spot_img
Home Blog Pagina 33

Antinoo: il bellissimo amante dell’imperatore Adriano

Antinoo (110-130 d.C) fu un giovane della Bitinia, una antica provincia romana situata nell’odierna Asia minore, che intrecciò una relazione sentimentale e omosessuale con l’imperatore Publio Elio Adriano. Il ragazzo accompagnò l’imperatore durante i suoi viaggi attraverso le province orientali dell’impero, e alla sua tragica morte, avvenuta per annegamento nelle acque del Nilo, la sua figura venne divinizzata, raggiungendo per un certo periodo una popolarità simile a quella di Gesù.

La giovinezza di Antinoo e l’incontro con l’imperatore Adriano

Di Antinoo abbiamo poche informazioni: sappiamo che nacque nel 110 d.C, nella città di Claudiopolis, che si trovava in Bitinia, una provincia romana situata nell’Asia minore che corrisponde all’odierna Turchia nord-occidentale.

Molto probabilmente il ragazzo era di buona famiglia e di estrazione nobile: non abbiamo delle specifiche fonti che ce lo indicano in maniera inequivocabile, ma il fatto che abbia partecipato a degli eventi pubblici alla presenza dell’imperatore Adriano e che abbia avuto modo di interloquire con lui, lo colloca certamente presso una famiglia moderatamente agiata.

L’imperatore Adriano impiegò gran parte del suo tempo a viaggiare per tutto l’impero, e da innamorato dell’arte della cultura greca, nel 123 d.C era intento a visitare le zone orientali dei possedimenti romani.

Una delle tappe fondamentali del suo viaggio fu la città di Nicomedia, che l’imperatore scelse di visitare in quanto era stata appena colpita da una grave terremoto ed erano stati stanziati dei fondi per la ricostruzione delle principali infrastrutture e dei più importanti templi della zona.

Mentre supervisionava personalmente l’andamento dei lavori, durante un’occasione pubblica, l’imperatore incontrò probabilmente il giovane Antinoo.

Evidentemente in quella occasione l’imperatore si innamorò del ragazzo: la loro relazione, secondo la cultura romana, poteva essere accettata. La sessualità dei romani prevedeva la presenza di rapporti omosessuali senza particolari condanne. Quello che era veramente importante era che la persona dal maggiore rango sociale possedesse sessualmente il compagno di estrazione più bassa e non viceversa, affinchè non perdesse la sua virilità.

Adriano aggiunse così Antinoo al suo seguito e probabilmente gli fece frequentare una scuola di formazione nota come “Paedogogium“, dove i ragazzi imparavano la danza, il canto, e tutto quello che poteva far divertire l’imperatore durante la normale vita di corte.

Coloro che riuscivano a superare questa scuola, avevano il vantaggio di poter entrare in contatto, se non direttamente con l’imperatore, almeno con i membri più importanti dell’aristocrazia senatoria o in generale della nobiltà romana.

La convivenza tra Adriano e Antinoo

Dopo aver frequentato il suo corso di formazione, Antinoo divenne probabilmente un partner fisso di Adriano, tanto che alcune fonti ci informano che nel 125 d.C viveva stabilmente presso la villa dell’imperatore a Tivoli. L’abitazione di Adriano a Tivoli era assolutamente straordinaria: si trattava della ricostruzione, in scala minore, di tutti i luoghi che il regnante aveva visitato durante la vita. La villa era dotata di meravigliosi templi, di laghi artificiali, larghi boschi e costruzioni di finissima fattura.

Nel 127 d.C, Adriano era in viaggio in Italia e Antinoo molto probabilmente lo accompagnò. Nonostante l’età si facesse sentire e Adriano iniziasse ad accusare i sintomi di una malattia non meglio identificata, l’imperatore raggiunse nel 128 la Grecia e affrontò assieme al giovane amante una serie di iniziazioni religiose tipiche del mondo greco.

Dopodiché il viaggio dell’imperatore proseguì verso le province di Giudea e di Siria per poi arrivare in Egitto, dove i due presero dimora nell’agosto del 130 d.C

Il soggiorno di Adriano e Antinoo in Egitto fu particolarmente prolifico: sappiamo che i due andavano regolarmente a caccia insieme, che condividevano gran parte della giornata e che si lasciavano andare a divertimenti, anche lussuriosi.

Alcuni frammenti testimoniano come l’imperatore, in compagnia del ragazzo, avrebbe fatto visita sia alla tomba di Pompeo Magno, che proprio in Egitto era stato ucciso nel corso della guerra civile contro Giulio Cesare, sia al sarcofago di Alessandro Magno, che ai tempi rappresentava una visita obbligata per chiunque si recasse in Egitto.

Famosi sono le cacce ai leoni che Adriano e Antinoo facevano insieme: sembra addirittura che Adriano, in una occasione, abbia salvato la vita di Antinoo uccidendo un leone poco prima che questo caricasse il suo giovane compagno.

Dopodiché, Adriano e Antinoo decisero di prolungare il loro viaggio risalendo il fiume Nilo, come due veri innamorati.

La morte di Antinoo

Proprio in Egitto, la giovane vita di Antinoo conobbe fine. Sembra che nelle ultime settimane, Adriano si sia avvicinato alla pratica di alcuni riti magici. Forse il suo interesse era legato ai sintomi della sua malattia, e Adriano cercava un rimedio che potesse alleviare le sue sofferenze. Oppure, l’interesse dell’imperatore era rivolto alla questione più filosofica e religiosa che caratterizzava l’antica cultura egizia.

I due raggiunsero la città di Eliopoli, dove ebbero modo di visitare il famoso santuario di Thot e di prepararsi per celebrare la festa di Osiride. Esattamente il 22 ottobre del 130 d.C, mentre i due stavano festeggiando sul Nilo, il cadavere del giovane Antinoo venne ritrovato tra le acque del fiume.

Le fonti ci riferiscono che l’imperatore Adriano fu afflitto dalla fine del suo giovane amante, e sembrò dimostrare un accorato e sincero dolore.

La versione ufficiale riguardo la morte di Antinoo è quella di annegamento dovuta ad incidente. Sembra infatti che Antinoo, che era a bordo di una delle navi dell’imperatore, sia caduto accidentalmente nelle acque del Nilo e che non sia riuscito a guadagnare la riva.

Esistono però delle altre fonti antiche che propongono delle versioni alternative: la prima è quella di Dione Cassio, che oltre a citare la tesi dell’annegamento, parla di un possibile sacrificio. L’imperatore Adriano, probabilmente per essere liberato dalla sua malattia, avrebbe sacrificato la vita del giovane Antinoo come patto con gli Dei egizi.

In altre parole, il corpo del giovane sarebbe stato utilizzato per rendere efficaci gli incantesimi e le divinazioni che erano state fatte dai maghi egizi.

Anche un’altra fonte antica, in particolare Aurelio Vittore, scrive che aldilà della tesi dell’annegamento, i maghi avrebbero chiesto all’imperatore di sacrificare una vita che per lui fosse importante, e la scelta sarebbe ricaduta disgraziatamente sul ragazzo. Adriano avrebbe così prolungato la sua vita attraverso il sacrificio del giovane.

L’ultima fonte antica, la Historia Augusta, che a volte si lascia andare a dei pettegolezzi, sembra riassumere la presenza di diverse voci. Alcune parlavano dell’annegamento, altre del sacrificio per dei rituali magici, altre ancora di una eccessiva sensualità ed eccitazione di Adriano che sarebbe sfociata in tragedia.

Le interpretazioni sulla morte di Antinoo si sprecano, e la mancanza di dettagli sulla sua morte rendono questo, probabilmente, un mistero che non avrà mai definitiva soluzione. È anche possibile che Antinoo, più che essere una vittima sacrificale di Adriano, si sia offerto spontaneamente di sacrificare la propria vita per guarire il suo amato compagno.

La divinizzazione e il culto di Antinoo

Comunque sia andata la morte del giovane, Adriano attuò un processo di divinizzazione, per trasformare il suo sfortunato amante in un vero e proprio Dio. Adriano diede ordine di costruire una intera città a nome del ragazzo nota come Antinopolis, e che riprendeva, quanto a struttura urbanistica, i modelli classici delle città egizie.

Sembra che l’intenzione di Adriano fosse quella di seppellire Antinoo proprio nel centro della città a lui dedicata, ma per motivi non meglio identificati, scelse di riportare il feretro del ragazzo nella sua villa a Tivoli. Probabilmente non era ancora pronto per liberarsi della salma del giovane.

Adriano ordinò anche la costruzione di una importante quantità di statue che onoravano Antinoo come un Dio, con l’intenzione di sdoganare un vero e proprio culto del ragazzo. Antinoo venne collegato ai rituali della festa di Osiride e dall’Egitto il culto si diffuse abbastanza rapidamente in tutta la zona della Grecia, raggiungendo anche la città di Roma e le province dell’Africa settentrionale.

Il suo culto si espanse con particolare velocità: probabilmente la triste storia del ragazzo faceva facilmente presa nel cuore dei credenti, e soprattutto il fatto che un giovane mortale fosse elevato a Dio rendeva facile credere in una vita nell’aldilà.

Non sappiamo esattamente come si svolgevano i culti in onore di Antinoo, se venissero effettuati pellegrinaggi presso la sua tomba o la sua figura sia divenuta anche oggetto di divinazione secondo le più comuni pratiche orientali. Sappiamo però che la sua figura iniziò ad avere notevole successo, e che i credenti portavano regolarmente del cibo e si esprimevano in preghiere presso le oltre 2000 statue che vennero realizzate nel corso del tempo, e che i sacerdoti nei suoi templi onoravano il suo culto regolarmente.

Il culto di Antinoo, tuttavia, non riuscì ad attecchire e a fiorire nel lungo periodo: non conosciamo esattamente le motivazioni, probabilmente la sola spinta alla divinizzazione del ragazzo risiedeva nei provvedimenti ordinati da Adriano, i quali, dopo la sua morte, iniziarono ad ottenere un effetto via via sempre minore.

La figura di Antinoo gareggiò per un certo tempo con quella emergente di Gesù Cristo: il punto in comune fra i due è che entrambi erano stati degli uomini mortali, che con caratteristiche e attraverso storie diverse, erano ascesi al cielo diventando degli Dei.

La storia successiva, dall’Editto di Teodosio in poi, portò alla sistematica distruzione di tutti quei culti che potevano rappresentare un pericolo per il cristianesimo, e fu esattamente in quel periodo storico che le innumerevoli statue di Antinoo vennero abbattute.

La figura di Antinoo, non essendo riuscita a diventare un Dio del mondo antico, rimane ancora oggi estremamente affascinante, sia per la sua giovane età, sia come bandiera dell’amore omosessuale, e sia come storia, adatta ad esplorare le profondità dell’animo umano.

La prima guerra punica: riassunto e battaglie del conflitto

La prima guerra punica (264- 241 a.C) è stato un conflitto, prevalentemente navale, durato 23 anni, tra l’emergente potenza di Roma e l’antico impero cartaginese. Le due superpotenze si scontrarono all’inizio del III secolo a.C, per ottenere la supremazia del Mare Mediterraneo.

La guerra fu combattuta prevalentemente nelle acque della Sicilia e in Nord Africa. Dopo enormi perdite da entrambe le parti, e alcuni dei più grandi scontri navali della storia, (battaglia di Mylae, battaglia di Akragas, Battaglia di Capo Ecnomo, battaglia delle isole Egadi) i cartaginesi vennero sconfitti e Roma si impose come potenza egemone del Mediterraneo.

La situazione geopolitica allo scoppio della prima guerra punica

Entro la metà del III secolo a.C, Roma, da piccola città del Lazio, si era espansa con straordinaria rapidità, ottenendo una serie di vittorie sugli etruschi, sulla lega Latina e sui Sanniti. Dopo aver conseguito una sorprendente vittoria contro il generale Pirro, i romani assunsero il controllo delle città greche del sud Italia, che rappresentavano il punto di riferimento per i commerci mediterranei.

Mentre, fino a quest’epoca, i Romani si erano prevalentemente difesi da attacchi esterni, ora la politica di Roma assunse dei tratti fortemente imperialistici con l’obiettivo di ottenere il controllo completo del mare. Questo atteggiamento portò inevitabilmente gli interessi di Roma a collidere contro quelli di Cartagine, l’altra grande potenza del mare, che fino a quel momento aveva stipulato con Roma diversi trattati di pace di collaborazione.

D’altro canto, Cartagine era una ex colonia fenicia, che aveva spostato il fulcro del suo impero nel Nord Africa e che in quel momento rappresentava la principale potenza navale, la cui ricchezza era basata prevalentemente sul commercio e sul controllo delle rotte mercantili.

Il più grande campo di battaglia e obiettivo per tutta la prima guerra punica fu la Sicilia. All’epoca l’isola era divisa in tre aree di influenza: Cartagine deteneva il potere nella parte occidentale, incluse le importanti città di Agrigento, Panormus e Lilibeo.

La zona sud-est era controllata dal Re della potentissima città-stato di Siracusa, che governava anche gli interessi delle zone circostanti. Il nord-est era stato invece lungamente conteso tra diversi gruppi rivali. Quelli che prevalsero erano mercenari italici provenienti dalla Campania, che erano stati al servizio del tiranno di Siracusa, ma che successivamente si erano resi indipendenti e avevano conquistato la città di Messana, sviluppando un regno autonomo.

Il caso dei Mamertini e lo scoppio della guerra

Nel 288 a.C, i mercenari campani, che si facevano chiamare Mamertini, ovvero figli di Marte, conquistarono la città di Messana a tradimento, violando gli accordi con il tiranno di Siracusa. I mercenari uccisero buona parte della popolazione nativa e presero le donne come proprie mogli, utilizzando poi Messana come base strategica per compiere sistematiche razzie nella campagna circostante.

Nel 265, quando sul trono di Siracusa giunse il tiranno Gerone II, i rapporti con i Mamertini erano decisamente peggiorati e si era arrivati allo scontro militare. I soldati di Gerone assediarono Messana nel tentativo di fermare le loro scorrerie, ma anche per difendere la città di Siracusa da eventuali attacchi.

I Mamertini, pressati dal potente esercito siracusano, scelsero di chiedere soccorso alle principali potenze del loro tempo: i loro ambasciatori raggiunsero rapidamente le città di Cartagine e di Roma, domandando aiuto.

In un primo momento Roma rifiutò di concedere la sua collaborazione: il Senato non aveva intenzione di appoggiare un esercito improvvisato che, tra l’altro, aveva tradito degli accordi con Siracusa, città amica dei romani, e dunque lasciò cadere le loro richieste.

Cartagine, invece, pensò che offrire supporto ai mercenari sarebbe stato utile per espandere l’influenza punica in Sicilia. I cartaginesi inviarono allora delle truppe nella zona a supporto dei combattenti campani.

Questa mossa preoccupò Roma la quale, tenendo che il dominio cartaginese si sarebbe espanso nell’isola fino a diventare incontrollabile, decise di cambiare la sua politica estera e di appoggiare i Mamertini, per riequilibrare le forze.

Nel 264 a.C, le legioni romane sbarcarono per la prima volta sull’isola, al comando del generale Appio Claudio, che si diresse immediatamente verso Messana. La città era già stata occupata dai cartaginesi, ai quali erano state aperte le porte nella speranza che il loro intervento sarebbe stato risolutivo contro i siracusani.

L’esercito cartaginese, però, aveva approfittato della situazione e si era lasciato andare ad una serie di furti e di violenze in città. Adesso per i Mamertini gli unici possibili liberatori erano i romani.

Comprendendo perfettamente la situazione, Appio Claudio si offrì di aprire delle trattative con il generale cartaginese Annone. Il comandante punico accettò di incontrare gli ambasciatori romani, ma fu catturato a tradimento e gli fu imposto di ritirare i suoi uomini da Messana in cambio della libertà.

I cartaginesi furono pesantemente colpiti dalla scelta di Annone, che fu messo a morte per la sua stupidità. Inoltre ruppero i loro legami con i Mamertini e cercarono di stringere una nuova alleanza con Siracusa. Gerone, ancora desideroso di riportare Messana sotto il suo controllo, accettò di aiutare i cartaginesi a scacciare i romani dall’isola.

La guerra in Sicilia

L’esercito cartaginese assediò così Messana, aiutati dalle navi dei siracusani. I soldati di Appio Claudio, tuttavia, sconfissero le forze congiunte dei cartaginesi e dei siracusani e mantennero il pieno controllo della città.

La situazione degenerò rapidamente: il Senato romano inviò in Sicilia due eserciti consolari al comando dei generali Marco Valerio e Otacilio Crasso, per prendere il controllo dell’intera isola. Il loro intervento fu determinante: diverse città cartaginesi furono costrette ad arrendersi.

Ma l’obiettivo finale di Roma era la città di Siracusa: Marco Valerio guidò un grosso contingente contro Gerone, il quale, impaurito dall’esercito romano in avvicinamento, inviò immediatamente degli ambasciatori per trattare la pace. In particolare, Gerone offrì a Roma il controllo incontrastato sulla città di Messana e concordò un contributo di 100 talenti ogni anno per 15 anni, chiedendo in cambio di poter rimanere sul trono di Siracusa come città indipendente.

La resa di Gerone impressionò le città dell’entroterra siciliano, che decisero di arrendersi al generale Valerio e di stringere accordi di pace con la potenza romana. Così, la parte orientale della Sicilia finì sotto il controllo di Roma e gli uomini di Valerio poterono proseguire verso ovest, per insidiare le roccaforti puniche nel territorio siciliano.

Nel 262 a.C, i consoli romani Postumio Megello e Quinto Vitulo, si scontrarono con una forza cartaginese che era venuta a prestare soccorso alla città di Agrigento. I romani ottennero una decisa vittoria, e iniziarono ad assediare la città di Agrigento, che cadde dopo sette mesi: i soldati la saccheggiarono, vendendo tutti gli abitanti come schiavi.

Dopodiché, la forza militare romana spostò la sua attenzione sulle città greche che erano state alleate di Cartagine e agli sconfitti fu riservato lo stesso trattamento degli agrigentini.

Il contrattacco cartaginese

Se a prima vista può sembrare che i romani dominassero incontrastati la situazione, le fonti antiche ci confermano come le città siciliane mal sopportassero la loro presenza sul territorio: un malcontento che venne raccolto dai cartaginesi, che avevano ancora la loro potentissima flotta, pronta alla guerra.

I cartaginesi cambiarono la loro strategia, spostando il conflitto dalla terra al mare: i punici cominciarono a devastare le coste siciliane mettendo i romani in grave difficoltà: questi non avevano particolari competenze in marina e le loro piccole triremi non potevano eguagliare gli equipaggi più grandi ed esperti delle quinqueremi cartaginesi.

Roma non aveva così altra scelta che arrendersi alla potenza navale cartaginese oppure sviluppare, in tempi rapidissimi, quasi miracolosi, una flotta in grado di confrontare il nemico. Il Senato scelse questa seconda opzione e ordinò la costruzione di un centinaio di navi da guerra, che vennero completate nel tempo record di 60 giorni.

Nel frattempo, i romani studiarono le tecniche della marina militare sia dai Greci che dai cartaginesi stessi, grazie ad una nave punica che venne intercettata e sequestrata al largo di Messina, e opportunamente studiata per carpirne i segreti.

La nuova flotta romana fu così pronta a prendere il largo.

I primissimi scontri con i cartaginesi furono un disastro per i romani, che scontavano parecchi secoli di ritardo rispetto all’esperienza cartaginese. Gli avversari erano troppo preparati ed esperti e ben presto gli ammiragli romani dovettero retrocedere.

I generali romani sapevano perfettamente che la loro superiorità militare si esprimeva al meglio nel combattimento su terra, corpo a corpo, e per questo motivo riutilizzarono una idea militare greca per costruire il famoso “Corvo“.

Si trattava di un dispositivo montato sulla prua e sulla poppa di ogni nave: vi era un alto palo, con una punta ad uncino, che veniva rapidamente calato attraverso un sistema di funi, in modo tale che si conficcasse sulla nave avversaria. Si creava così una sorta di passerella, con tanto di ringhiere laterali, che permetteva ai legionari di abbordare la nave nemica e di trasformare lo scontro da navale a “terrestre”.

In questo modo, anziché cercare di speronare o affondare le navi nemiche, guidate da rematori più esperti di loro, ai romani era sufficiente posizionarsi a fianco della nave avversaria per compiere un rapido abbordaggio.

La prima grande occasione di dimostrare il funzionamento del corvo avvenne nel 260 a.C, quando le forze militari guidate dal console Duilio incontrarono quelle cartaginesi vicino alla città di Milazzo. I cartaginesi stavano saccheggiando le coste della Sicilia, vennero intercettate dalla flotta romana, e si prepararono allo scontro.

In realtà, i cartaginesi si resero conto che le navi romane erano dotate di un nuovo strumento mai visto prima, ma erano talmente sicure della loro superiorità da non farci particolare caso. E invece, 143 navi romane furono in grado di sconfiggere 130 cartaginesi, catturandone 31 e affondandone 14.

Gli anni successivi, da 259 al 256, videro diverse vittorie romane, che permisero ai legionari di invadere la Corsica e la Sardegna.

Nel 259, infatti, Lucio Cornelio Scipione guidò un esercito all’invasione dell’isola di Corsica e conquistò rapidamente la città di Alalia. I romani cercarono di ottenere lo stesso risultato in Sardegna, ma fallirono per la imperterrita resistenza delle popolazioni locali. D’altro canto però, il dominio cartaginese su entrambe le isole era stato spezzato.

Nel 258, i romani ottennero una ulteriore vittoria al largo di Sulci, mentre l’ammiraglio Attilio Regolo conquistò le città di Panormus e Mitistrato, oltre a vincere altre battaglie navali a largo di Tyndaris e nell’isola di Malta.

La spedizione romana in Africa

Nonostante le loro vittorie, i romani erano consapevoli che nella Sicilia occidentale regnava una situazione di stallo e Roma sentiva che l’unico modo per ottenere la vittoria finale era invadere il Nord Africa e catturare la stessa città di Cartagine.

Per questo motivo, Roma preparò tutta la sua flotta per salpare e attaccare direttamente Cartagine, ma le forze cartaginesi, venute a conoscenza dei movimenti delle navi romane, intercettarono il nemico in mare nei pressi di Capo Ecnomo, nella Sicilia meridionale.

Si svolse in quella occasione la più grande battaglia navale del mondo antico, e uno dei più giganteschi conflitti nella storia dell’uomo. Roma ottenne una decisiva vittoria, e la strada verso Cartagine appariva definitivamente libera.

Guidati dai generali Manlio Vulso e Attilio Regolo, i romani sbarcarono ad Aspis, nel Nord Africa, nel 256, e stabilirono il loro accampamento. Roma vinse un primo scontro, vicino alla città di Adys, ma la vittoria non fu determinante. Inoltre, l’inverno in avvicinamento costrinse la guerra ad una sosta.

Proprio in quel periodo, i romani cominciarono ad avere problemi di natura economica: la guerra si stava protraendo da diversi anni, e l’esaurimento delle finanze a disposizione della repubblica costrinse il console Vulso a tornare in Italia con parte dell’esercito, lasciando nelle mani di Attilio Regolo un contingente relativamente piccolo, che si attestava tra i 15.000 e i 20.000 uomini.

All’arrivo della primavera, Regolo riprese le operazioni e marciò contro la capitale nemica: i romani arrivarono presso la città di Tunes, ad un solo giorno di marcia da Cartagine. Prima ancora di attaccare battaglia, emissari romani contattarono le popolazioni locali e le incitarono alla rivolta contro Cartagine, per creare un effetto dominio che avrebbe messo in serissima difficoltà l’avversario.

Vedendo che la situazione appariva senza via di scampo, Cartagine richiese di venire a patti ma, compiendo forse un errore strategico importante, Attilio Regolo propose delle condizioni di pace del tutto inaccettabili per qualsiasi popolo, che avrebbero messo in ginocchio per sempre Cartagine e la sua gente.

Il Senato cartaginese cambiò quindi strategia e pensò di rivolgersi ad un alleato importante: vennero inviati degli ambasciatori presso gli Spartani, leggendari combattenti greci, i quali si unirono alla causa dei cartaginesi, con il loro generale Santippo.

Gli Spartani, insieme agli elefanti forniti da Cartagine, si scontrarono con i romani nella battaglia del fiume Bagradas, e distrussero completamente l’esercito di Attilio Regolo. Di circa 20.000 legionari che vennero impiegati sul campo di battaglia, solamente 3000 sopravvissero: i reduci fuggirono verso Aspis, mentre tutti gli altri vennero uccisi o fatti prigionieri.

Roma inviò immediatamente una forza di soccorso navale per recuperare i sopravvissuti, guidata dagli ammiragli Marco Emilio Paolo e Fulvio Nobiliore, che raggiunsero il nord Africa dopo aver sconfitto una flotta cartaginese al largo di Capo Hermaneum.

Grazie al supporto della flotta romana, i sopravvissuti della battaglia di Bagradas riuscirono a riparare presso Aspis, ma la sconfitta romana era stata gravissima. Per di più, come ci racconta lo storico antico Polibio, i romani vennero colpiti dalla peggiore tragedia navale dell’antichità: una tempesta coinvolse la flotta romana al largo di Camarina, nella Sicilia meridionale, e distrusse il 70% delle 264 navi da guerra, oltre ad uccidere buona parte dei 100.000 rematori e legionari che erano a bordo.

I nuovi scontri in Sicilia

L’invasione africana si era rivelata un grave fallimento per Roma, non solo dal punto di vista militare ma anche sul piano prettamente economico. Compiendo sacrifici straordinari, Roma ricostituì abbastanza in fretta una nuova flotta in grado di combattere quella cartaginese, mentre i punici avevano esaurito la gran parte delle loro risorse economiche e non apparivano in grado di risollevarsi.

Nel 254 a.C, la guerra riprese in territorio siciliano: i romani conquistarono la città fortezza di Panormus, e continuarono le loro operazioni navali. Le loro incursioni lungo le coste africane vennero tuttavia interrotte da un’altra tempesta, che nel 253 a.C comportò la perdita di una nuova flotta romana presso Capo Palinuro.

Sia il Senato che gli alleati di Roma si resero conto che la gestione della guerra stava portando al completo disastro economico, e furono costretti a cambiare il loro approccio al conflitto, spostando i combattimenti sulla terraferma. Inoltre, proprio in quel periodo, le invasioni galliche nell’Italia settentrionale aprirono un nuovo fronte per i romani, che ebbero la necessità di economizzare le loro risorse militari.

Nonostante gli sforzi degli ambasciatori cartaginesi per ottenere una pace, Roma ricostruì ancora una volta la sua flotta e assediò la città di Lilibeo: comandata dal generale Publio Claudio Pulcro, la flotta romana consisteva di 123 navi.

In realtà, Pulcro, generale inesperto, venne sconfitto dal suo avversario cartaginese Adherbal, perdendo oltre 90 navi. Nel frattempo, un’altra flotta romana, guidata da Giunio Pullo, fece naufragio poco dopo, sempre nei pressi di Camarina.

La situazione navale appariva così cupa e l’andamento della guerra talmente costoso, che il Senato romano preferì nominare un dittatore con poteri straordinari: Aulio Atilio Caiatino.

L’arrivo di Amilcare Barca e la battaglia delle Egadi

Nel 247 i cartaginesi misero in campo un nuovo generale: si trattava di Amilcare Barca, il padre di Annibale. Il Barca arrivò in Sicilia e riuscì a sconfiggere tutti gli eserciti romani per i quattro anni successivi. Barca non fu in grado di annullare la presenza romana dal territorio siciliano, ma pose fine alla capacità di Roma di dominare la guerra sui campi di battaglia.

Tuttavia i romani, nonostante avessero subìto una grandissima quantità di sconfitte e di disastri economici, dopo aver perso un sesto di tutta la loro popolazione e con il tesoro della Repubblica che andava esaurendosi, decisero di persistere nel tentativo di conquistare la Sicilia. I cittadini più ricchi finanziarono la costruzione di una nuova flotta: 200 navi da guerra vennero poste sotto il comando del console Lutazio Catulo.

Nel 241, Catulo incontrò la flotta cartaginese nella decisiva battaglia delle isole Egadi, all’estremità occidentale della Sicilia. Le navi cartaginesi erano cariche di grano e di rifornimenti per l’esercito di Amilcare, che era asserragliato in Sicilia, e la flotta punica, composta da 170 navi, perse la sua proverbiale manovrabilità. Cinquanta navi cartaginesi furono completamente affondate e 70 vennero catturate.

Si tratta della sconfitta decisiva per Cartagine. La battaglia delle Isole Egadi aveva praticamente azzerato la flotta navale punica, e contemporaneamente aveva tagliato i rifornimenti per Amilcare, che dopo 23 anni di guerra, fu costretto a chiedere la pace a Roma.

La crisi di Cartagine al termine della guerra

Non ci si sofferma mai abbastanza sull’importanza e sull’impatto storico della prima guerra punica. La vittoria romana era stata ottenuta ad un costo altissimo, sia in termini di vite umane che di denaro. Roma perse almeno 50.000 cittadini a pieno titolo, e almeno altrettanti fra soci ed alleati.

Ma in cambio i romani ricevettero il controllo completo della Sicilia, la più prosperosa delle isole del Mediterraneo, posizionata in un luogo strategico per le operazioni militari in tutto il mare. Così, la Sicilia divenne ufficialmente la prima provincia romana fuori dall’Italia. Fu immediatamente organizzata secondo il sistema dei municipi, e vennero attivate tutte le attività agricole per sfruttare adeguatamente il grano che veniva coltivato in grande quantità.

Cartagine fu invece costretta a pagare 3200 talenti d’oro per un periodo di 10 anni, riscattando ad un costo altissimo ognuno dei suoi prigionieri. Dovendo sborsare una cifra così esorbitante per salvare la vita dei suoi cittadini, Cartagine non fu in grado di pagare adeguatamente l’esercito di mercenari che li aveva aiutati nel corso della guerra.

Questo creò un dramma nel dramma: i mercenari si ribellarono, creando devastazioni attorno a tutta Cartagine, e privando i punici di qualsiasi forza militare per diversi anni.

Un altro risultato indiretto della guerra fu la perdita, da parte di Cartagine, delle isole di Sardegna e Corsica. Mentre Cartagine, sotto la guida di Amilcare Barca, era impegnata a combattere la guerra contro i mercenari che si erano ribellati, Roma aveva approfittato per strappare la Sardegna dal controllo punico, oltre a far sbarcare i suoi legionari in Corsica nel 238.

Gli ambasciatori cartaginesi chiesero spiegazioni, ma nella condizione in cui si trovavano, non erano minimamente in grado di imporre a Roma alcunché. Mentre i romani prendevano il controllo delle tre principali isole del Mediterraneo occidentale, ai cartaginesi veniva comminata una ulteriore multa per il solo fatto di aver protestato: altri 1200 talenti vennero aggiunti alla lunga lista di sanzioni.

La fine della prima guerra punica configura Roma come potenza principale del Mediterraneo, a tutto danno di Cartagine. che venne fortemente ridimensionata nel panorama geopolitico del suo tempo.

Ma la guerra era stata solamente rimandata: Nel frattempo, Cartagine aveva concepito un piano per espandere il suo potere nella penisola di Spagna, e il piccolo Annibale cresceva, maturando un profondo odio contro i romani, che avrebbe portato allo scoppio della seconda guerra punica, un conflitto che portò Roma vicino alla completa distruzione.

I leader mondiali devono agire rapidamente sui cambiamenti climatici

0

I leader mondiali si riuniscono alle Nazioni Unite, non mancano però problemi: una pandemia globale in corso, conflitti economici in numerosi continenti e problemi di conflitto e diritti umani dall’Afghanistan ad Haiti.

Ma con solo sei settimane rimaste fino al cruciale vertice globale sul clima in Scozia, presidenti e primi ministri devono anche far fronte a pressioni per mettere da parte queste tensioni diplomatiche e agire rapidamente e collettivamente per rallentare il riscaldamento del pianeta.

Abbiamo raggiunto un punto di svolta sulla necessità di un’azione per il clima“, ha avvertito il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, in uno dei suoi ultimi appelli per l’unità e l’urgenza. “Lo stato del nostro clima e del nostro pianeta è già peggiore di quanto pensassimo e si sta muovendo più velocemente del previsto. Dobbiamo agire ora per prevenire ulteriori danni irreversibili”.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite di questa settimana segna una delle ultime opportunità di alto profilo per i paesi di impegnarsi pubblicamente in un’azione più ambiziosa e concreta per ridurre le emissioni di gas serra in vista del vertice sul clima di novembre a Glasgow. Finora, tali promesse da alcune delle più grandi economie del mondo non si sono concretizzate, nonostante le dichiarazioni a tutto campo dell’amministrazione Biden, dell’Unione europea e di altri Paesi.

Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato venerdì ha avvertito che mentre decine di paesi hanno delineato nuovi piani climatici quest’anno, se altre nazioni, tra cui Cina e India, non riusciranno a perseguire piani più audaci, le emissioni di gas serra potrebbero effettivamente aumentare del 16% entro la fine del decennio. Ciò potrebbe mettere il pianeta su un percorso per riscaldarsi di 2,7 gradi entro la fine del secolo.

Il mondo si è già riscaldato di oltre 1 grado rispetto ai tempi preindustriali e gli scienziati affermano che ogni frazione di riscaldamento aggiuntivo porterà catastrofi sempre più gravi, da inondazioni più frequenti a incendi e ondate di calore più intensi.

Guterres e il primo ministro britannico Boris Johnson ospiteranno un incontro a porte chiuse – in parte di persona, in parte virtuale – di diverse dozzine di leader nazionali, tra cui un mix delle nazioni più grandi e potenti del mondo insieme ai paesi più poveri colpiti più duramente da cambiamento climatico.

 António Guterres e Boris  Johnson
António Guterres e Boris Johnson

È l’ultimo sforzo per spingere i grandi emettitori ad abbracciare un’azione climatica più aggressiva. Tali promesse sono essenziali se il mondo vuole avere qualche possibilità di raggiungere l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi sul clima: limitare l’aumento del riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali.

Il raduno mira anche a spingere i paesi più ricchi e sviluppati a mantenere le promesse a lungo non mantenute e fornire miliardi di dollari in finanziamenti per aiutare le nazioni vulnerabili e a corto di liquidità ad adattarsi agli effetti del cambiamento climatico e costruire economie più verdi.

È una minaccia comune“, ha affermato Tubiana, uno dei principali artefici dell’accordo di Parigi del 2015. “Il cambiamento climatico ignora la politica di potere. Non importa quanti eserciti hai, quante armi hai. … Abbiamo visto nella pandemia quando non ci organizziamo collettivamente quanto sia dannoso. Il clima è solo molto peggio“.

Lo storico accordo di Parigi del 2015, sostenuto da quasi tutte le nazioni del mondo, è stato progettato con l’aspettativa che i paesi aumentino i loro impegni volontari per ridurre le emissioni di gas serra nel tempo. Il previsto vertice di Glasgow, ritardato di un anno dalla pandemia, è stato a lungo il luogo in cui le nazioni dovrebbero presentarsi con impegni più tangibili a cinque anni da Parigi.

Ci sono segnali che il cambiamento sta avvenendo, anche se a singhiozzo.

Decine di paesi hanno già annunciato obiettivi più ambiziosi, anche se non sono ancora così aggressivi come gli scienziati vorrebbero. Ciò include gli Stati Uniti, che sotto il presidente Biden si sono impegnati a ridurre le emissioni almeno della metà entro la fine del decennio.

L’amministrazione ha unito le forze quest’anno con l’Unione Europea e il Regno Unito, sede di obiettivi climatici ancora più rigorosi, per cercare di costringere il più grande emettitore del mondo, la Cina, e altre importanti economie ad abbracciare obiettivi ambiziosi a breve termine per mettere il mondo su una traiettoria migliore.

Cina smog

Venerdì, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno anche concordato un “impegno globale sul metano” che ridurrebbe le emissioni del potente gas serra di quasi un terzo entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. Il Regno Unito e ha firmato l’iniziativa, così come l’Argentina, il Messico, l’Indonesia e diverse altre nazioni. La speranza è che altri paesi seguano.

La finestra si sta rapidamente chiudendo per i principali responsabili delle emissioni come la Cina, dovranno assumere nuovi impegni, e saranno davvero importanti per ridurre le emissioni globali“, ha affermato Paul Bledsoe, ex consigliere per il clima della Casa Bianca di Clinton, ora con il Progressive Policy Institute. “Nonostante i nuovi impegni degli Stati Uniti e dell’UE, a meno che altre nazioni non inizino a farsi avanti ben prima di Glasgow, l’intera comunità internazionale rischia di essere accusata di inadeguatezza“.

Dall’accordo di Parigi, il mondo è cambiato profondamente, sia nella diplomazia climatica che nella scienza del clima, dove è diventato solo più chiaro che le emissioni di gas serra dell’uomo stanno alimentando incendi intensi, inondazioni, ondate di calore e altri eventi meteorologici estremi che stanno reclamando vite e costando fortune.

Nel 2014, il presidente Barack Obama e il leader cinese Xi Jinping hanno siglato un accordo per limitare le emissioni di gas serra un anno prima dell’incontro di Parigi, rendendo possibile questo accordo globale.

La corsa al vertice delle Nazioni Unite a Glasgow si è rivelata molto diversa

Un anno fa non ci sono stati negoziati anticipati, in parte perché il presidente Donald Trump, che ha definito il cambiamento climatico una bufala e lo ha minimizzato, ha reso gli Stati Uniti l’unica nazione a ritirarsi formalmente dall’accordo di Parigi.

La capacità di stare insieme è stata davvero sconvolta dal covid“, ha affermato Pete Ogden, presidente della Fondazione delle Nazioni Unite ed ex direttore senior per l’energia presso il Consiglio di politica interna e il Consiglio di sicurezza nazionale.

L’amministrazione Biden, nel frattempo, ha cercato di recuperare il tempo perduto.

Nel suo primo giorno in carica, Biden ha aderito al trattato internazionale sul clima. Ha inviato l’ex segretario di stato John F. Kerry in giro per il mondo nel tentativo di stringere l’accordo sul clima più ambizioso possibile. E sta lavorando per convincere il Congresso ad approvare un pacchetto di spesa da 3,5 trilioni di dollari che includerebbe azioni per il clima di vasta portata , che è fondamentale per gli Stati Uniti per fare progressi verso il loro obiettivo di emissioni per il 2030.

Joe Biden
Joe Biden

Biden ha nuovamente convocato una riunione virtuale delle principali economie per lanciare promesse più audaci. “Il tempo per agire si sta davvero restringendo“, ha detto al gruppo.

Ora, con il successo del vertice sul clima di questo autunno in bilico, gli esperti vedono l’assemblea delle Nazioni Unite di questa settimana come una delle ultime sedi probabili per impegni ambigui.

Penso che sia importante che ci siano annunci importanti su come fare dei passi avanti“, ha detto David Sandalow, un veterano delle amministrazioni Clinton e Obama e ora membro del Center on Global Energy Policy della Columbia University. “Ciò deve includere l’azione da parte dei principali emettitori, ma anche delle principali istituzioni, gruppi finanziari e altri“.

Il raduno delle Nazioni Unite offre anche una rara opportunità prima di Glasgow per i leader delle nazioni ricche e delle nazioni più piccole e più povere per affrontare una situazione diplomatica danneggiata da promesse non mantenute, ha affermato Jennifer Morgan, direttore esecutivo di Greenpeace International. Una delle promesse centrali era che le nazioni sviluppate avrebbero fornito 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a costruire economie più verdi e ad affrontare le catastrofi legate al clima. Non è mai stato completamente finanziato.

In questo momento, non credo che ci sia molta fiducia nei paesi in via di sviluppo che il cambiamento climatico sia una cosa collettiva che risolveremo insieme, perché non sta accadendo nemmeno con il covid“, ha detto Morgan. “I paesi sviluppati devono farsi avanti e costruire quella fiducia“.

Ma ciò avverrà solo dando credito alle preoccupazioni di coloro che sono in prima linea nel cambiamento climatico.

I paesi più piccoli e vulnerabili, le piccole isole, l’Africaper loro è vita e morte ogni giorno”, ha detto. “Sono la voce che porta quell’umanità su ciò che è in gioco e su quanto sia importante avere questa collaborazione. Non è un problema lontano“.

Questi cambiamenti sono solo l’inizio del peggio che verrà”, ha avvertito Guterres, supplicando ancora una volta le nazioni di prendere impegni reali, non fare solo discorsi.

Siamo davvero fuori tempo massimo“.

I no Covid vax chiedono esenzioni religiose

0

Anche negli Stati Uniti ci sono grossi problemi per i dipendenti di aziende che richiedono obbligatoriamente il vaccino Covid 19. In particolare questa storia che è uscita sul New York Times è un dubbio che molto probabilmente arriverà in tutto il mondo: chi non si vaccina può chiedere un esenzione per motivi religiosi?

Tutto parte da Crisann Holmes che ha firmato una petizione per chiedere alla sua azienda di dargli una esenzione dal vaccino contro il Covid 19. Si è unita a una protesta informale, saltando il lavoro con altri dipendenti dissenzienti presso il sistema di assistenza sanitaria dove ha lavorato per due anni. E ha tentato di aprire una soluzione che molti in tutto il paese stanno ora esplorando: un’esenzione religiosa.

Sono in gioco la mia libertà e la libertà dei miei figli e la libertà dei bambini“, ha detto la signora Holmes, che vive in Indiana. Ad agosto, ha presentato una richiesta di esenzione che ha scritto lei stessa. Alcuni vaccini sono stati sviluppati utilizzando linee cellulari fetali da feti abortiti, ha scritto, pratica che lei trova ripugnante. Ha citato un passo del Nuovo Testamento: “Purifichiamoci da tutto ciò che contamina il corpo e lo spirito”.

Le religioni contro l’uso di cellule fetali

Le principali religioni, confessioni e istituzioni americane sono sostanzialmente unanimi alla contrarietà al vaccino Covid-19. Ma poiché sempre più datori di lavoro in tutto il paese iniziano a richiedere le vaccinazioni per i lavoratori, si stanno scontrando con un numero sempre crescente di nocovid vax che chiedono esenzioni per motivi religiosi – o almeno vedono un’opportunità di utilizzare questa via. I lavoratori contro i vaccini stanno condividendo suggerimenti online per richiedere esenzioni per motivi religiosi.

Il conflitto stava prendendo piede anche prima che il presidente Biden annunciasse nuovi obblighi per i vaccini sul posto di lavoro. I nuovi regolamenti richiederanno alla stragrande maggioranza dei lavoratori e di coloro che lavorano per grandi aziende private ​​di vaccinarsi o di sottoporsi a test settimanali. Complessivamente, dovrebbero interessare 100 milioni di lavoratori americani.

Le imprese statunitensi hanno trascorso gli ultimi 18 mesi ad affrontare una serie di sfide logistiche e politicamente controverse sollevate dalla pandemia, tra cui la chiusura dei luoghi di lavoro, la richiesta di mascherine e la riapertura, insieme a una diffusa carenza di manodopera. La nuova battaglia sulle esenzioni dai vaccini è particolarmente tesa, poiché contrappone le preoccupazioni sulla libertà religiosa alla priorità di mantenere un ambiente sicuro.

“Quanto possiamo chiedere? Fino a che punto possiamo spingerci? Dobbiamo assecondarlo? Queste sono le domande che i datori di lavoro stanno cercando di capire”, ha affermato Barbara Holland, consulente della Society for Human Resource Management.

Domande in aumento esponenziale

L’interesse per le esenzioni religiose è chiaramente in aumento. Mat Staver, fondatore e presidente di Liberty Counsel, un’organizzazione legale cristiana conservatrice, ha affermato che il suo gruppo ha ricevuto più di 20.000 domande sulle esenzioni religiose nelle ultime settimane.

Il Liberty Counsel ha intentato causa contro i funzionari di New York per i tentativi di negare le esenzioni religiose dall’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari. “Le conseguenze di questi editti forzati sono enormi“, ha detto Staver, citando la possibilità di carenza di manodopera se gli operatori sanitari si dimettono o vengono licenziati in massa.

A New York City, dove sono richiesti vaccini per gli insegnanti delle scuole pubbliche, il sindaco Bill de Blasio ha affermato che la città riconoscerà “motivi ristretti e specifici per l’esenzione religiosa“.

In molte comunità, i grandi datori di lavoro pubblici stanno già affrontando un’impennata delle richieste. A Tucson, in Arizona, 291 lavoratori hanno chiesto esenzioni religiose dopo che la città ha annunciato un obbligo di vaccinazione per i suoi dipendenti. La città ha incaricato quattro amministratori di smistare le richieste. Finora ne hanno approvati poco più della metà e ne hanno negati 15, con alcune richieste di ulteriori informazioni ancora in sospeso.

La città ha incaricato quattro amministratori di smistare le richieste

Alcuni datori di lavoro privati ​​stanno prendendo una linea dura. La United Airlines ha detto ai lavoratori che coloro che ricevono esenzioni religiose saranno posti in congedo non retribuito almeno fino a quando non saranno in vigore le nuove procedure di sicurezza e test Covid.

Le richieste di esenzione stanno mettendo alla prova i confini della legge federale sui diritti civili del 1964, che richiede ai datori di lavoro di fornire sistemazioni ragionevoli per i dipendenti che si oppongono ai requisiti di lavoro basati su credenze religiose “sinceramente tenute”.

A vantaggio degli obiettori come la signora Holmes, la disposizione definisce la “religione” in senso lato. La Commissione per le pari opportunità di lavoro ha specificato che le obiezioni religiose non devono essere riconosciute da una religione organizzata e possono essere credenze nuove, non comuni o che “sembrano illogiche o irragionevoli agli altri”.

Tuttavia, non possono basarsi solo su convinzioni sociali o politiche. Ciò significa che i datori di lavoro devono cercare di distinguere tra obiezioni principalmente politiche da persone che possono essere religiose e obiezioni che sono in realtà religiose nel loro nucleo.

Per molti scettici, la resistenza tende a basarsi non sugli insegnamenti formali di un leader religioso affermato, ma su una miscela ad hoc di cospirazioni online e disinformazione, media conservatori e conversazioni con amici e familiari che la pensano allo stesso modo.

Come riconoscere le esenzioni false?

“Le persone che hanno già preso una decisione sono ora alla ricerca di modi per continuare a esentarsi dal vaccino Covid”, ha affermato Joshua Williams, pediatra e assistente professore di pediatria presso l’Università del Colorado.

La ricerca prepandemica di Williams sui requisiti di immunizzazione scolastica suggerisce che la maggior parte delle obiezioni descritte come religiose ai vaccini sono in realtà una questione di convinzioni personali e laiche. Dopo che lo stato del Vermont ha rimosso l’esenzione dal vaccino per le convinzioni personali non religiose nel 2016, la percentuale di studenti dell’asilo con un’esenzione religiosa è aumentata dallo 0,5% al ​​3,7%, suggerendo che la maggior parte dei genitori che hanno approfittato delle esenzioni religiose lo ha fatto solo quando non vi erano altre vie legali.

Apple, Microsoft, Tyson Foods e Disney sono tra i principali datori di lavoro privati ​​che hanno annunciato quest’estate che avrebbero richiesto la vaccinazione di molti dei loro lavoratori. Dal momento che la Food and Drug Administration ha concesso la piena approvazione al vaccino contro il coronavirus di Pfizer-BioNTech il 23 agosto, altri stanno rapidamente seguendo.

Man mano che i regolamenti entrano in vigore e la variante Delta si diffonde in molte regioni del paese, alcuni ex scettici si stanno convincendo. L’amministrazione Biden ha affermato che circa 14 milioni di persone negli Stati Uniti hanno ricevuto il primo vaccino ad agosto, circa 4 milioni in più rispetto a luglio.

I furbi della rete

Online, una rete di leader religiosi in gran parte indipendenti si è offerta volontaria per fornire lettere di esenzione a coloro che ne fanno richiesta. Un evangelista indipendente in Texas offre lettere online in cambio di una donazione. In California, un pastore di una megachurch sta offrendo una lettera a chiunque selezioni una casella confermando che la persona è un “evangelico praticante che aderisce ai principi religiosi e morali delineati nella Sacra Bibbia“.

Le lettere non sono necessarie, dicono gli esperti, ma possono aiutare a sostenere che le obiezioni religiose al vaccino sono sincere.

Nella zona rurale di Hudson, Iowa, Sam Jones ha informato la sua piccola congregazione presso la Faith Baptist Church che è disposto a fornire loro una lettera di quattro paragrafi in cui si afferma che “un cristiano non ha alcun obbligo di obbedire a qualsiasi governo al di fuori dell’ambito designato da Dio.”

Ha detto che finora ha firmato circa 30 lettere ed è a conoscenza di una manciata di casi in cui l’esenzione religiosa di un membro è stata accettata dal datore di lavoro.

In Indiana, la diffidenza della signora Holmes sul vaccino è stata rafforzata dalla sua stessa ricerca. Si è sintonizzata su una conferenza “salute e libertà” ospitata da un conduttore di podcast anti-vaccino e ha scaricato materiali da America’s Frontline Doctors, un’organizzazione che spaccia false informazioni sui vaccini e promuove come trattamento il farmaco per il bestiame ivermectina, che il Food and La Drug Administration non ha approvato come trattamento contro il Covid e ha avvertito che può causare gravi danni a grandi dosi.

Poche settimane dopo aver presentato la sua richiesta di esenzione, il suo datore di lavoro ha richiesto maggiori informazioni, inviandole un modulo da compilare da un leader religioso per confermare le sue convinzioni. “La religione non richiede un leader”. Ma un pastore della sua chiesa, la EUM Church di Greenville, Ohio, ha accettato di compilare il modulo.

La signora Holmes è in attesa di una sentenza definitiva dal suo datore di lavoro. È disposta a perdere il lavoro se si arriva a questo. “Se non lotto per i miei diritti, chi lo farà?”

Eliogabalo: vita e morte dell’imperatore transessuale di Roma

Marco Aurelio Antonino Augusto, noto come Eliogabalo, fu imperatore romano dal 218 al 222 d.C.

Di origine siriana, Eliogabalo fu guidato in particolar modo dalla madre e dalla nonna e cercò di sdoganare il culto del Dio Elagabal, in palese contraddizione con i costumi romani.

Si dedicò ad una vita di lussuria e di eccessi, che scontentarono la guardia pretoriana, la quale decise per la sua esecuzione in favore del successore, il cugino Alessandro Severo.

La giovinezza e il sacerdozio per il Dio Elagabal

Eliogabalo nacque attorno all’anno 203 d.C da Sesto Vario Marcello e da Giulia Soemia Bassiana. La sua famiglia era importante ed influente: il padre era un membro della classe degli Equites, ma in seguito fu elevato al rango di senatore per una serie di meriti politici e militari.

La nonna, Giulia Mesa, era vedova di un ex console, Giulio Avito, e cognata dell’imperatore Settimio Severo, mentre la madre era cugina dell’imperatore Caracalla.

Eliogabalo aveva un fratello maggiore di cui non conosciamo il nome. Altri parenti importanti includevano la zia, Julia Avita Mamea e lo zio Marco Marciano, i quali avevano dei figli, tra cui Alessandro Severo, che sarebbe diventato imperatore al posto di Eliogabalo.

La famiglia di Eliogabalo, sin dalla sua nascita, deteneva i diritti ereditari per il sacerdozio del Dio del sole Elagabal, di cui Eliogabalo era il sommo sacerdote e che esercitava nella città di Emesa, odierna Homs, nella Siria romana.

Il Dio Elagabal venne venerato inizialmente nella zona attorno alla città di Emesa, ma ben presto il suo culto iniziò a diffondersi presso altre zone dell’impero romano, attorno al II secolo d.C, tanto che troviamo alcune dediche ad Elagabal anche presso la città di Woerden, in Olanda, presso il confine settentrionale del Limes romano.

Questo Dio venne successivamente importato ed assimilato con il Dio del sole di Roma, conosciuto come Sol Indiges, durante il periodo repubblicano e Sol Invictus, durante il II e il III secolo dell’impero.

La salita al potere di Eliogabalo

L’imperatore Caracalla era stato recentemente ucciso dalla sua guardia pretoriana e in particolare da uno dei suoi generali, Macrino, che ne aveva preso il posto. Macrino, appena arrivato al potere, si preoccupò di annientare tutti i possibili pretendenti al trono e di assicurare la successione a suo figlio Diadumeniano.

La famiglia di Eliogabalo apparteneva ai possibili avversari, e per questo l’imperatore condannò Giulia Mesa, le sue due figlie e il nipote, Eliogabalo, ad essere esiliati nella loro tenuta ad Emesa, in Siria. Giulia Mesa, tuttavia, non si rassegnò al destino che le era stato preparato da Macrino, e organizzò un audace piano, insieme al suo fidato consigliere nonché tutore di Eliogabalo, Gannys, per rovesciare Macrino ed elevare il quattordicenne Eliogabalo al trono imperiale.

La donna iniziò a dichiarare pubblicamente che Eliogabalo era il figlio illegittimo dell’ex imperatore Caracalla, notizia che attrasse immediatamente l’attenzione e la lealtà dei soldati e dei senatori romani che avevano giurato fedeltà a Caracalla qualche anno prima.

Giulia Mesa corruppe, grazie alla sua notevole ricchezza, anche la III legione, la quale giuro fedeltà ad Eliogabalo e promise di difenderlo a tutti i costi.

All’alba del 16 maggio del 218 d.C, il comandante della legione, Publio Valerio Comazon, dichiarò Eliogabalo Imperatore. Il ragazzo, per rafforzare la sua legittimità attraverso la propaganda, assunse i nomi di famiglia che erano appartenuti a Caracalla, Marco Aurelio Antonino.

Macrino, comprendendo il pericolo per il suo potere, inviò subito un esercito guidato dal suo prefetto del Pretorio, Ulpio Giuliano, per schiacciare la ribellione. Ma le cose per Macrino andarono molto male: i legionari che avrebbero dovuto combattere Eliogabalo si unirono spontaneamente alla sua fazione, tradendo i loro comandanti sul campo.

Gli ufficiali dissidenti vennero uccisi e la testa di Giuliano venne rispedita all’imperatore Macrino.

Macrino inviò allora una serie di lettere al Senato denunciando Eliogabalo come un usurpatore e sostenendo che era pazzo. Il Senato dichiarò guerra sia ad Eliogabalo che alla madre.

Ma nonostante il Senato avesse ufficialmente appoggiato la posizione di Macrino, lui e suo figlio vennero traditi dalla diserzione della seconda Legione a causa delle golose tangenti che erano state garantite da Giulia Mesa. I soldati di Macrino vennero sconfitti l’8 giugno del 218 d.C, nella battaglia di Antiochia dalle truppe di Eliogabalo comandate da Gannys.

Macrino fuggì verso l’Italia, opportunamente travestito, ma fu intercettato nei pressi della città di Calcedonia, portato nella regione della Cappadocia e lì giustiziato. Anche suo figlio Diadumeniano cercò di mettersi in salvo presso la corte dei Parti ma fu catturato vicino alla città di Zeugma, e anche lui messo a morte.

Eliogabalo dichiarò che la data della vittoria di Antiochia corrispondeva ufficialmente all’inizio del suo regno e assunse i titoli imperiali senza aspettare l’approvazione del Senato. L’atto violava pesantemente la tradizione, anche se questa pratica stava iniziando a diventare sempre più comune tra gli imperatori del III secolo.

Uno dei primi atti di Eliogabalo fu quello di inviare delle lettere a Roma per riconciliarsi con il Senato, spiegare le ragioni per cui si era rapidamente attribuito il titolo di Imperatore, e avviare alcune azioni politiche calcolate, come quella di concedere l’amnistia a diversi aristocratici ed annullare tutti i provvedimenti che erano stati presi da Macrino e da suo figlio.

I senatori risposero riconoscendo Eliogabalo come legittimo Imperatore e accettando la sua volontà di essere figlio legittimo di Caracalla. Sia la figura di Caracalla che di Giulia Domna furono divinizzate per ordine del Senato, e anche Julia Mesa e Julia Soemia, vennero elevate per ordine senatoriale al rango di Auguste.

Nel frattempo, Macrino e Diadumeniano vennero condannati alla pena della Damnatio Maemoriae, che prevedeva la completa cancellazione di tutte le tracce del loro governo e della loro vita, in modo che i posteri non potessero ricordarli.

Venne premiato anche l’ex comandante della terza legione, Comazon, che fu nominato comandante della Guardia pretoriana.

Eliogabalo come Imperatore

Eliogabalo e il suo seguito trascorsero l’inverno del 218 d.C in Bitinia a Nicomedia, e già in quella prima fase le credenze religiose dell’Imperatore si presentarono come un problema. Sembra che il suo tutore, Gannys, abbia cercato di dissuaderlo dal diffondere delle credenze religiose così contrarie alle classiche istituzioni romane, ma secondo Dione Cassio, Eliogabalo lo avrebbe messo a morte in quanto non aveva la minima intenzione di vivere “prudentemente” come gli veniva suggerito dal tutore.

Con un atto di decisa sfrontatezza, Giulia Mesa fece inviare a Roma un dipinto del Dio Elagabal, con l’ordine che venisse appeso vicino alla statua della Dea Vittoria in Senato. In questo modo, i senatori erano costretti a offrire le loro preghiere e i loro sacrifici ad entrambi gli Dei.

Le legioni furono costernate dal comportamento del nuovo imperatore e ben presto si pentirono di averlo supportato. Mentre Eliogabalo era ancora in viaggio verso Roma, scoppiarono infatti delle rivolte presso la IV legione, istigate dal comandante Gellio Massimo, il quale era stato niente meno che il responsabile dell’elevazione al trono di Eliogabalo.

Ma la sommossa venne immediatamente soffocata e la legione fu sciolta.

Quando Eliogabalo, assieme alla sua corte, raggiunse Roma nell’autunno del 219 d.C, Comazon e altri alleati di Giulia Mesa ricevettero premi e conquistarono posizioni politiche di alto rilievo, con estrema perplessità di molti senatori che non li consideravano affatto degni di tali privilegi. Comazon, ad esempio, venne nominato per due volte console e per tre volte prefetto della città di Roma.

Uno dei primi provvedimenti di Eliogabalo, di natura prettamente finanziaria, fu quello di svalutare la moneta: decise di ridurre la purezza del denario d’argento dal 58% al 46,5%, così che il peso effettivo dell’argento passò da 1,80 a 1.41 grammi. In maniera simile, diede ordine di svalutare la moneta conosciuta come Antoniniano.

Nel frattempo, Eliogabalo provvide personalmente ad eseguire un’altra serie di nomine, basate esclusivamente sul suo gusto personale: fece dichiarare un tale di nome Cesare, suo presunto amante, come alto funzionario, mentre un altro suo compagno, l’atleta Aurelio Zotico, fu nominato per una carica non amministrativa, ma comunque influente, detta “Cubicularius”, ovvero stretto collaboratore dell’imperatore.

Mantenne la sua promessa di concedere l’amnistia ad una vasta serie di aristocratici che erano sotto processo, il che suscitò le proteste di uno dei più grandi giuristi del suo tempo, Ulpiano, che per tutta risposta fu esiliato.

La madre e la nonna di Eliogabalo divennero le prime donne a poter entrare in Senato e ricevettero allo stesso modo dei titoli senatoriali che erano sempre stati appannaggio dei soli uomini: Soemia venne nominata come “Clarissima” e Mesa venne nominata “Madre dell’accampamento, dell’esercito e del Senato “.

Le due donne esercitarono sempre una straordinaria influenza sul giovane imperatore e si può dire che detennero, di fatto, il controllo sulla politica romana per tutto il regno di Eliogabalo.

La dottrina religiosa di Eliogabalo

Sin dal regno di Settimio Severo, il culto del Sole si era diffuso sempre di più in tutto l’impero. Eliogabalo vide la rapida crescita di questo credo come una opportunità per sdoganare la venerazione di Elagabal, con l’obiettivo di acclararlo come divinità principale del Pantheon romano. Il Dio Elagabal venne ribattezzato “Deus Sol Invictus” e onorato anche più di Giove.

In segno di rispetto per l’antica religione di Roma, tuttavia, Elagabalo promosse anche il culto di Dee come Astarte, Minerva e Urania. L’unione tra il Dio Elagabal e una tradizionale Dea romana servì quindi a rafforzare i legami tra la nuova religione e il classico culto Imperiale.

Eliogabalo compì anche un altro atto che sconvolse la cittadinanza romana: decise di sposare la sacerdotessa Vestale Aquilia Severa, sostenendo che il matrimonio con la donna avrebbe prodotto dei figli simili a divinità.

Le sacerdotesse vestali, da sempre, erano vergini e non potevano avere rapporti sessuali di alcun tipo. Il fatto che l’imperatore sposasse e avesse rapporti con una vergine Vestale rappresentava una violazione gravissima della classica religione romana.

Il culto promosso dal nuovo imperatore si tradusse anche nella costruzione di un sontuoso tempio chiamato Elagabalium, che fu eretto sul lato est del colle Palatino: all’interno del tempio, veniva rappresentato il Dio vestito di nero con i simboli tipici della città di Emesa.

Al fine di diventare il sommo sacerdote della sua nuova religione, Eliogabalo decise di farsi circoncidere. E non solo: costrinse i senatori a guardarlo mentre danzava intorno all’altare del nuovo Dio, accompagnato dal suono di tamburi e di cembali. Ogni solstizio d’estate veniva inoltre organizzata una festa dedicata alla nuova divinità, che mano mano divenne sempre più popolare tra le masse, per via della distribuzione di cibo gratuito connessa alla festività.

Durante questa festa, Eliogabalo pose una pietra che rappresentava Elagabal, nota come “Pietra di Emesa”, su un carro adorno di oro e di gioielli, che fece sfilare per tutta la città. Si trattava di un carro trainato da sei cavalli bianchi, riccamente adornati con ogni genere di gioielli. Sul carro non vi era nessuno che tenesse le redini, ma questo veniva spinto di nascosto da uomini ai fianchi delle ruote, cosicché sembrasse che questo venisse sospinto per volere divino.

Eliogabalo sfilava immediatamente dietro al carro, impersonando Elagabal. Tutti i principali simboli della classica religione romana vennero trasferiti per ordine dell’imperatore nel tempio di Elagabalium, incluso il simbolo della grande madre, il fuoco di Vesta, e gli scudi sacri dei sacerdoti Salii, in modo tale che nessun Dio romano potesse essere venerato, se non assieme ad Elagabal.

L’ambigua sessualità di Eliogabalo

L’orientamento sessuale di Eliogabalo è un tema piuttosto confuso, a causa delle innumerevoli fonti inattendibili e di racconti palesemente avversi all’imperatore. Sembra che Eliogabalo, nel corso del suo regno, abbia sposato e divorziato da cinque donne, tre delle quali sono a noi note.

La prima si chiamava Julia Cornelia Paula, mentre la seconda era la già citata Vestale, Giulia Aquilia Severa. Sembra che l’imperatore, appena sposatosi con lei, l’abbia abbandonata per risposarsi con Annia Aurelia Faustina, discendente diretta dell’imperatore Marco Aurelio e vedova di un uomo recentemente fatto giustiziare proprio da lui.

Tuttavia il rapporto non durò a lungo, ed Eliogabalo ritornò ad unirsi alla sua seconda moglie entro la fine dello stesso anno. Secondo lo storico romano Dione Cassio, la relazione più stabile di Eliogabalo sarebbe stata con il suo cocchiere, uno schiavo dai capelli biondi di nome Hierocles, che l’imperatore stesso definiva come “marito“.

La Historia Augusta, afferma anche che Eliogabalo avrebbe sposato un uomo di nome Zotico, un atleta che proveniva dalla città di Smirne, in una cerimonia pubblica che si tenne a Roma. In quella occasione, Eliogabalo si sarebbe dipinto gli occhi e depilato i capelli per indossare una parrucca, non prima di essersi prostituito nelle taverne, nei bordelli e persino nelle sale del palazzo imperiale.

Come racconta lo stesso Dione Cassio: ” Eliogabalo portò i suoi amanti nelle stanze del palazzo imperiale e lì commise le sue indecenze, facendosi trovare sempre nudo sulla porta della stanza, come fanno le meretrici, scuotendo le tende d’oro, mentre con voce dolce e languida sollecitava i passanti ad unirsi sessualmente a lui.

Naturalmente, vi erano uomini che erano stati appositamente istruiti per unirsi all’imperatore.

Come in tante altre cose, Eliogabalo pretendeva che una numerosa serie di schiavi cercassero di soddisfare al meglio la sua lussuria. Raccoglieva il denaro dai suoi clienti e si dava arie di produrre grandi guadagni. Era solito vantarsi di fronte agli altri di guadagnare molti più soldi degli altri prostituti, di avere i maggiori rapporti sessuali e i maggiori incassi.”

Un altro storico, Erodiano, racconta invece di come Eliogabalo fosse solito aumentare la sua già naturale bellezza con l’applicazione regolare di creme e cosmetici. La fonte ci racconta di quanto l’imperatore fosse deliziato dall’idea di essere chiamato “signora, moglie, e Regina di Eracle” e sembra che abbia offerto una ingente quantità di denaro ad un medico per farsi asportare il pene e diventare in tutto e per tutto come una donna.

Alcune fonti antiche, e alcuni storici moderni, identificano in Eliogabalo il primo importante transessuale della storia.

La fine del regno di Eliogabalo

Nel 211 d.C le eccentricità di Eliogabalo, in particolare la sua relazione con Hieracle, avevano pesantemente scontentato la guardia pretoriana, che si vergognava di servire un tale imperatore. Quando la nonna di Eliogabalo, Giulia Mesa, si rese conto che il malcontento stava superando i livelli di guardia, decise, assieme alla madre di Eliogabalo, di contenere il carattere del ragazzo, e nel frattempo di cercare un successore.

La scelta ricadde sul nipote di Avita Mamea, il tredicenne Alessandro Severo. Grazie all’influenza che le donne avevano su Eliogabalo, riuscirono a convincere l’imperatore che suo cugino Alessandro aveva bisogno del suo aiuto e della sua protezione e che sarebbe stata una buona mossa attribuirgli il titolo di Cesare.

Eliogabalo accettò e Alessandro condivise il consolato con lui in quello stesso anno.

Tuttavia, Eliogabalo iniziò rapidamente a sospettare che qualcuno stesse tramando per spodestarlo in favore di Alessandro e il suo comportamento nei confronti del cugino cambiò radicalmente. Decise di rimuovergli tutti i titoli onorifici, revocò il suo consolato e fece circolare la notizia che Alessandro stava per morire, per vedere come avrebbero reagito i pretoriani.

Ne segui una grande sommossa: la guardia dell’imperatore chiese di poter vedere di persona sia Eliogabalo che Alessandro nel campo Pretorio.

La morte di Eliogabalo

Eliogabalo fu costretto ad accettare la richiesta dei pretoriani e l’11 marzo del 222 d.C si presentò assieme alla madre, Giulia Soemia, e al cugino, presso il campo Pretorio. Al loro arrivo, i pretoriani cominciarono ad acclamare Alessandro come nuovo imperatore e ignorarono Eliogabalo.

Infuriato, Eliogabalo ordinò l’arresto e l’esecuzione sommaria di chiunque avesse preso parte a questa dimostrazione di insubordinazione: per tutta risposta, i membri della guardia pretoriana attaccarono Eliogabalo e sua madre.

Eliogabalo tentò di fuggire, ma venne rapidamente catturato e ucciso all’età di 18 anni. Sua madre lo abbracciò e si strinse forte a lui, morendo insieme al figlio. Le loro teste furono mozzate e i loro corpi, dopo essere stati denudati, furono trascinati per tutta la città. Infine, il corpo della madre fu gettato in un luogo non precisato, mentre quello di Eliogabalo venne buttato nel Tevere.

Dopo il suo assassinio, molti compagni e uomini fedeli ad Eliogabalo vennero deposti o uccisi, incluso il suo storico amante Ierocle. I suoi riti religiosi vennero annullati e il culto di Elagabal abolito: la grande pietra che rappresentava il Dio, venne rispedita alla città di Emesa.

Alle donne venne nuovamente vietato di partecipare alle riunioni del Senato, come aveva sempre previsto la tradizione. Inoltre, Eliogabalo, la madre e i suoi principali parenti vennero condannati alla pratica della Damnatio Memoriae.

Tutti i suoi riferimenti vennero appositamente cancellati dai registri pubblici, in modo che nessuno potesse ricordarsi di lui.

L’eredità di Eliogabalo

La figura di Eliogabalo venne pesantemente condannata dalle fonti contemporanee. L’Historia Augusta, addirittura, spiega che la sua biografia non meritava nemmeno di essere tramandata, e anche tutti gli altri commentatori del tempo furono particolarmente avversi al giovane.

La sua figura è sempre stata relegata a quella di un imperatore “di passaggio”, dedito alle stranezze, e la sua memoria sopravvive oggi, soprattutto nella letteratura, dove invece è stato più volte ripreso come simbolo di giovane amorale e lussurioso.

Body cam: ok dal Garante privacy, ma no al riconoscimento facciale

0

Con due distinti pareri [doc. web 9690691 e n. 9690902] il Garante per la privacy ha dato via libera al Ministero dell’interno – Dipartimento della pubblica sicurezza e al Comando generale dell’Arma dei Carabinieri all’uso delle body cam per documentare situazioni critiche di ordine pubblico in occasione di eventi o manifestazioni. Le due Forze di Polizia dovranno comunque recepire alcune indicazioni dell’Autorità relative all’implementazione delle misure di sicurezza e al tracciamento degli accessi ai dati per rendere i trattamenti pienamente conformi alla normativa sulla protezione dei dati personali trattati a fini di prevenzione e accertamento dei reati (Decreto legislativo n. 51/2018).

L’Autorità ha chiesto, in particolare, al Ministero di specificare che il sistema che intende utilizzare non consente l’identificazione univoca o il riconoscimento facciale della persona (facial recognition), come già precisato nella documentazione trasmessa dall’Arma. I due sistemi, sottoposti al Garante autonomamente, presentano notevoli analogie, non solo per quanto riguarda le finalità perseguite, ma anche dal punto di vista strutturale, ad eccezione delle differenze imputabili alle specifiche strutture organizzative delle due Forze di Polizia. Le videocamere indossabili in uso al personale dei reparti mobili incaricato potranno essere attivate solo in presenza di concrete e reali situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico o di fatti di reato. Non è ammessa la registrazione continua delle immagini e tantomeno quella di episodi non critici. I dati raccolti riguardano audio, video e foto delle persone riprese, data, ora della registrazione e coordinate Gps, che una volta scaricati dalle videocamere sono disponibili, con diversi livelli di accessibilità e sicurezza, per le successive attività di accertamento.

I due pareri resi dal Garante sulle due valutazioni di impatto presentate dal Ministero e dall’Arma tengono conto degli approfondimenti effettuati dagli uffici dell’Autorità.

A differenza di quanto sostenuto dal Ministero e dall’Arma, che pur avendo presentato la Dpia non ritenevano necessaria la consultazione preventiva dell’Autorità, il Garante ha affermato che in base al Decreto tale consultazione è dovuta, in quanto i rischi per le persone riprese possono essere anche molto elevati, spaziando dalla discriminazione alla sostituzione d’identità, al pregiudizio per la reputazione, all’ingiusta privazione di diritti e libertà. E l’utilizzo delle body cam nel corso di manifestazioni pubbliche rende estremamente probabile il trattamento di dati che rivelino le opinioni politiche, sindacali, religiose o l’orientamento sessuale dei partecipanti.

Il Garante ha ritenuto tra l’altro ragionevole il periodo di sei mesi di conservazione dei dati e rispettato il principio di privacy by default, essendo prevista la loro cancellazione automatica trascorso tale termine.

L’Autorità infine ha raccomandato alle Amministrazioni di valutare la possibilità di condividere i documenti originali con tutti i soggetti autorizzati da remoto, senza il ricorso alla produzione di copie.

Fonte: Garante per la Privacy

Gaio Mario: vita e biografia del generale romano

Gaio Mario, anche chiamato Caio Mario per via di un errore nella trascrizione delle epigrafi latine, 157 a.C -13 gennaio 86 a.C, è stato un generale, politico e statista nell’antica Roma. Vincitore della guerra contro Giugurta e vittorioso contro l’invasione dei Cimbri e dei Teutoni, ricoprì il ruolo del consolato per sette volte durante la sua carriera.

Fu anche il protagonista della più importante riforma dell’esercito romano di tutti i tempi: grazie al suo intervento, l’esercito divenne un gruppo di soldati professionisti. Fu coinvolto nella guerra civile contro Lucio Cornelio Silla, morendo a poche settimane dalla sua settima elezione a console.

Le origini e i primi incarichi di Gaio Mario

Gaio Mario nacque nel 157 a.C ad Arpino, una piccola città posizionata a 60 miglia a sud-est di Roma, nel Lazio meridionale. I residenti del Municipio di Arpino avevano ottenuto la cittadinanza Romana nel 188 a.C.

Non sappiamo esattamente quanto fosse importante la famiglia di Mario al momento della sua nascita: secondo Plutarco suo padre era di umili origini, e lavorava come operaio o come manovale, ma questo è molto improbabile, dal momento che altre fonti citano dei forti legami con la classe aristocratica di Roma.

Caio Mario, inoltre, iniziò da subito a frequentare le nobildonne aristocratiche del suo Municipio: è quindi molto più probabile che la famiglia di Caio Mario fosse piuttosto di rango equestre, una classe sociale immediatamente inferiore ai Patrizi.

Mario crebbe senza ottenere una particolare educazione: non era molto ferrato in storia, non imparò mai il greco, che era la lingua dei colti, e mantenne sempre una cultura tutto sommato bassa e provinciale. Tuttavia era un vero generale, dotato di uno straordinario carisma sul campo di battaglia: sapeva farsi amare dai soldati e dal popolo con grande facilità.

Caio Mario dimostrò una grande ambizione fin dalla più giovane età e fu notato per la prima volta per le sue capacità di comando mentre prestava servizio durante l’assedio della città spagnola di Numanzia, nel 134 a.C

Secondo Plutarco, durante una cena fu chiesto al generale in comando, Scipione Emiliano, chi sarebbe stato un degno successore: la tradizione racconta che Emiliano si sarebbe avvicinato a Caio Mario, gli avrebbe dato una amichevole pacca sulla spalla e avrebbe detto: “Forse questo è l’uomo giusto”.

L’inizio della carriera politica

Poco dopo aver completato il suo servizio militare a Numanzia, Mario rivolse la propria attenzione alla politica romana. Si candidò subito per diverse importanti magistrature, quella di tribuno militare, che era il primo gradino di qualsiasi carriera politica, e quella di questore, entrambi riconoscimenti ottenuti.

Nel 120 a.C venne eletto tribuno della plebe, dimostrando in maniera palese il suo attaccamento alla fazione dei Populares: proprio in questo periodo, strinse un’alleanza politica con Quinto Cecilio Metello, il rappresentante di una delle famiglie più potenti e influenti di Roma, che contribuì notevolmente a promuovere la popolarità e la carriera di Mario.

Come tribuno della plebe promosse un disegno di legge che limitava la capacità degli aristocratici di influenzare le elezioni. Normalmente, durante il momento del voto, gli aristocratici erano soliti inviare le loro guardie del corpo per minacciare i votanti e influenzare in maniera illegale l’esito delle votazioni.

Mario fece approvare una legge per cui il votante doveva passare attraverso una stretta passerella, scrivere il suo voto su una tavoletta di cera nella più assoluta segretezza e depositarle in un’urna, senza la possibilità di essere influenzato da nessuno.

Nonostante l’opposizione dei due Consoli in quel momento in carica, il disegno di legge fu approvato con grande gioia della cittadinanza. Tuttavia, questa legge incrinò i suoi rapporti con Metello, dal momento che quest’ultimo era rappresentante della classe aristocratica danneggiata dal provvedimento.

Il venir meno dell’appoggio di Metello ebbe delle conseguenze negative per la carriera politica di Caio Mario. Si candidò infatti alla carica di edile, ma non fu eletto. Venne però nominato con successo pretore nel 116 a.C: gli aristocratici lo accusarono immediatamente di aver ottenuto la carica tramite i brogli elettorali, ma sottoposto a processo fu considerato innocente.

La sua attività di pretore non fu particolarmente degna di nota, dal momento che le fonti non ci raccontano nulla di importante.

Tuttavia, nel 114 a.C, Mario venne nominato governatore della Provincia di Hispania Ulterior. Durante l’incarico, Plutarco ci conferma come l’impegno di Caio Mario si concentrò sulla liberazione del territorio da ladri e briganti, con una campagna militare di particolare efficacia.

Proprio in questo periodo, Mario si arricchì notevolmente sia raccogliendo il bottino sottratto ai guerriglieri che mano mano andava vincendo, sia investendo in vantaggiose operazioni minerarie in tutta la provincia. Nei due anni prima di tornare a Roma, la ricchezza di Mario aumentò notevolmente. 

Poco dopo il suo ritorno a Roma, Mario decise di sposarsi con la rampolla di un’importante famiglia patrizia: si trattava di Giulia, la zia di Giulio Cesare.

Il matrimonio aveva una valenza certamente politica: dal momento che le origini di Caio Mario erano particolarmente umili, un’unione di questo tipo lo accreditava notevolmente agli occhi dell’aristocrazia senatoria.

Il consolato e la guerra contro Giugurta

Nel 108 a.C Mario decise che i tempi erano maturi per puntare alla carica del consolato. Mario e Metello avevano migliorato i loro rapporti, ma Metello consigliò a Mario di non affrettare i tempi e di concorrere piuttosto accanto a suo figlio.

Mario decise di proseguire ugualmente con la sua candidatura. La sua scelta fu assolutamente azzeccata: nel 107 fu eletto console per la prima volta, nonostante i pronostici gli fossero avversi.

Il segreto della sua nomina fu probabilmente nella popolarità che godeva presso i militari e nella reputazione di uomo operoso ed integerrimo.

Ben presto fu chiamato nella campagna militare in Numidia contro il Re Giugurta, comandata proprio da Cecilio Metello. Metello scelse di nominare Mario come suo legato nel conflitto, riconoscendo la sua capacità come generale, che ritenne evidentemente più importante dei loro dissapori politici.

Giugurta stava utilizzando efficacemente delle tattiche di guerriglia che Metello non era in grado di contrastare efficacemente.  Mario cominciò a rilasciare una serie di dichiarazioni pubbliche, destinazione il Senato, con lo scopo di far passare Metello come un incompetente, e promettendo che sarebbe stato in grado di porre fine al conflitto più rapidamente se fosse stato messo al comando al suo posto.

Il Senato si convinse facilmente e affidò a Mario il comando delle operazioni, il che non fece altro che inasprire una volta per tutte i rapporti con Metello.

 Nonostante le affermazioni ottimistiche di Mario, in realtà, la campagna contro Giugurta era particolarmente difficile. Divenne presto chiaro che la guerra non sarebbe stata vinta così facilmente come Mario l’aveva dipinta in Senato.

Per questo motivo, il generale fu costretto a reclutare un enorme numero di truppe per contrastare l’avversario, e per la prima volta reclutò degli uomini dalle classi più povere di Roma, addirittura incorporando dei nullatenenti al suo esercito. Si trattava di una grandissima novità, dal momento che l’esercito era sempre stato reclutato per censo.

Fu questa, difatti, la bozza di quella riforma militare che avrebbe portato il suo nome.

La guerra contro Giugurta andò avanti, ma un ruolo determinante fu giocato dall’allora questore Lucio Cornelio Silla. Se Mario riuscì a sconfiggere i soldati di Giugurta sul campo, fu effettivamente Silla a mettersi d’accordo con il Re Bocco di Mauretania, il quale tradì Giugurta e lo consegnò ai Romani.

Mario aveva vinto militarmente, ma era stato Silla a catturare il nemico. Comunque fosse, la guerra giugurtina venne dichiarata conclusa nel 105 a.C.

Per la sua vittoria, Mario ottenne il trionfo. Giugurta fu costretto a sfilare nelle strade di Roma, in catene, come un trofeo. Mario venne onorato come un vero eroe, ma nel suo privato era fortemente amareggiato dal fatto che fosse stato Silla ad aver ottenuto la cattura di Giugurta e non lui.

Le capacità di Silla, sia come generale che come diplomatico, non erano passate inosservate, e Mario iniziò a nutrire nei confronti del collega una sincera antipatia.

La riforma dell’esercito di Gaio Mario

Durante il mandato come console del 107 a.C, Caio Mario apportò importanti cambiamenti all’esercito di Roma, che avrebbero avuto un impatto decisamente duraturo. A causa dell’imminente minaccia che si stagliava sulla frontiera settentrionale, Mario fu costretto a rafforzare ed aumentare il numero dei soldati presenti nell’esercito.

Per fare questo, Mario allentò notevolmente i requisiti necessari per arruolarsi. Da questo momento, chiunque, indipendentemente dalla sua ricchezza, dalla classe sociale e della importanza politica, aveva la possibilità di arruolarsi come soldato professionista.

Le riforme di Mario fecero sì che moltissimi disperati e nullatenenti dedicassero la loro vita all’esercito, vedendo la carriera militare come un’opportunità per affrancarsi da una vita di disagio. La promessa di un bottino e della paga erano particolarmente apprezzabili per dei nullatenenti che non avevano più futuro.

Mario aveva così aumentato con successo le dimensioni dell’esercito, e la sensazione era che il contingente di legionari che aveva organizzato, sarebbe stato in grado di vincere qualunque nemico. 

La lotta contro i Cimbri e i Teutoni

Mario fu eletto console per la seconda volta nel 104 a.C. violando palesemente una legge che imponeva uno spazio di 10 anni tra una nomina a console e l’altra.

È probabile che Mario sia stato in grado di aggirare queste leggi a causa dell’ imminente invasione delle tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni, che avevano recentemente creato una confederazione ed erano stati in grado di sconfiggere una serie di eserciti romani, in particolare quelli sotto il comando di Giunio Silano e Cassio Longino, nel 105 a.C.

Roma necessitava di un generale forte e capace e Mario era il candidato perfetto.

La guerra contro Cimbri e Teutoni si trascinò per alcuni anni, e Mario fu eletto ripetutamente console per rinnovare il suo comando militare. Finalmente Mario riuscì a sconfiggere i Teutoni nella battaglia di Aquae Sextiae, nel 102 a.C e i Cimbri nel 101 a.C, a Vercelli.

Durante questa guerra, 350.000 barbari persero la vita e altri 150.000 vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi nei mercati di Roma. Questa vittoria consolidò definitivamente la figura di Mario come leggendaria. Gli venne tributato un nuovo trionfo e fu eletto console ancora nell’anno 100 a.C.

Mario aveva decisamente raggiunto l’apice della sua carriera militare e politica.  Anche se nelle sue memorie Mario si prendeva tutto il merito di aver vinto le tribù barbariche, gli scritti di Silla suggeriscono che quest’ultimo potrebbe aver avuto un ruolo cruciale nella vittoria di Roma.

Questo inasprì ulteriormente i rapporti tra Mario e Silla, ma ufficialmente fu Mario ad ottenere un altro trionfo per le sue straordinarie azioni.

Il sesto consolato di Gaio Mario

Nel 100 a.C, Mario stava ricoprendo il suo sesto consolato e iniziò a sostenere delle riforme proposte dal suo alleato politico Saturnino, che fungeva da tribuno della plebe.

Il costo di molti tipi di alimenti furono abbassati e venne decisa una ingente redistribuzione di terre tra i suoi soldati veterani. Il disegno di legge venne approvato attraverso alcune attività illegali, ma Mario aveva l’assoluta necessità di accontentare i suoi uomini.

In realtà Mario aveva pesantemente corrotto alcuni senatori, e Metello, ormai nemico giurato, si oppose al disegno di legge. Metello utilizzò tutti i suoi importanti poteri politici per bloccare Mario in ogni occasione prima di lasciare Roma per raggiungere la Grecia.

Mario, con l’aiuto di alcuni alleati, iniziò allora ad utilizzare lo strumento dell’esilio per colpire i suoi avversari politici. Tuttavia, alcuni stavano iniziando a dubitare della buona fede di Mario, e la sequenza dei consolati, l’uno dopo l’altro, come mai nessuno prima di lui, stava cominciando a preoccupare i senatori.

Dopo che uno dei nemici di Mario venne assassinato durante la sua candidatura alle elezioni, scoppiarono diversi disordini in tutta Roma. Il Senato ordinò a Mario di porre fine allo spargimento di sangue.

Mario tuttavia, ebbe un comportamento piuttosto bieco: si dedicò a proteggere soprattutto i suoi alleati, tra cui Saturnino, senza preoccuparsi dell’ordine pubblico.

La situazione precipitò: la folla assaltò l’edificio del Senato in un momento di isteria generale. I rivoltosi non riuscirono a sfondare le porte, ma scalarono i muri e salirono sul tetto. Strapparono le tegole una ad una fino a quando non riuscirono a lanciare sassi e proiettili contro i senatori. Mario riuscì a sedare la rivolta, ma la sua reputazione era stata offuscata dalla sua partigianeria, e della sua poca equità in una situazione di crisi politica.

Dopo la fine del suo sesto consolato, Mario si recò in Oriente per convincere il Re Mitridate VI del Ponto a desistere dalla sua intenzione di muovere guerra contro Roma.  Nel frattempo, Mario, nonostante si trovasse in Oriente, fu eletto nel collegio degli auguri sacerdotali nel 98 a.C, ma rifiutò di candidarsi alla carica di censore l’anno successivo, per non alimentare dei sospetti.

Gaio Mario durante la guerra sociale

Mentre Mario si trovava in Oriente, Roma conobbe una relativa pace, ma questa non sarebbe durata a lungo.

Da anni si era infatti verificata una situazione di grande tensione sociale: il Senato non voleva includere gli alleati italici nella classe dirigente, e questi, che invece fornivano regolarmente soldi e soldati per le cause di Roma, pretendevano di avere una maggiore rappresentanza politica.

Nel 95 a.C, il Senato emanò la legge Licinia Mucia, che stabiliva che tutti i non cittadini dovevano lasciare Roma.

Come risposta un tribuno della plebe, Marco Livio Druso, propose di concedere la cittadinanza a tutti gli uomini, eccetto gli schiavi, che risiedevano in Italia. La sua idea aveva come scopo quella di rappresentare al meglio gli alleati italici, che avevano pesantemente aiutato Roma ma che non erano adeguatamente rappresentati nelle tribù elettorali.

Per tutta risposta, Druso venne assassinato: un’azione nefasta che scatenò rivolte e ribellioni in tutta la penisola italica, che si era ufficialmente ribellata al potere di Roma.

Nota come guerra sociale, questo conflitto sarebbe durato dal 91 all’ 88 a.C: Mario vide in questa guerra l’opportunità di ottenere delle nuove vittorie e di guidare le forze di Roma contro le città ribelli.

Durante la guerra sociale Mario servì come console sotto Publio Rutilio Lupo, ma quest’ultimo morì nella fase iniziale della guerra e Mario, rimasto il principale generale per la causa dei romani, ottenne molte vittorie, soprattutto nel nord Italia.

Il coinvolgimento di Caio Mario, tuttavia, non durò a lungo, dal momento che già nel 89 a.C fu costretto a ritirarsi per problemi di salute. Alcune fonti parlano di un ictus, mentre altre attribuiscono il suo ritiro ai nemici politici, che non volevano concedere al generale ulteriore potere militare.

La marcia di Silla su Roma

E’ evidente che nel corso della guerra sociale fu Cornelio Silla ad avere la meglio. Fu il generale con il maggior numero di vittorie, a scapito di Mario, la cui figura di comandante uscì decisamente appannata. La guerra sociale terminò con la sostanziale vittoria della causa degli italici, che gradualmente vennero accettati nelle tribune elettorali.

Ma la fine della guerra sociale non portò ad una pace duratura.

Il Re Mitridate VI del Ponto attaccò nuovamente le province orientali di Roma nel 88 a.C, e Mario, dopo essersi ripreso dalla sua malattia, si propose come generale per guidare gli eserciti di Roma contro il nemico. Ma nello stesso anno in cui Mitridate avviò le operazioni di guerra, venne eletto come console Silla.

Mario organizzò una cordata di Senatori, che orientò le elezioni e consegnò a lui il comando delle operazioni.

Silla era furioso per il tradimento del Senato: la campagna, affidata a Mario, avrebbe probabilmente significato il suo tramonto politico. Per questo motivo, Silla prese con sé sei legioni e gli chiese di giurare fedeltà a lui, in prima persona, piuttosto che al Senato, promettendo gli dei ricchi bottini.

L’operazione andò in porto e Silla mosse con il suo esercito direttamente contro Roma, un’azione del tutto illegale e pericolosa. Silla fu di fatto il primo romano a guidare un esercito in armi contro la città di Roma, varcando il confine sacro del pomerium, e operando un’azione che sconvolse la cittadinanza.

Mario cercò di organizzare in fretta e furia un esercito di fortuna, reclutando anche schiavi e gladiatori, ma la sua forza militare non era minimamente all’altezza di quella addestrata ed equipaggiata dei soldati professionisti di Silla.

I soldati professionisti che erano stati creati da Caio Mario, gli si stavano ribellando.

Mario fu costretto a fuggire in esilio. Silla, che deteneva ormai il controllo di Roma, eseguì alcune operazioni di ordine cittadino, indisse delle nuove elezioni e partì per l’Oriente, per condurre la campagna contro Mitridate.

L’esilio di Mario e il ritorno a Roma

Mario trovò rifugio nella città di Cartagine, in nord Africa, dove venne raggiunto dal figlio, Mario il Giovane. Mario fu dichiarato fuorilegge dai suoi nemici politici, e su di lui venne addirittura istituita una taglia.

Non molto tempo dopo il suo esilio, mentre Silla era impegnato nella campagna contro Mitridate, a Roma scoppiò una guerra civile tra le due principali fazioni politiche: i sostenitori di Silla, guidati dal console Ottavio, iniziarono a combattere contro i partigiani del collega di consolato, Cinna, che era sostenitore di Mario.

Per Mario si trattava dell’unica occasione di ritornare a Roma assieme a suo figlio. Sbarcò in Etruria, e radunò delle forze militari pronte a unirsi a quelle di Cinna per riconquistare la città. Mario e Cinna riuscirono a scacciare i legionari di Silla da Roma, e ad eseguire una lunga serie di uccisioni ed epurazioni, tra cui perse la vita Ottavio.

Roma apparteneva ora alla fazione Mariana e Mario potè riorganizzare la città sulla piacimento. Mario esiliò ufficialmente Silla e lo rimosse dal comando della guerra mitridatica.

Nel 86 a.C, fu nominato console per la settima volta, assieme al collega Cinna, di fronte ad un Senato completamente intimorito ed impotente.

La morte di Mario e la sua eredità

Plutarco racconta che nell’ultima fase della sua vita, Mario era diventato paranoico, irritabile e sospettoso di tutti, e non esitava a giustiziare qualsiasi persona su cui gravasse anche solo un minimo sospetto. Sembra che Mario nutrisse odio persino nei confronti di suo nonno, Marco Antonio, e contro Publio Licinio Crasso, il padre di Marco Licinio Crasso.

Erano ormai lontani i tempi in cui Mario era il beniamino dei romani: ora si trattava di una figura temuta dal popolo. La salute di Mario iniziò a peggiorare gravemente, e spesso Mario delirava, raccontando dei suoi trionfi passati.

A poco meno di due settimane dall’inizio del suo settimo consolato, Mario morì, il 13 gennaio dell’ 86 a.C. Suo figlio Mario il giovane e il collega Cinna continuarono la lotta contro Silla, che dal suo esilio tramava vendetta contro l’avversario politico. 

La vittoria della guerra civile, andrà infine a Silla, che detenendo il potere completo, darà luogo ad una delle più grandi riforme dello stato romano.

L’eredità di Caio Mario è importante: oltre ad aver vinto sulle tribù dei Cimbri e dei Teutoni, e aver di fatto salvato la repubblica romana, Caio Mario viene ricordato come un brillante stratega militare e comandante, amato dai soldati e dal popolo. 

Sarà per sempre uno dei leader più importanti della fazione dei Populares, anche se, durante la vecchiaia, si macchiò di diversi errori e si lasciò andare ad una serie di violenze che offuscarono, a volte in maniera irrimediabile, le sue grandi vittorie.

La battaglia di Zela, 47 a.C: Veni, Vidi, Vici

La battaglia di Zela è uno scontro che si è tenuto fra l’esercito di Giulio Cesare e quello di Farnace II, re del Ponto, nel 47 a.C. La vittoria dei romani fu totale, e passò alla storia per la straordinaria velocità con cui i legionari sconfissero il nemico e per la frase con cui Cesare diede l’annuncio in Senato: “Veni, vidi, vici”,  “Sono arrivato, ho visto, ho vinto “.

I movimenti di Cesare nel Mediterraneo

Lo scontro decisivo della guerra civile fra Cesare e Pompeo si tenne nella piana di Farsalo, in Tessaglia, Grecia.

Cesare, con una straordinaria soluzione tattica, riuscì a battere definitivamente il suo avversario, così Pompeo, che aveva visto il suo esercito scomporsi completamente, decise di fuggire verso l’Egitto, dove riteneva di poter ottenere asilo politico.

La sua scelta si rivelò completamente sbagliata: l’allora faraone, Tolomeo, scelse di ucciderlo a tradimento, immaginando di fare un favore al vittorioso Cesare, il quale, arrivato anche lui in Egitto e scoperta la testa mozzata di Pompeo, pianse lacrime amare. Nonostante Pompeo fosse stato il suo avversario, Cesare aveva molto rispetto di lui, anche per il legame che aveva avuto con sua figlia, di cui era stato il marito.

Cesare, nonostante la situazione nel Mediterraneo fosse ancora incerta, prolungò in maniera del tutto inaspettata Il suo soggiorno in Egitto. Fu esattamente in quel periodo che fece la conoscenza della regina Cleopatra: fra i due si stabilì un rapporto sia sentimentale che politico.

Cleopatra poteva sfruttare il potere di Cesare per superare la contesa dinastica a scapito del fratello Tolomeo, e Cesare avrebbe potuto utilizzare la regina per mantenere il controllo su un territorio strategicamente importante.

Del resto, l’intromissione di Cesare nella politica egizia gli si ritorse contro: gli avversari di Cleopatra sobillarono il popolo e l’esercito contro il generale romano, che rimase assediato nel palazzo reale, rischiando seriamente la vita.

Aiutato da unità di rinforzo, Cesare riuscì a capovolgere la situazione e ad uscire da quella condizione. Ma di lì a poco, si stagliò di fronte un’altra sfida militare: quella di Farnace II, Re del Ponto.

Il pericolo di Farnace II

Uno dei più strenui avversari di Roma era stato il re Mitridate VI, Re del Ponto, zona nordorientale dell’Asia Minore, attuale Turchia. Suo figlio, Farnace II, aveva progettato di recuperare tutte le terre che erano state strappate al padre, in particolar modo da Pompeo.

Così aveva reclutato un ingente esercito con il quale aveva invaso le province romane di Cappadocia e di Armenia, due territori strategicamente importanti. Il primo generale romano che cercò di contenere la furia di Farnace, Lucio Domizio, lo affrontò con il suo esercito nel dicembre del 48 a.C presso la città di Nicopolis.

Per i romani fu una disfatta. L’esercito di Farnace, più numeroso e organizzato, mise in fuga i legionari Romani. Notevolmente incoraggiato da questa prima vittoria, Farnace conquistò delle altre regioni del Ponto, oltre ad assediare ed espugnare la città di Amiso, che venne condannata al saccheggio e all’assassinio di quasi tutti i suoi abitanti.

Non solo: Farnace stava anche portando dalla sua parte una vasta serie di Re, principi locali e governanti, ingrossando notevolmente il suo esercito e costituendo un pericolo sempre maggiore per la stabilità dei territori orientali di Roma.

L’avvicinamento di Cesare a Farnace

Quando Cesare venne a sapere che il pericolo di Farnace stava diventando estremamente concreto, decise di muovere immediatamente contro il nemico. Il suo soggiorno in Egitto si era prolungato già troppo, ed era tempo di rimettersi in viaggio per avviare le operazioni in Oriente.

Cesare marciò con il suo esercito attraverso il territorio dell’Armenia, con una rapidità impressionante. Come era già accaduto durante la conquista della Gallia, la sola velocità dei legionari romani, preoccupò gravemente Farnace, che inviò immediatamente degli ambasciatori.

I messaggeri di Farnace informarono Cesare che il loro sovrano non aveva mai aiutato il suo nemico politico, Pompeo, e che non avevano intenzione di venire alle armi con i romani. Anzi, vennero proposte delle condizioni di pace.

In realtà, secondo il racconto di Dione Cassio, questi messaggi concilianti nascondevano una strategia ben più subdola. Farnace desiderava semplicemente aspettare che Cesare fosse costretto a rientrare in Italia con il suo esercito, per poi riprendere la conquista indisturbato.

Cesare sembrò capire perfettamente il piano di Farnace, ed elaborò una contromossa: fece finta di ricevere la prima e la seconda ambasceria con tutti gli onori, facendo credere di essere caduto nel tranello di Farnace e trattando con calcolata benevolenza la tregua fra i due. Nel frattempo però, il suo esercito si avvicinava continuamente, arrivando a braccare l’avversario.

Quando si trovò a ridosso del nemico, Cesare accolse la terza ambasceria con un tono completamente diverso: Cesare attribuì a Farnace un comportamento del tutto inaccettabile, e disse che al contrario, egli avrebbe dovuto appoggiare Pompeo, che gli era stato un benefattore.

Fu Cesare a non dare alcuna possibilità a Farnace di negoziare la pace. Nello stesso giorno in cui legionari romani arrivarono presso la città di Zela, oggi Zila, in Turchia orientale, iniziò il combattimento.

La battaglia di Zela: andamento

La battaglia di Zela si svolse nel 47 a.C.  Farnace, che era stato evidentemente costretto alla battaglia, si posizionò su una collina, in una posizione sicura, con tutto il suo esercito. Cesare fece altrettanto, accampandosi su una collina lì vicino, e dando i primi ordini ai suoi uomini.

La situazione cambiò improvvisamente quando Farnace diede ordine alla sua cavalleria e ai suoi temibili carri falcati, di scendere dalla propria collina, e attaccare quella su cui si trovavano i legionari. Si trattava di una mossa inaspettata, in quanto normalmente un esercito non abbandona una posizione sicura e sopraelevata per marciare contro il nemico in salita.

In questa prima fase della battaglia i legionari furono colti di sorpresa: fu in questo momento che i soldati di Cesare subirono le maggiori perdite.  Ma di lì a poco, entrò in gioco la proverbiale capacità di Cesare di gestire le situazioni di emergenza e ribaltarle a proprio favore. Cesare riuscì a riorganizzare rapidamente il suo esercito, disponendolo in una sola linea compatta.

Aveva a disposizione quattro legioni: al centro vennero posizionate la legione pontica, soldati prelevati direttamente sul luogo e la XXII Deiotariana, una legione di origine Gallica, su cui Cesare faceva molto affidamento. Sull’ala sinistra la XXXVI legione, mentre sulla destra venne schierata la VI Ferrata.

I legionari romani, opportunamente disposti, riuscirono a respingere l’attacco dei soldati di Farnace, i quali si trovavano a questo punto stretti tra la valle e la loro stessa collina. Gli avversari iniziarono dapprima a vacillare, e poi iniziarono a fuggire in maniera scomposta.

La battaglia si trasformò in un autentico massacro: le fonti antiche parlano di 50.000 morti, una cifra forse esagerata, ma che rende bene l’idea di quanto l’esercito di Farnace fu completamente annientato. In poco meno di 5 ore di battaglia, Cesare aveva totalmente neutralizzato il pericolo.

La vittoria e la frase “Veni, Vidi, Vici”

Subito dopo aver ottenuto la vittoria, Cesare pensò di erigere un trofeo. In realtà, proprio in quella zona, era già stato eretto un trofeo simile da Mitridate VI, che aveva sconfitto qualche anno prima il generale romano Onofrio Triario.

Cesare non si permise di abbattere il trofeo dell’avversario, perchè questo era stato consacrato agli Dei della guerra, e il generale romano non voleva compiere un atto sacrilego. Pensò piuttosto di costruire, proprio a fianco di quello eretto da Mitridate, un altro trofeo ben più grande dell’avversario.

Cesare si occupò in seguito di restituire le terre che erano state strappate dai soldati di Farnace ai rispettivi proprietari. Iinfine raggiunse la città di Zela dove Compose un messaggio per infornare il Senato della vittoria. Fu esattamente in quella occasione che Cesare scelse di utilizzare una frase che sarebbe entrata nella storia romana: “Veni, Vidi, Vici”.

Il messaggio venne recapitato a Roma, al suo amico Marzio, che ne diede lettura in Senato. Si trattò di una notizia che sconvolse i senatori e gli aristocratici. Normalmente accadeva che giungesse prima la notizia dell’inizio di una guerra e poi quella del suo esito.

Nel caso di Cesare, la notizia della guerra e della vittoria giunsero contemporaneamente, con la più totale emozione del popolo romano.

Cesare, con fine calcolo politico, si preoccupò anche che tutti i cittadini sapessero di quanto era avvenuto: la sua frase venne incisa su alcune tavole di legno ed esposte durante il trionfo che si sarebbe tenuto di lì a pochi mesi.

A celebrare infine la velocissima vittoria di cui era stato capace, rimane un altro segno tangibile: un cilindro di marmo con impresso il suo “Veni, Vidi, Vici” , che fino a poco tempo era posizionato proprio nella città di Zila, nella Turchia orientale, il luogo che corrisponde allo scontro.

Secondo alcune informazioni, al momento non completamente verificate, il cilindro sarebbe tuttavia stato rubato. Ne rimane solamente un’immagine, scattata da fotografi amatoriali.

Yoshihide Suga, primo ministro giapponese rinuncia alla rielezione

0

Meno di un anno dopo essere diventato primo ministro del Giappone, Yoshihide Suga ha dichiarato che non avrebbe cercato la rielezione a capo del partito di governo, aprendo la strada a un nuovo leader dopo il suo mandato storicamente impopolare.

Suga, 72 anni, ha assunto la carica di primo ministro dopo che Shinzo Abe, il primo ministro più longevo del Giappone, si è dimesso lo scorso agosto a causa di problemi di salute. Suga, figlio di un coltivatore di fragole e di una insegnante del nord rurale del paese, era stato sempre una delle seconde file del partito e ha lavroato dietro le quinte e spesso sembrava a disagio come leader di fronte al pubblico.

La sua dimissione anticipata minaccia di riportare il Giappone, nel bel mezzo della sua peggiore ondata di coronavirus, all’instabilità della leadership che ha segnato il periodo dei quasi otto anni consecutivi al potere di Abe. Durante quel periodo, il paese ha sfornato sei primi ministri in sei anni, incluso lo stesso Abe.

In una conferenza stampa convocata in fretta e furia, Suga ha affermato di voler concentrarsi sulla gestione della pandemia piuttosto che sulla campagna di rielezione. Con il concorso per la leadership del partito programmato per il 17 settembre, ha detto: “Mi sono reso conto che ho bisogno di un’enorme energia” e “Non posso fare entrambe le cose. Devo sceglierne uno“.

Nei giorni precedenti l’annuncio Suga sembrava di voler salvare la sua leadership, che era stata perseguitata dal crollo dei voti tra l’insoddisfazione pubblica per la gestione della pandemia e delle Olimpiadi da parte della sua amministrazione .

Quando un rivale, l’ex ministro degli Esteri Fumio Kishida, ha annunciato il mese scorso che si sarebbe candidato alla guida del Partito Liberal Democratico al governo, sono circolate voci secondo cui Suga avrebbe potuto sciogliere il Parlamento in anticipo e indire elezioni generali in un ultimo disperato tentativo di mantenere la sua posizione.

Alcuni ipotizzavano che avrebbe rimescolato il suo governo e altre posizioni di leadership all’interno del partito. Ma alla fine, con i casi di coronavirus che hanno raggiunto livelli record e gli ospedali che non hanno posto per i pazienti nel mezzo di un traballante campagna di vaccinazione, a quanto pare ha deciso di lasciare.

La corsa per sostituire Suga con il voto del 29 settembre per il leader dei liberaldemocratici appare relativamente aperta.

Kishida, l’ex ministro degli esteri, è per ora l’unico candidato dichiarato questa settimana, anche se un ex ministro delle comunicazioni, Sanae Takaichi – che era uno dei pochi membri donne del gabinetto di Abe – ha espresso interesse. Poche ore dopo che Suga ha fatto il suo annuncio, Taro Kono, liberale, ex ministro degli Esteri e della Difesa e più recentemente alla guida della campagna vaccini, ha detto che si stava consultando con gli alleati sull’opportunità di candidarsi.

Il vincitore della corsa alla leadership del partito molto probabilmente sarà designato primo ministro dal Parlamento e quindi condurrà il partito alle elezioni generali che devono tenersi entro la fine del mese prossimo. I liberaldemocratici hanno tenuto il potere in Giappone per quasi tutto l’intero dopoguerra e l’opposizione è stata allo sbando negli ultimi dieci anni, dopo essere stata accusata di una risposta mal gestita al disastro nucleare di Fukushima.

I liberaldemocratici, sebbene favoriti in modo schiacciante per mantenere il potere, potrebbero ancora cercare un vantaggio strategico installando un nuovo primo ministro nelle settimane prima delle elezioni generali.

L’opposizione “avrà difficoltà a correre contro qualcuno che forse si sta godendo una luna di miele e sembra un cambiamento nuovo, fresco e promettente che fa sentire le persone un po’ più ottimiste”, ha affermato Tobias Harris, un membro anziano del Center for American Progress a Washington. e specialista in politica giapponese.

Numa Pompilio e la Ninfa Egeria: l’amore tra un Re e una divinità

La storia di Numa Pompilio e della Ninfa Egeria affonda le radici nella tradizione più antica di Roma. Numa Pompilio, secondo Re di Roma, fu il sovrano, secondo la tradizione, che pose le fondamenta della religione Romana, e che creò i principali culti che avrebbero caratterizzato il popolo romano. 

La Ninfa Egeria, che si dice abitasse sulle sponde del fiume Almone e della Valle del Tevere, sarebbe diventata la seconda moglie e la più amata consigliera di Numa Pompilio, Il loro rapporto sarebbe stato dominato da una grandissima saggezza e pietà religiosa, sino alla morte di Numa, che gettò la Ninfa nella più profonda disperazione.

Numa Pompilio parla con la ninfa Egeria riproduzione su Carta Amalfi

Numa Pompilio Egeria cornice

Numa Pompilio, il più religioso dei Re di Roma

Dopo la fondazione di Roma da parte di Romolo e la creazione delle principali istituzioni per il funzionamento della nuova città, il popolo romano aveva di fronte molte sfide. Uno dei problemi principali era che la popolazione della neonata Roma era particolarmente dedita alla guerra, estremamente bellicosa, e rischiava di non ottenere l’appoggio delle divinità: era necessario un grande sovrano, in grado di contenere lo spirito bellico romano e di stabilire un rapporto stretto ed efficace con gli Dèi.

Numa Pompilio, il secondo Re di Roma, ottemperò perfettamente a questo compito: a lui si deve la fondazione dei principali culti dei romani e l’introduzione di un nuovo calendario di 12 mesi, che inizia proprio con gennaio, dedicato al Dio Giano. Sempre da attribuirsi a Numa sarebbe l’istituzione dei culti, tra cui quello delle Vergini Vestali e tanti altri simboli religiosi che caratterizzeranno tutta la storia di Roma.

Durante il regno di Numa, caso unico, Roma non fu coinvolta in alcuna guerra, ma si concentrò in maniera diligente a crescere nel rispetto del volere degli Dèi.

L’incontro tra Numa e la Ninfa Egeria

Le fonti antiche ci tramandano l’abitudine di Numa Pompilio di passeggiare da solo per i boschi che circondavano la capitale, sempre intento a decifrare il volere delle divinità e a concepire le riforme necessarie per il suo popolo. Proprio quei luoghi sarebbero stati abitati dalla Ninfa Egeria.

Qui, Egeria si dedicava, assieme alle sue sorelle Carmenta, Antevorta e Postvorta, a rilasciare profezie attraverso canti meravigliosi, oltre a custodire i boschi, le sorgenti di acqua, proteggere il focolare domestico e le donne vicine al parto. Divinità già adorate dai primi italici, le Ninfe erano delle creature misteriose e affascinanti.

Proprio nei boschi sulle sponde del fiume Almone, e nella Valle del Tevere, si sarebbe svolto l’incontro tra il Re Numa Pompilio ed Egeria.

Egeria sarebbe stata attratta dallo spirito profondamente religioso e saggio di Numa, e sarebbe diventata prima la sua consigliera, per suggerirgli le riforme più importanti, e poi la sua sposa. Profondamente innamorata delle doti di Numa Pompilio, Egeria rappresenta un contatto tra gli uomini e gli Dèi, tipico della tradizione romana monarchica.

Egeria, piena di amore per suo marito, lo avrebbe non solo consigliato, ma sarebbe arrivata addirittura a condividere con lo sposo i profondi segreti appartenenti al mondo degli spiriti, svelandogli delle rivelazioni che non avrebbe fatto a nessun altro. Numa avrebbe trascritto gli insegnamenti tramandati dalla sua sposa su alcune tavole, che non sono mai state ritrovate, e che appartengono alla leggenda.

Il rapporto tra Numa e la Ninfa Egeria proseguì sereno fino alla morte di lui, avvenuta a 80 anni, dopo un regno di religione e di pace che non conobbe eguali nella storia romana. 

Egeria avrebbe vagato disperata per i boschi, dove era solita passeggiare assieme al suo sposo, distrutta dal dolore. Secondo la tradizione, la Ninfa si sarebbe sciolta in lacrime, dando vita alla fonte che ancora oggi porta il suo nome.

Quei luoghi così pieni di significato sono ancora oggi esistenti e visitabili: è possibile infatti percorrere il bosco sacro che si trova a Roma, al parco della Caffarella, situato vicino all’ingresso Appia Pignatelli. Vi sono tanti sentieri, molto simili a quelli che, secondo la tradizione, Numa Pompilio ed Egeria avrebbero percorso insieme.