni volta che una paura collettiva cerca un volto su cui riflettersi, la storia delle streghe ritorna, sotto nuove forme. È la stessa logica che trasforma il timore in ordine, l’ignoto in colpa, la differenza in devianza.
Nella memoria delle streghe — nei registri polverosi dei tribunali, nei trattati dei teologi e nelle parole dei pochi che tentarono di difenderle — rimane il racconto di un’umanità alle prese con il proprio lato oscuro. Tra il Malleus Maleficarum e la Discoverie of Witchcraft, l’umanità percorse un sentiero che andava dal dogma alla ragione, ma lo attraversò trascinando con sé le ceneri delle sue vittime. Se oggi la parola “strega” può evocare libertà o ribellione, è perché il tempo ha restituito dignità a ciò che il fuoco aveva voluto cancellare. Forse, in questo riscatto linguistico, si cela il vero incantesimo: la capacità dell’uomo di ripensare le proprie paure e riscrivere la storia con pietà.
Le streghe, insomma, non ci hanno mai davvero lasciati. Continuano a vivere nei simboli culturali, nei romanzi, nelle piazze in cui si rivendicano i diritti e nella memoria delle donne che osano “pensare diversamente”. La loro eredità, incisa tra le fiamme del passato, è un monito eterno: quando la ragione si piega alla paura, ogni società torna ad accendere il suo rogo.
Fonti storiche consultate
- Malleus Maleficarum (traduzione inglese, Sacred Texts Archive, testo latino 1486)
- Reginald Scot, The Discoverie of Witchcraft (1584, traduzione inglese moderna, Project Gutenberg)
- Documenti originali dei processi di Salem, “Salem Witchcraft Papers”, Essex County Court, 1692