A cura di Teresa Logozzo
Un piccolo regno, il Ponto, affacciato sul Mar Nero, nel I secolo a.C. tenta l’espansione ai danni dei regni vicinì, arrivando a scontrarsi con la grande potenza della Repubblica di Roma.
Davide contro Golia potremmo dire ma con esiti molto più diversi. Il sovrano, un tale Mitridate VI, il Grande, inizia una aggressiva politica di conquista, arrivando ad annettere anche la provincia romana dell’Asia, non mancando di stringere alleanze con i paesi vicin, tra cui l’Armenia del re Tigrane, divenuto suo prezioso alleato (gli diede, tra l’altro, la propria figlia).
I rapporti tra Roma e il Ponto: i primi scontri
I rapporti tra il Ponto e la Repubblica sono stati sempre tesi e Mitridate lo sa bene, ma questo non lo ferma dal conquistare gli stati vicini entrando ben presto in conflitto con Roma, I decenni successivi, iniziando dall’anno 89 a.c., saranno conosciuti come guerre mitridatiche con alterne e favorevoli vicende per i due contendenti contrapposti.
In poco tempo Mitridate conquista il regno della Bitinia e gran parte dell’Asia (corrispondenti alla parte settentrionale e occidentale dell’odierna Turchia), decidendo di massacrare tutti coloro, romani o non, che parlano una lingua italica.
In Oriente arriva Lucio Cornelio Silla e Mitridate deve piegarsi alle sue legioni, arrivando a un accordo con il ritiro del re del Ponto dalle regioni conquistate ma al riconoscimento di “amico di Roma”. Finisce così la prima guerra mitridatica.
Tra l’ 83 e l’81 a.c. si riaprono le ostilità con il rappresentante di Roma Lucio Licinio Murena, più per ambizione personale che per necessità tattiche o strategiche.
Murena entra in Cappadocia e i primi scontri sono a suo favore.
Mitridate ricorda al legato romano il trattato concluso con Pompeo, ma questi in dispregio fa svernare il suo esercito in Cappadocia, non ritirandosi. Murena non vuole neanche ascoltare l’inviato del Senato che lo intima a non molestare il re del Ponto.
Nell’indifferenza più assoluta Murena invade i territori di Mitriadate, costringendolo a riaprire le ostilità, convinto quest’ultimo che a rompere il trattato di pace sia stato lo stesso Senato di Roma.
Questa volta ad avere la meglio è il re del Ponto che riesce a cacciare i Romani dalla Cappadocia. Silla, credendo che non era corretto muovere guerra contro Mitridate, ritenendo di dare valore al trattato, invia un nuovo ambasciatore a Murena per farlo desistere dal riprendere gli scontri. Si conclude così la seconda guerra mitridatica.
Il sovrano del Ponto si sente potente, nella convinzione che i Romani non siano invincibili, nella speranza di poter costituire un vasto regno asiatico in grado di contrastare le pretese romane in quella regione e in generale nel Mediterraneo. Inizia, in tal modo, una nuova politica di espansione, portando i due contendenti alla terza guerra mitridatica, tra il 74 e il 63 a.C., conclusasi con la sconfitta e morte del re del Ponto.
E nel mentre Mitridate allarga i suoi confini e la sua influenza, Quinto Sertorio, governatore della Hiberia (Spagna), decide di staccarsi da Roma e forma un proprio governo con tanto di Senato.
Due suoi membri propongono un’alleanza al regno del Ponto. Mitridate valuta favorevolmente la proposta, in quanto lui da Oriente e Sertorio da Occidente, possono impegnare le legioni romane e il Senato romano su due fronti.
E in Oriente arriva il nuovo console Lucio Licinio Lucullo con una legione che si va a sommare alle quattro già presenti. Destinato a essere governatore della Gallia Cisalpina, la sua smania di gloria e ambizione lo portano a oliare gli ingranaggi giusti (corteggiando l’amante di un influente personaggio politico, di quelli che contano a Roma), riuscendo a farsi dare il governo della Cilicia, regione che di per sè non ha alcuna importanza per lui, ma sarebbe stata il trampolino ideale per ottenere il comando delle operazioni militari in Oriente
Verso lo scontro a Tigranocerta
Nel 74 a.c. Mitridate marcia contro la Paflagonia, per poi conquistare la Bitinia, divenuta da poco provincia romana, subendo già nell’anno successivo le prime sconfitte a opera di Lucullo che, lasciandosi dietro la Bitinia e la Galizia, sottomette nuovamente i territori romani sottratti da Mitridate.
Dopo tutta una serie successi, nel finire dell’anno 70 a.C. Lucullo riorganizza le province romane asiatiche e amministrare la giustizia, risollevando le popolazioni locali dalla pressione fiscale e dagli usurai che le hanno portate quasi alla schiavitù, La sua buona amministrazione finisce per condizionare anche le province vicine che chiedono di essere da lui amministrate e governate.
Dopo un tentativo infruttuoso di Lucullo di farsi consegnare dal re Tigrane d’Armenia, il suocero Mitridate, è inevitabile la ripresa delle ostilità. Mitridate e Tigrane decidono di invadere nuovamente la Cilicia fino all’Asia prima che ci sia una formale dichiarazione di guerra
Dopo aver offerto i dovuti sacrifici il governatore romano si dirige, secondo Appiano, con due legioni e 500 cavalieri contro Tigrane (si tratta invece di 12.000 fanti e poco meno di 3.000 cavalieri secondo Plutarco.
Lucullo attraversa l’ Eufrate e chiede ad alcuni sovrani del posto di fornirgli gli adeguati approvvigionamenti, se non vogliono essere attaccati o essere considerati nemici di Roma al pari del re d’Armenia. Terrorizzati dall’avanzata romana fino ai confini dell’ Armenia, nessuno dice a Tigrane dell’invasione in corso, anche perché sembra che il primo ad annunciarglielo, viene messo a morte.
Quando il re armeno è informato, decide di inviare contro un notevole contingente di fanteria e cavalleria e contemporaneamente rafforza le difese della sua capitale, Tigranocerta.
La città ha mura alte fino a 25 metri e larghe abbastanza da contenere delle stalle per cavalli. Nei suoi sobborghi, Tigrane vi aveva fatto costruire un palazzo reale e dei parchi di grandi dimensioni, con recinti per animali selvaggi e vasche per pesci.
Aveva inoltre eretto una grande torre nelle vicinanze. La città è inoltre popolata da molti greci che vi erano stati trapiantati, come altri, dalla Cilicia, oltre a barbari che avevano subito la stessa sorte. Tigrane attraversa l’intero paese per raccogliere un esercito sufficiente ad affrontare il generale romano.
Intanto Plutarco racconta:
“E mentre parte dell’esercito di Lucullo stava allestendo l’accampamento, ed una parte lo stava ancora raggiungendo, gli esploratori romani dissero che i nemici stavano sopraggiungendo per attaccarli
Temendo che il nemico volesse attaccare i suoi uomini, quando non erano tutti uniti e in disordine, gettandoli in uno stato ancor più di confusione, egli stesso decise di dare disposizioni per l’accampamento, mentre Sestilio, uno dei suoi legati, fu mandato alla testa di 1.600 cavalieri ed altrettanti legionari, con l’ordine di avvicinarsi al nemico ad aspettarlo, almeno fino a quando non avesse saputo che il corpo principale dell’armata romana era accampata in modo sicuro.
Ebbene, questo era ciò che Sestilio voleva fare, ma fu costretto a combattere contro Mitrobarzane, che audacemente lo attaccò. Seguì quindi una battaglia, nella quale lo stesso Mitrobarzane cadde combattendo, mentre il resto delle sue forze si diede alla fuga, venendo tutta massacrata, tranne pochi [che si salvarono].”
(Plutarco, Vita di Lucullo, 25, 3-4. spiega:
Lucullo, riuscito a sconfiggere l’esercito armeno, invia il suo legato Sestilio ad assediare Tigranocerta dove saccheggia il palazzo reale fuori le mura e vi costruisce un fossato tutto intorno alla città, ponendovi numerosa artiglieria che in parte sarà distrutta dalle frecce incendiarie degli Armeni. Tigrane, raccolto un imponente esercito, si avvia a entrare in contatto con le truppe di Lucullo
Mitridate gli consiglia di non avvicinarsi all’accampamento romano, ma di circondarlo e attaccarlo con la sola cavalleria, di devastare i territori intorno per ridurre I Romani alla fame.
La dea Fortuna aiuta Lucullo, rendendo Tigrane sordo ai consigli del suocero, tanto da indurlo a rispondere, nel vedere le ridotte forze romane: “Se (I Romani) sono qui come ambasciatori sono troppi. Se (sono qui) come nemici, troppo pochi” (Appiano, Guerre mitridatiche, 85; Plutarco, Vita di Lucullo, 27.4).
La battaglia di Tigranocerta
Lucullo, visto l’esercito di Tigrane avanzare, divide la sua armata in due parti: lascia al legato Murena il compito di continuare l’assedio di Tigranocerta con 6.000 fanti, mentre egli si dirige contro l’armata nemica, a capo di sole 24 coorti di fanteria pesante (pari a circa 10.000 armati) e con non più di 1.000 tra cavalieri, frombolieri ed arcieri.
Appiano ci racconta che Lucullo aveva individuato una collina, la cui posizione favorevole, alle spalle di Tigrane, gli avrebbe procurato un ottimo vantaggio tattico.
E così spinge il suo cavallo in avanti per attirare l’attenzione su di sé, malgrado quel giorno, il 6 ottobre (siamo nell’anno 69 a.c.), fosse considerato infausto dal calendario romano (nel 105 a.c. ad Arausio, odierna Orange, Francia, i Romani vengono massacrati dai Cimbri, calati dall’Europa settentrionale).
Alcuni ufficiali consigliano al generale di essere cauto in quel giorno poiché è un giorno sfortunato, un giorno infausto proprio perché è il 06 ottobre. Ma Lucullo, secondo Plutarco (Vita di Lucullo, 27.7), risponde così: “Trasformerò questo giorno in uno di quei giorni beneauguranti e fortunati“
Intanto Tigrane, che non ha ancora compreso cosa stia accadendo veramente, è indotto a rompere il suo schieramento, credendo i Romani in fuga.
Il re armeno, che aveva disposto la sua armata in ordine di battaglia, ne occupa egli stesso il centro, mentre all’ala sinistra e a quella destra aveva posto la maggior parte della cavalleria pesante.
Tigrane chiamato a sé uno dei luogotenente gli dice ridendo: “Non vedi che l’invincibile armata romana sta scappando?“, ma l’altro gli risponde: “Oh Re, mi piacerebbe che qualcosa di meravigioso potesse accadere alla tua buona sorte, ma quando questi uomini sono in marcia, essi non indossano abbigliamenti splendenti, e neppure usano scudi o elmi lucenti, poiché ora essi mettono a nudo le coperture di pelle delle loro armi“.
E mentre il suo sottoposto sta ancora parlando, giunge alla loro vista un’aquila romana, mentre Lucullo si dirige verso il fiume, con le coorti che si dispongono in manipoli, pronte alla traversata del fiume.
Poi, all’ultimo, come fosse stato inebetito dallo stupore, Tigrane grida due o tre volte “Sono i Romani ad attaccarci?” (Plutarco, Vita di Lucullo, 27, 5-6).
“…[Lucullo] chiese ai suoi uomini di essere coraggiosi, attraversò il fiume, e si aprì la strada contro il nemico di persona.
Indossava una corazza d’acciaio a scaglie scintillanti, e un mantello con nappe, e allo stesso tempo sguainò la spada dal fodero, ad indicare che i legionari dovevano immediatamente serrare i ranghi come quando si combatte contro chi lancia i dardi da lontano, e ridurre con la massima velocità, appena dato l’ordine, lo spazio in cui il tiro con l’arco sarebbe risultato efficace.
E quando vide che la cavalleria “pesante”, su cui il re armano faceva grande affidamento, era di stanza ai piedi di una notevole collina che era coronata da un ampio spazio ad un livello superiore, e che il raggiungimento di questo era solo una questione di quattro stadi di distanza, né accidentato né ripido, ordinò ai suoi cavalieri gallici e di Tracia di attaccare il nemico sul fianco, e di parare i colpi delle loro lunghe lance con le loro spade corte.” (Plutarco, Vita di Lucullo, 28, 1-2).
Secondo la versione di Appiano, Lucullo invia con grande rapidità la sua fanteria intorno alla collina di cui prende possesso, senza che il nemico quasi se ne accorga.
E quando si rende conto che il nemico esulta, come se abbia già vinto la battaglia, ormai sparso in tutte le direzioni, con i bagagli lasciati incustoditi ai piedi della collina, esclama: “Soldati, abbiamo vinto!” e si scaglia sui loro bagagli con grande rapidità.
Plutarco (Vita di Lucullo, 28,3-4) aggiunge nella sua versione: “[…] con due coorti, Lucullo si affrettò a conquistare la collina, mentre i suoi soldati lo seguivano con tutte le loro forze, perché avevano visto che il loro comandante era davanti a loro con l’armatura, sopportando come tutti la fatica di un normale fante, e salendo lungo la strada.
Arrivati in cima, osservando dall’alto del luogo raggiunto, gridò a gran voce, “Oggi è il nostro giorno! Oggi è nostro, miei compagni!” Con queste parole, condusse i suoi uomini contro i cavalieri catafratti [armeni], ordinando loro di non lanciare i pila ancora, ma prendendo in consegna ciascun uomo, e colpendo il nemico alle gambe o alle cosce, che erano le uniche parti senza protezione di questi cavalieri catafratti.
Tuttavia, non ci fu bisogno di questo accorgimento nel combattere, poiché il nemico non si aspettava l’arrivo dei Romani, ma al contrario, con alte grida e nella maggior parte con una fuga vergognosa, si lanciarono insieme ai loro cavalli al galoppo con tutto il loro peso, oltre le file della propria fanteria, prima ancora di aver cercato anche solamente di resistere combattendo, e così 10.000 armati nemici [armeni] furono sconfitti senza aver inflitto una sola ferita o un benché minimo spargimento di sangue.”
La confusione tra le fila armene è ormai generale, con la fanteria che si trova schierata contro la sua stessa cavalleria e viceversa, generando infine una rotta completa.
Lo stesso Tigrane si dà quasi subito alla fuga, consegnando la sua corona al figlio che non volendo indossarla la diede a uno schiavo che verrà catturato e portato davanti a Lucullo, insieme al diadema che diventerà parte del bottino.
Lucullo: un generale fenomenale
Appiano racconta che nessuno dei Romani, inizialmente, si ferma a saccheggiare poiché Lucullo lo aveva proibito con minacce di severe punizioni, poi inizia il saccheggio con il permesso di Lucullo. Plutarco aggiunge che 100.000 furono i morti tra gli Armeni, quasi tutti fanti, solo cinque tra i Romani e un centinaio rimasti feriti.
E sembra che lo stesso Tito Livio abbia ammesso che mai prima d’ora i Romani erano risultati vincitori con forze pari a solo un ventesimo dei nemici, elogiando così le grandi doti tattiche di Lucullo, che era riuscito con Mitridate a sconfiggerlo “temporeggiando”, ed invece con Tigrane a batterlo grazie alla rapidità. Due doti apparentemente in antitesi, che Lucullo seppe utilizzare a seconda del nemico affrontato.
La terza guerra mitridatica si conclude anni dopo con le operazioni militari passate a Pompeo Magno. Dopo aver combattuto Roma per quasi trenta anni Mitridate VI muore nel 63 a.C., consegnando il regno al figlio Farnace, riconosciuto re da Pompeo Magn
Lucio Licinio Lucullo: si racconta di lui che, alla partenza per l’Oriente, non sapesse nulla di tattica militare, portandosi dietro dei libri per imparare e imparò presto e bene.
Aiutato da una memoria prodigiosa e da un’intelligenza evidentemente acuta, si dimostrò un ottimo comandante militare, riuscendo a convertire le proprie conoscenze teoriche (apprese in pochissimi giorni), in numerose vittorie sul campo.
Non ebbe molta fortuna, politicamente parlando, e anche i suoi modi di comunicazione con le sue truppe non lo aiutarono: impose ai soldati una ferrea disciplina militare, negò loro quasi sempre il piacere del saccheggio.
Non aveva il senso di cameratismo di Mario, o la semplicità conviviale di Pompeo, o gli slanci camerateschi di Cesare e pur avendo a cuore la vita dei soldati, non riuscì a farsi amare da loro, come non riuscì a instaurare un rapporto di armonia neppure con i suoi pari, che riteneva indegni di lui.
Ostacolato dai molti si ritirò nelle sue lussuose dimore, usando la grande fortuna che aveva accumulato durante le sue guerre in Oriente per trascorrere una vita nello sfarzo più sfrenato.
Divenne così celebre per i suoi banchetti, tanto che ancora oggi esiste in lingua italiana l’aggettivo «luculliano» per indicare un pasto particolarmente abbondante e delizioso.