La battaglia di Eraclea fu uno scontro tra i Romani e i Greci, che si allearono con il re Pirro d’Epiro. La battaglia avvenne nel 280 a.C. vicino alla città di Eraclea, in Basilicata.
I Romani, guidati dal console Publio Valerio Levino, volevano espandere il loro dominio sull’Italia meridionale e contrastare l’influenza greca. I Greci, guidati da Pirro, volevano difendere le loro colonie e resistere all’aggressione romana. Pirro aveva portato con sé un esercito di 25.000 opliti, 3.000 cavalieri, 2.000 arcieri, 500 frombolieri e 20 elefanti da guerra. I Romani avevano circa 20.000 fanti e 2.400 cavalieri.
La battaglia fu molto combattuta e durò tutto il giorno. I Romani attaccarono con vigore e respinsero i Greci fino al fiume Siris. Pirro allora mandò in campo gli elefanti, che spaventarono i cavalli romani e crearono il panico tra le file nemiche. I Romani furono costretti a ritirarsi, lasciando sul campo 7.000 morti e 1.800 prigionieri. I Greci persero 4.000 uomini.
La battaglia fu una vittoria di Pirro, ma a un costo elevato. Il re epirota disse: “Ancora una vittoria come questa e sarò perduto”. Da questa frase deriva l’espressione “vittoria di Pirro“, che indica una vittoria ottenuta con gravi perdite. La guerra tra Romani e Greci continuò per altri cinque anni, finché Pirro non abbandonò l’Italia dopo la battaglia di Benevento nel 275 a.C.
La situazione in Italia allo scoppio della guerra contro Pirro
A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., le città della Magna Grecia in Italia stavano conoscendo un lento declino, soprattutto per gli attacchi delle popolazioni dei Bruzi e dei Lucani. Solamente Taranto, la capitale della Magna Grecia, manteneva una posizione geopolitica di rilievo, grazie al commercio con l’entroterra e la Grecia.
Per contrastare le minacce militari, Taranto iniziò ad assoldare dei mercenari spartani, come Archidamo III, con il compito di difendere la città dagli attacchi dei Lucani. Ma non solo, i Tarantini ricorrevano regolarmente a mercenari provenienti dall’Epiro, come Alessandro il Molosso. Nel frattempo, Roma guardava con interesse l’evoluzione della situazione geopolitica nell’Italia meridionale, tanto da stipulare nel 325 a.C. un trattato che definiva l’area di navigazione delle navi romane e di quelle tarantine, fissando il promontorio Lacinio, l’attuale Capo Colonna, come confine.
Roma continuava però ad espandersi, con grande preoccupazione dei tarantini. Nel 327 a.C. si era infatti alleata con Napoli e nel 314 aveva fondato la colonia romana di Lucera.
All’alba del 303 a.C. i Lucani avevano eseguito dei nuovi attacchi, probabilmente sobillati dai Romani, che avevano costretto Taranto a chiedere nuovamente aiuto a dei mercenari spartani, ingaggiando il generale Cleonimo di Sparta, che venne tuttavia sconfitto dagli eserciti italici.
I tarantini si affidarono allora al tiranno di Siracusa, il potente Agatocle, che ottenne una decisiva vittoria contro i Bruzi. Ma nonostante questo successo militare, le piccole Poleis dell’Italia meridionale e Taranto stessa continuavano a sentirsi seriamente in pericolo.
Roma, consapevole della debolezza del territorio, decise di approfittare della situazione, alleandosi con i Lucani. La mossa strategica preoccupò enormemente Taranto, tanto più che nel corso della battaglia del Sentino nemmeno una coalizione di Sanniti, Etruschi e Galli era riuscita a fermare la potenza militare romana.
Nel 289 a.C. Agatocle di Siracusa morì, lasciando una delle città più potenti del Mediterraneo nella completa incertezza. Così, prive della alleanza con i siracusani, la città di Turi, seguita a breve distanza da Reggio, Locri e Crotone chiese di essere posta sotto la protezione di Roma, i cui interessi si proiettavano ormai chiaramente verso il meridione d’Italia.
I Tarantini si opposero immediatamente, soprattutto per bocca degli aristocratici Filocare e Ainesias, che volevano salvaguardare l’indipendenza della loro città e opporsi alle mire espansionistiche di Roma.
Roma pareva effettivamente inarrestabile. La regolare fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane, oltre alla costruzione della via Appia, dimostravano in maniera chiara la strategia politica e militare di Roma. La spinta espansionistica proveniva dalla classe aristocratica romana e in particolar modo dalla Gens Claudia, motivata da interessi commerciali e militari.
In particolare, Roma riusciva a rompere con grande efficacia i rapporti di solidarietà che esistevano tra le città del sud Italia, avanzando inesorabilmente.
Il casus belli: navi romane nel golfo di Taranto e l’incidente con Filonide
Il casus belli si verificò nell’autunno del 282 a.C. Taranto era impegnata a celebrare il dio Dioniso con grandi festeggiamenti. Improvvisamente, i Tarantini videro entrare nel golfo dieci navi da osservazione romane al comando del generale Publio Cornelio Dolabella o, secondo altre fonti, dell’ammiraglio Lucio Valerio. I romani dichiararono che si trattava di una semplice cortesia: le navi romane stavano infatti scortando delle navi tarantine che avevano perso la rotta.
Ma i Tarantini ritennero questa intrusione una gravissima violazione del trattato con Roma, che consideravano ancora in vigore. Così, decisero di muovere la propria flotta, attaccando le navi romane. Durante lo scontro navale che ne seguì, quattro navi romane furono affondate e un’altra venne catturata.
Mossi dalla rabbia, i Tarantini decisero di attaccare, attraverso il proprio esercito di terra, la vicina città di Turi, cacciando gli aristocratici filoromani e riportando la fazione democratica al potere. La guarnigione romana di stanza nella città fu presto sopraffatta e allontanata con la forza.
Appena ricevuta la notizia di quanto successo, i romani organizzarono una missione diplomatica, guidata da Postumio, per cercare di definire la situazione. Ma una volta di fronte al senato di Taranto, gli ambasciatori romani furono derisi e oltraggiati dalla popolazione.
In un clima di nervosismo generale, Postumio chiese la liberazione dei prigionieri, il ritorno dei cittadini espulsi da Turi e il risarcimento dei danni subiti, oltre all’immediato arresto degli autori dei crimini contro i romani. Le sue richieste però vennero immediatamente respinte.
In quella situazione, Postumio venne talmente deriso che un ubriaco si permise di urinare sulla sua toga. Postumio, sconcertato e furioso, rispose: “Laverete questa toga con il sangue!”.
Così, fallita la missione diplomatica, Roma si sentì in pieno diritto di dichiarare guerra a Taranto.
I Tarantini, perfettamente consapevoli della forza militare di Roma, decisero di utilizzare la strategia che avevano già impiegato, chiedendo aiuto ad un generale straniero, e in particolare a Pirro, il re dell’Epiro.
L’arrivo di Pirro in Italia
Nel 281 a.C. le legioni romane, guidate da Lucio Emilio Barbula, entrarono a Taranto conquistandola rapidamente, nonostante la resistenza dei Tarantini ai quali si erano uniti contingenti di alleati Sanniti e Messapi.
I Tarantini riponevano però tutte le loro speranze nel condottiero Pirro: egli aveva infatti deciso di aiutare Taranto per poi dirigersi in Sicilia e attaccare Cartagine, seguendo un piano che lo avrebbe portato alla costruzione di un grande impero personale, sulle orme di Alessandro Magno.
Pirro era un abile generale, che aveva ottenuto in breve tempo degli aiuti militari da Antioco I di Siria, Antigono II Gonata, dal re di Macedonia Tolomeo Cerauno e dal re dell’Egitto Tolomeo II. Reclutando un grande numero di forze mercenarie, tra cui anche cavalieri della Tessaglia e frombolieri di Rodi, Pirro era salpato verso le coste italiche con un esercito molto eterogeneo e pericoloso.
In realtà una tempesta aveva parzialmente danneggiato le sue navi durante la traversata via mare, costringendo le truppe a sbarcare nei pressi di Brindisi. Nonostante questo, Pirro guidava una forza di 25.000 uomini e di 20 elefanti, animali che i Romani non avevano mai visto.
Pirro proseguì via terra verso Taranto, dove posizionò i suoi accampamenti, informato e protetto dagli alleati Messapi. Dopo l’arrivo delle restanti navi, Pirro lasciò a Taranto un presidio di 3.000 uomini guidati da Cinea. Il condottiero si spostò poi verso sud, accampandosi nei pressi della città di Eraclea.
I Romani, che avevano previsto l’arrivo di Pirro, decisero di mobilitare ben otto legioni, ovvero 80.000 soldati, divisi in quattro armate.
La prima, guidata da Barbula, si era stanziata presso Venosa per impedire a Sanniti e Lucani di unirsi alle truppe di Pirro. La seconda si era schierata a protezione di Roma nel caso in cui Pirro avesse deciso di sferrare un attacco diretto contro la capitale.
La terza armata, guidata dal console Tiberio Coruncanio, aveva attaccato gli Etruschi per impedire un’alleanza con Pirro, mentre la quarta, guidata da Publio Valerio Levino, era impegnata ad attaccare Taranto e invadere la Lucania.
Levino invase la Lucania, intercettando Pirro nei pressi della città di Eraclea, per bloccare la sua avanzata verso sud e impedire un’alleanza con le colonie greche della Calabria.
L’arrivo di Pirro in Italia
Nel 281 a.C., le legioni romane guidate da Lucio Emilio Barbula entrarono a Taranto e la presero d’assalto, nonostante i rinforzi dei Sanniti e dei Messapi. Dopo la battaglia, i Greci chiesero una breve tregua e la possibilità di avviare trattative con i Romani.
Tuttavia, i negoziati vennero interrotti bruscamente dall’arrivo a Taranto dell’ambasciatore Cinea, che precedeva (o accompagnava) 3.000 soldati, una forza d’avanguardia inviata da Pirro sotto il comando del generale Milone di Taranto. Il piano di Pirro prevedeva di aiutare Taranto e poi dirigersi in Sicilia per attaccare Cartagine, come avvenne nel 278 a.C.
Dopo aver lasciato l’Epiro, Pirro ottenne supporto militare da Antioco I di Siria, Antigono II Gonata, re di Macedonia Tolomeo Cerauno e re d’Egitto Tolomeo II. Arruolò anche altre truppe mercenarie, tra cui cavalieri tessali e frombolieri rodiesi. Nel 280 a.C., Pirro salpò verso le coste italiane, ma durante la traversata fu colto da una tempesta che danneggiò le navi e lo costrinse a sbarcare le truppe, probabilmente vicino a Brindisi. Guidava un contingente di 25.500 uomini armati e 20 elefanti. Da lì si diresse a Taranto, dove si stabilì con l’aiuto dei Messapi.
Dopo aver atteso l’arrivo delle restanti navi, Pirro lasciò a Taranto una guarnigione di 3.000 uomini guidata dal suo fidato ambasciatore Cinea e si mosse verso sud, accampandosi nei pressi di Eraclea. I Romani avevano previsto l’imminente arrivo di Pirro e mobilitarono otto legioni, costituite da circa 80.000 soldati e divise in quattro armate:
- La prima armata, comandata da Barbula, si schierò a Venosa per impedire ai Sanniti e ai Lucani di unirsi alle truppe di Pirro.
- La seconda armata fu posta a protezione di Roma, nel caso in cui Pirro tentasse di attaccarla.
- La terza armata, guidata dal console Tiberio Coruncanio, aveva il compito di affrontare gli Etruschi per evitare che si alleassero con Pirro.
- La quarta armata, comandata dal console Publio Valerio Levino, avrebbe dovuto attaccare Taranto e invadere la Lucania.
In effetti, Levino invase la Lucania e intercettò Pirro nei pressi di Eraclea, città alleata dei Tarantini, con l’obiettivo di bloccare la sua avanzata verso sud e prevenire un’alleanza con le colonie greche in Calabria.
Pirro inviò il suo ambasciatore Cinea a Roma per proporre la pace, ma i Romani rifiutarono l’offerta.
Forze in campo
Le informazioni a nostra disposizione sull’esercito della Repubblica Romana sono piuttosto scarse. L’unica fonte attendibile è infatti Tito Livio, il quale però, nella sua opera, ha un notevole buco storico che coinvolge proprio questo periodo.
Potendo procedere solamente per supposizioni, gli storici ritengono che il comandante Valerio Levino abbia potuto contare su 20.000 armati divisi in due legioni di cittadini romani e due ali di alleati italici, composte ciascuna da 5.000 fanti, per un totale di 20.000 uomini. A questi si sarebbero aggiunti 600 cavalieri legionari e 1.800 alleati, per una forza a cavallo di 2.400 soldati complessivi.
Le informazioni che abbiamo sull’esercito di Pirro sono invece molto più precise.
- 3.000 psiloi Etoli, Acarnani e Atamani, sotto il comando di Milone a Taranto
- 3.000 cavalieri: “Amici del Re”, Epiroti, mercenari dell’Ellade e alleati d’Italia
- 14.000 fanti Epiroti e Macedoni disposti a falange
- 3.000 opliti “scudi bianchi” di Taranto
- 2.000 arcieri
- 500 frombolieri
- 3.000 peltasti mercenari Messapi
- 20 elefanti da guerra
L’attraversamento del fiume Sinni e il duello tra Pirro e Volsinio
Dopo i primi scontri tra le avanguardie, il grosso dei due eserciti venne a contatto. Gli opliti di Pirro, disposti nella classica formazione a falange, effettuarono sette cariche nel tentativo di sopraffare i legionari romani. Nonostante fossero riusciti a sfondare le prime linee del nemico, non furono in grado di avanzare ulteriormente e soprattutto non riuscirono a rompere la formazione romana, esponendosi così ai micidiali e precisi colpi dei gladi che li costrinsero a rimanere nella loro posizione.
Durante la battaglia, alcuni soldati romani continuavano a cercare Pirro sul campo per attaccarlo direttamente. Dopo qualche tempo, un cavaliere romano di nome Destro pensò finalmente di aver avvistato Pirro, assalendo in realtà Megacle e uccidendolo. Ma, sempre convinto di aver abbattuto Pirro, Destro lo spogliò del suo equipaggiamento e annunciò al resto del contingente romano di aver ucciso il generale nemico.
La voce giunse direttamente al console Levino e ai suoi uomini che, galvanizzati dalla presunta morte di Pirro, sferrarono un deciso contrattacco, mentre i Greci iniziavano a perdere terreno ed erano sul punto di andare nel panico.
Pirro, vedendo la pericolosa piega che stava prendendo la battaglia, fu così costretto a cavalcare a volto scoperto per il campo per farsi riconoscere dai suoi soldati. Per riprendere il controllo della battaglia, Pirro decise di scatenare gli elefanti da guerra, il suo vero e proprio asso nella manica.
Questi animali, con la loro enorme stazza, crearono immediatamente scompiglio tra le file romane, che non avevano mai visto i pachidermi, tanto che, in un primo momento, li avevano scambiati per dei grossi buoi, che chiamavano buoi lucani. Gli elefanti, oltre a essere degli animali terribili, capaci di annientare decine di legionari con un solo colpo di proboscide, portavano sulla loro groppa una torretta con degli arcieri che colpivano i nemici dall’alto.
Gli elefanti travolsero le legioni romane, creando panico tra gli uomini e persino tra i cavalli, i quali erano spaventati non solo dalla grandezza ma anche dall’odore degli elefanti e dai loro barriti.
Secondo il cronista antico Paolo Orosio, durante lo scontro, il primo astato della quarta legione, Gaio Minucio, riuscì a ferire alla proboscide uno di questi elefanti. Questo, inferocito e totalmente fuori controllo, si rigirò contro le truppe greche causando numerose vittime. Quest’episodio potrebbe essere stato confuso con un simile evento avvenuto nella successiva battaglia di Ascoli.
Nonostante questo elemento, la cavalleria tessala fu in grado di sbaragliare definitivamente la fanteria romana, ormai in completa ritirata. I soldati di Pirro riuscirono a conquistare il campo di battaglia, entrando addirittura nell’accampamento romano di Levino.
La presa dell’accampamento rappresentava non solo una grande disfatta, ma anche un disonore per i Romani.
I legionari sopravvissuti, seguendo probabilmente la via Nerulo- Potentia -Grumentum, si ritirarono nella vicina città di Venosa, sbarazzandosi del proprio equipaggiamento per scappare più velocemente.
Fu soprattutto il sopraggiungere della notte che permise agli uomini del console Levino di non essere completamente annientati.
Le perdite dei Romani
Le perdite per i Romani furono ingenti, ma sui caduti dell’esercito romano abbiamo diverse fonti che forniscono dati divergenti. Geronimo di Cardia riferisce 7.000 vittime tra i Romani e 4.000 tra i Greci, mentre Dionigi di Alicarnasso parla di 15.000 morti per i legionari e 13.000 tra le truppe di Pirro. Eutropio aggiunge il dettaglio che 1.800 soldati romani furono fatti prigionieri, precisando che Pirro li trattò con rispetto e si preoccupò di seppellire anche i morti avversari, ammirando il valore dei soldati romani. Paolo Orosio parla di 14.000 morti e 1.300 prigionieri per la fanteria romana, oltre a 22 insegne militari romane perse.
Tutti gli storici ritengono che, anche prendendo le cifre al ribasso di Geronimo, le perdite per Pirro furono molto pesanti. Un quinto del suo esercito era stato infatti abbattuto. Egli, a differenza di Roma, non aveva la capacità di reclutare rapidamente nuovi uomini. Inoltre, durante la battaglia, Pirro perse molti luogotenenti e amici fedeli, rischiando lui stesso più volte la vita. Nonostante la vittoria, quindi, Pirro fu preso dallo sconforto, soprattutto per il numero dei suoi soldati, che andava rimpicciolendosi sempre di più. Pirro cercò addirittura di reclutare dei prigionieri romani nel proprio esercito, ingolosendoli con denaro e promesse, ma questi rifiutarono, rimanendo fedeli a Roma.
Le conseguenze per la guerra
La sconfitta romana causò immediatamente la formazione di nuove alleanze antiromane. In particolare, Lucani, Sanniti e Bruzi si unirono all’esercito vittorioso di Pirro. Anche alcune città greche d’Italia passarono dalla sua parte, come Locri e Crotone, che decisero di scacciare le guarnigioni romane e di cambiare alleato. A Reggio Calabria, Decio Vibullio massacrò una parte degli abitanti, cacciò la guarnigione romana ribellandosi a Roma e proclamandosi reggente.
Nel frattempo, il console Levino, stanziato a Venosa, stava lavorando per riorganizzare il suo esercito, mentre Coruncanio si trovava ancora in Etruria. Pirro chiese la restituzione dei territori per i Sanniti, i Lucani, i Dauni e i Bruzi, inviando il proprio ambasciatore Cinea a Roma per proporre una pace e restituire i prigionieri. Ma Cinea si trovò di fronte ad un muro di gomma.
Appio Claudio Cieco rifiutò categoricamente le condizioni di Pirro, chiedendo il suo immediato ritiro e comunicando che aveva già arruolato due nuove legioni con numerosi volontari, immediatamente pronte a una nuova battaglia. Inoltre, gli Etruschi avevano accettato la pace, permettendo alle forze di Coruncanio di unirsi a Levino.
Pirro, sconcertato dalla determinazione romana, tentò di attaccare la città di Napoli senza successo, avanzando per Capua. L’esercito di Pirro devastò la zona del Liri, giungendo ad Anagni e forse a Preneste, ma consapevole di non poter affrontare le armate romane riunite, Pirro decise di ritirarsi in Campania e asserragliarsi in città in attesa dell’inverno.
Nel frattempo, giunse l’ambasciata romana di Gaio Fabricio Luscinio, inviato a trattare lo scambio dei prigionieri. Pirro fu impressionato dalle qualità oratorie di Luscinio e decise di affidargli i prigionieri per scortarli a Roma, in cambio di un pagamento. Ma il senato romano, nonostante l’occasione, rifiutò qualsiasi pagamento, comandando a Luscinio di riportare i prigionieri da Pirro.
La fallita invasione della Sicilia di Pirro e il ritiro
Dopo la battaglia di Eraclea e quella di Ascoli del 279 a.C., di nuovo vinta da Pirro, la situazione strategica del condottiero epirota era molto delicata. Pirro non riusciva a ottenere alleati nella regione dell’Apulia. Inoltre, venne a sapere di un’invasione celtica durante la quale suo suocero Tolomeo Cerauno, il re di Macedonia, era morto in battaglia.
Questo causò sentimenti contrastanti in lui: da una parte vi era il dolore per la perdita di un parente e di un alleato, dall’altra la possibilità di ambire al trono macedone. Mentre rifletteva se tornare in Oriente o proseguire la conquista dell’Occidente, Pirro ricevette la chiamata delle città greche della Sicilia, che chiedevano il suo aiuto militare contro le truppe cartaginesi che stavano minacciando Siracusa.
Pirro intravide allora la grande opportunità di cacciare definitivamente i Cartaginesi dalla Sicilia, sfruttando gli alleati e i contingenti dalla Magna Grecia per poi tornare in Epiro e conquistare anche il trono di Macedonia.
Ma per realizzare il suo disegno, Pirro aveva bisogno di una pace duratura con Roma, al fine di poter concentrare tutte le sue forze contro i Cartaginesi. Peccato per Pirro, Cartagine, immaginando le sue mosse e temendo la guerra, aveva già stipulato un trattato di alleanza con il senato romano contro il comune nemico.
Cartaginesi e Romani confermarono tutti i loro precedenti accordi e aggiunsero una clausola per cui se uno dei due regni fosse stato attaccato dall’esercito di Pirro, l’altro sarebbe accorso in suo aiuto. Se necessario, i Cartaginesi avrebbero messo a disposizione di Roma navi per il trasporto, aiutando i Romani ad attraversare il mare.
Malgrado il fallimento delle trattative con Roma, Pirro reclutò un esercito di 37.000 soldati e decise di sbarcare comunque in Sicilia.
Dapprima conquistò la città filocartaginese di Erice, per poi muovere contro Segesta. L’unica città in grado di resistere a Pirro, fu Lilibeo, adeguatamente rifornita dalla flotta cartaginese. I Cartaginesi, vedendo la rapida conquista di Pirro, offrirono la pace, ma i Sicelioti convinsero il condottiero epirota a rifiutare.
Pirro sembrava inarrestabile, ma il suo operato venne improvvisamente minato dal tradimento di alcuni alleati, che dopo mesi di assedio di Lilibeo decisero di abbandonarlo.
All’improviso, il sogno di Pirro di replicare l’impresa di Agatocle di Siracusa e di sbarcare nell’Africa settentrionale svanì per sempre.
Non solo: il controllo dell’epirota sulla Sicilia diventò sempre più precario, a causa delle continue defezioni nelle file dei Greci. Il rapporto tra Pirro e i Sicelioti continuò a peggiorare, forse per la sua malagestione delle risorse locali, forse per la sua evidente volontà di imporre una monarchia di stampo ellenistico sull’isola.
Così Pirro, usando come pretesto una richiesta d’aiuto da parte di Taranto, decise di tornare in Italia.
Al suo rientro nell’Italia meridionale, Pirro trovò una amara sorpresa. Dopo tre anni di assenza, i Romani avevano non solo ripreso l’iniziativa, sconfiggendo Bruzi, Lucani e Sanniti, ma avevano anche stretto alleanze con Crotone e Locri.
Pirro tentò invano di raddrizzare le sorti della guerra: fu in grado solamente di riconquistare Locri, ma non riuscì a battere le due armate consolari romane riunite a Maleventum. Fu quindi costretto a ritirarsi, seppur imbattuto.
Con le sue forze ormai logore, Pirro fu costretto a tornare in patria, lasciando solamente un presidio a Taranto, comandato dal generale Milone, che si arrenderà ai Romani già nel 272 a.C.