L’assedio di Siracusa è stato uno degli eventi centrali della seconda guerra punica. Episodio fondamentale nell’ambito della guerra tra Roma e Cartagine, la presa di Siracusa da parte dell’esercito romano ha costituito un importante cambio di fronte per gli equilibri del Mediterraneo.
L’assedio venne condotto dal console Claudio Marcello e vide coinvolte le forze siracusane e cartaginesi in uno scontro all’ultimo sangue, che è entrato nella storia per la sua complessità, per la sua importanza geopolitica e per la morte di Archimede, uno dei più grandi geni della storia umana.
I rapporti tra Roma e Siracusa e lo scoppio della guerra
La città di Roma e quella di Siracusa avevano stretto da diverso tempo dei trattati di pace e di profonda e proficua collaborazione, soprattutto grazie alla guida del carismatico tiranno di Siracusa, Gerone II. Alla sua morte, il successore, il nipote Geronimo, appena quindicenne, dimostrò invece insofferenza nei confronti della potenza romana, eccitato dagli ideali di libertà e indipendenza di Siracusa.
Una congiura lo assassinò in breve tempo e anche il suo successore, Adrianodoro, rimase al comando troppo poco per poter determinare un qualsiasi cambio di politica.
Come ci racconta Tito Livio, la situazione era in questo periodo estremamente instabile e nel Senato di Siracusa si aprì un acceso e a tratti violento dibattito, per decidere se rinnovare i propri trattati di pace con Roma o se sbilanciarsi a favore dei cartaginesi, alla ricerca di una propria indipendenza.
Al termine delle lunghissime discussioni, il Senato siracusano deliberò che Roma si era dimostrata un’alleata affidabile e soprattutto i siracusani avevano imparato a conoscere i romani a fondo, mentre i cartaginesi si erano più volte dimostrati non all’altezza delle aspettative.
In altre parole, il Senato siracusano preferiva ricostituire la pace con un alleato potente e conosciuto, piuttosto che aprirsi ad un’alleanza alquanto incerta.
Se il Senato di Siracusa aveva sostanzialmente deciso di rinnovare la pace con i romani, la situazione venne pesantemente influenzata da due notabili siracusani: i fratelli Ippocrate ed Epicide. Fermamente convinti che Siracusa dovesse opporsi al dominio Romano, i due utilizzarono ogni mezzo per aprire le ostilità con Roma.
Una prima occasione si verificò quando i Leontini, per via di alcune incursioni nei loro territori, chiesero supporto all’esercito siracusano. Ippocrate sapeva che i Leontini mal sopportavano la presenza romana e si recò presso la loro città per aiutarli a mantenere la sicurezza dei loro territori, ma colse anche l’occasione per attaccare una guarnigione romana provocando parecchie perdite.
L’azione di Ippocrate scatenò l’immediata reazione del console in carica, Marcello, il quale inviò a Siracusa un dispaccio ufficiale con cui richiedeva che i due fratelli, che tramavano evidentemente contro Roma, fossero allontanati, non solo da Siracusa ma dall’intera Sicilia.
La richiesta romana era di un esilio controllato nella cittadina di Locri.
Mentre Siracusa discuteva sul da farsi, anche Epicide raggiunse la città di Leontini e continuò a sobillare la popolazione contro i romani. La situazione era diventata incandescente: i Leontini decisero di schierarsi sia contro Roma, sia contro i siracusani che, in questa fase, volevano mantenere l’alleanza.
Constatando l’aggravarsi della situazione, il console Marcello attaccò con il proprio esercito i Leontini: secondo le cronache, i soldati romani erano talmente adirati dalla violazione dei trattati e da un’ingiustificata ribellione contro di loro, che i Leontini vennero facilmente battuti e la città messa a ferro e fuoco.
Ippocrate ed Epicide, che si trovavano nella città, furono costretti a scappare, sconfitti. Ma il loro ingegno gli permise di ribaltare e strumentalizzare la situazione a loro favore.
Epicide e Ippocrate si presentarono di fronte al Senato siracusano, raccontando di una impietosa strage da parte dei romani: leggendo in aula delle lettere false e portando in loro favore delle testimonianze organizzate a tavolino, i due fratelli convinsero i siracusani che i romani avevano operato un orrendo massacro, violando tutte le leggi e facendo capire che una sorte simile sarebbe un giorno toccata anche alla potente città greca.
La furbizia di Ippocrate e di Epicide, furono sufficienti a spostare il voto del Senato di Siracusa in loro favore: la città li accolse ufficialmente, violando il trattato con Roma, che ne pretendeva l’esilio: una dichiarazione di guerra.
Le fortificazioni di Siracusa e gli attacchi di Marcello
Nonostante un contingente militare di tutto rispetto, il Console Marcello si trovava di fronte ad una sfida di gigantesca entità. Come ci racconta Polibio nel libro VIII delle sue “Storie”, Siracusa era una grandissima città, che gareggiava per grandezza direttamente con Cartagine.
Era cinta da 27 km di mura, le quali erano spesso a strapiombo sul mare e quindi molto difficilmente attaccabili. Vi erano inoltre pochi accessi alla città, il che complicava notevolmente le operazioni.
Il Console Marcello decise di compiere un duplice attacco: posizionò l’accampamento a poca distanza da Siracusa e mandò all’attacco il suo generale, Claudio Pulcro, con scale e graticci presso la porta Exapilon.
Il Console Marcello in persona guidò invece l’attacco via mare: dotato di 60 quinqueremi mosse contro la zona della “Acradina“, la parte più fortificata della città le cui mura davano a strapiombo sul mare.
Marcello sapeva di trovarsi di fronte ad una sfida difficile, ma riteneva di avere un asso nella manica: le cosiddette “sambuche“. Si trattava di alcune scale, protette sui fianchi, posizionate sulla prua delle navi, in modo tale che sporgessero verso l’esterno.
Attraverso un sistema di corde, questo lungo corridoio poteva essere sollevato: la nave si avvicinava, il graticcio si abbassava quel tanto che bastava per appoggiarsi alle mura e dall’interno delle sambuche i legionari sarebbero sbucati per assaltare la città.
Ma quello che Marcello non sapeva è che siracusani avevano a disposizione uno dei più grandi geni dell’antichità: Archimede.
Il più grande scienziato del mondo antico, aveva ideato nel corso dei mesi una lunghissima serie di contromisure e di attrezzature che avrebbero dato filo da torcere ai legionari.
Le armi inventati da Archimede avevano dello straordinario: il celebre scienziato aveva organizzato una vastissima disposizione di armi da lancio. Le più potenti potevano attaccare le navi romane dalla grandissima distanza, affondandole a parecchie centinaia di metri. Una seconda fila di armi da lancio, con una gittata media, era capace di bersagliare i legionari durante l’avvicinamento e di sterminarli con relativa facilità.
E anche i soldati che riuscivano a farsi sotto le mura dell’Acradina, venivano bersagliati nella brevissima distanza da arcieri scelti, posizionati in strette feritoie. Le mura Siracusane, così difese, rappresentavano un autentico inferno per chiunque si fosse avvicinato.
Un’altra arma inventata da Archimede, era invece costituita da alcuni grossi cilindri, all’interno dei quali venivano posizionati dei massi del peso medio di 360 kg. Quando le navi nemiche si avvicinavano alle mura, questi cilindri venivano spinti al di fuori del perimetro murario e, con un meccanismo a scatto, le pietre venivano fatte cadere sulla prua della nave avversaria, distruggendo le sambuche e facendo affondare rapidamente le navi.
Non solo: Archimede aveva anche progettato delle enormi “mani giganti”, interamente in ferro che venivano allungate fuori dalle mura e che, abilmente manovrate dall’interno, erano in grado di afferrare o di “schiaffeggiare” le navi romane, schiantandole come fuscelli.
Come ci racconta Polibio, Marcello paragonava le sue navi a dei bicchieri, che Archimede rovesciava a suo piacimento.
Le cose non andavano meglio nell’attacco via terra guidato da Pulcro: le armi da lancio facevano strage di legionari e sempre le mani giganti di Archimede sollevavano decine di uomini e li sfracellavano per terra, come formiche.
Siracusa si stava difendendo, grazie al genio di Archimede, con straordinaria efficacia e nemmeno tutta la forza e l’ingegno romano sembravano poter mettere in crisi le difese della città.
Il tentativo di presa per fame e l’intervento cartaginese
Disperando di poter conquistare Siracusa con la forza, Marcello cercò di catturare la città per fame, facendo circondare il territorio e impegnandosi a tagliare ogni tipo di rifornimenti.
In questa fase, si aprì nella città di Siracusa una serie di violente discussioni tra chi voleva arrendersi ai romani e chi voleva difendersi ad oltranza, confidando nell’efficacia delle armi di Archimede. Alla fine, prevalse la via della lotta continua.
Se l’idea di Marcello era tutto sommato ragionevole, a scombinare i suoi piani giunsero i cartaginesi. Annibale, nonostante fosse impegnato in Italia, riceveva continue notizie da Siracusa, e inviò il generale Imilcone, con un grosso quantitativo di rifornimenti, per la città di Siracusa.
Continuamente foraggiati dai cartaginesi, i siracusani potevano resistere ad oltranza ai romani.
Marcello si rese rapidamente conto che non sarebbe riuscito a prendere Siracusa, nemmeno per fame. Secondo le fonti, a questo punto del percorso, il console romano iniziò a disperarsi seriamente: presto avrebbe dovuto ammettere la sconfitta e reimpiegare le sue forze contro Agrigento, anch’essa ostile ai romani e che aveva comunque una buona importanza strategica.
Sempre più amareggiato e deluso, Marcello concepì un ultimo e disperato tentativo, basato sul tradimento di qualcuno all’interno di Siracusa.
Grazie ai suoi servizi di “intelligence”, Marcello fece recapitare un messaggio all’interno di Siracusa: l’obiettivo del generale era quello di convincere la parte filoromana all’interno di Siracusa che se la città si fosse arresa e consegnata spontaneamente ai Romani, avrebbe avuto un trattamento di favore.
La sua proposta fece breccia, e un gruppo di disertori siracusani, pronti a vendere la città ai Romani, rispose all’invito.
Ma qualcosa nelle trattative andò storto: fra questi venne escluso un certo Attalo, che informò Epicide, il quale individuò rapidamente i disertori e li mise a morte.
Secondo Plutarco, Marcello era ormai disperato: colpevole di uno spreco enorme di risorse e di vite romane, la sua carriera era prossima alla fine.
Ma un fatto del tutto inaspettato, si verificò dopo pochi giorni. Le unità di guardia romane intercettatarono e catturarono un certo Damippo, ambasciatore siracusano che era stato inviato presso la corte di Filippo di Macedonia per chiedere aiuto.
Sembra che Epicide tenesse particolarmente alla vita del giovane, e per questo motivo fu organizzato un incontro tra romani e siracusani per trattare lo scambio del prigioniero.
Durante le fasi di trattativa, un soldato romano notò che alcune torri potevano essere attaccate con delle scale di media grandezza. Al contempo giunse una seconda notizia di importanza fondamentale: secondo un informatore, i siracusani per i tre giorni successivi, avrebbero festeggiato la Dea Artemide e sarebbero stati particolarmente distratti in caso di un attacco.
In altre parole, si presentava per i romani una straordinaria occasione di compiere, finalmente, un grande attacco finale stavolta in grado di risolvere la battaglia.
L’attacco romano all’Esapilo e all’Epipole
La parte delle fortificazioni di Siracusa individuate dal legionario romano era effettivamente quella più debole: durante la notte, nel più assoluto silenzio, Marcello fece avvicinare lentamente, un manipolo alla volta, circa mille legionari nella zona dell’Esapilo.
Posizionando le scale con cautela e salendo silenziosamente sulle mura di Siracusa, i legionari riuscirono ad abbattere le sentinelle senza provocare rumore. Di lì a poco, nella zona delle Epipole si sviluppò rapidamente un rumoroso e sanguinoso scontro con le sentinelle.
Epicide, resosi conto che i romani erano riusciti a penetrare all’interno della città, spostò tutte le proprie forze nella zona della Acradina, particolarmente protetta e adatta per proseguire la resistenza ad oltranza.
Il Console Marcello reagì all’arrocco di Epicide, posizionando i propri soldati nella zona di Tycha e Neapolis.
La posizione dei romani era sufficientemente sicura, ma rimaneva un solo pericolo, il castello di Eurialo, posizionato alle spalle degli accampamenti, e nelle mani di un certo Filodemo.
In un primo momento, egli tergiversò con le trattative in attesa dell’arrivo dei cartaginesi, Ma quando si rese conto che non sarebbero arrivati nuovi rifornimenti, consegnò il castello ai Romani. Senza il pericolo di poter essere attaccato alle spalle, Marcello avviò l’assedio della Acradina.
Ora, per Siracusa, la situazione era davvero pesante.
La reazione cartaginese e la pestilenza
La situazione disperata in cui versava Siracusa, fu ben nota ai cartaginesi, che inviarono immediatamente rinforzi: in particolare Ippocrate sbarcò nel grande porto a sud della Acradina e attaccò i romani della zona di Neapolis, mentre la flotta cartaginese, ai comandi dell’ammiraglio Bomilcare, sbarcò presso il porto del Trogilo, a nord di Acradina.
In una condizione intricata e pericolosissima, una sorta di “pausa” nello scontro fu determinata dall’arrivo di una terribile pestilenza che colpì entrambi gli eserciti.
Gli scontri, che si protraevano ormai da mesi, il clima caldo e umido e la situazione sanitaria malsana fecero scoppiare un terribile morbo, che attaccò tutti gli eserciti coinvolti.
I romani, che portavano avanti l’assedio da parecchio tempo, si erano però abituati molto meglio alle condizioni della zona di Siracusa e inoltre il console Marcello aveva avuto cura di tenere i romani quanto più riparati possibile dal sole.
Per questo motivo, i cartaginesi furono colpiti molto più duramente da questa pestilenza: durante questa fase, morì anche Ippocrate e il generale Imilcone, lasciando l’esercito cartaginese senza una guida.
Un disperato tentativo da parte dei cartaginesi di aiutare Siracusa venne di nuovo dal generale Bomilcare, che salpò da Cartagine con 60 navi da guerra e 700 navi da rifornimento. Anche se il vento gli consentì una ottima traversata, Bomilcare faticò ad arrivare fino a Capo Pachino.
Epicide, saputo di questi rifornimenti in arrivo, salpò per cercare di intercettare Bomilcare e condurlo a destinazione e una volta incontratolo, riuscì a convincerlo che le loro flotte, insieme, avrebbero potuto battere i romani.
Marcello, informato di questa mossa potenzialmente disastrosa, e nonostante fosse in inferiorità numerica, decise di proseguire, aggressivo, contro entrambi. Forse perché non si aspettavano un attacco di questo tipo o forse per la rapidità del suo movimento, Bomilcare ed Epicide, decisero di evitare lo scontro.
Marcello aveva così evitato l’attacco congiunto dei cartaginesi e ottenuto la superiorità navale senza nemmeno combattere.
L’assalto finale all’Acradina e la morte di Archimede
A Marcello rimaneva solamente l’Acradina da espugnare e i siracusani, asserragliati, iniziarono a discutere violentemente sul da farsi.
Ippocrate era morto, Epicide era scappato e i cartaginesi decimati dalla pestilenza non potevano più portare alcun tipo di aiuto.
Così cominciarono ad arrivare a Marcello richieste di trattative. Consapevole che una parte degli asserragliati nella Acradina sarebbero stata consenzienti, Marcello lanciò l’ultimo attacco, quello decisivo.
Alcuni asserragliati aprirono le porte i romani, mentre delle sparute sacche di resistenza vennero rapidamente neutralizzate. Marcello diede il preciso ordine di non distruggere una delle città più belle del Mediterraneo: ai soldati romani fu consentito solo il saccheggio di tutte le ricchezze, senza fare del male alla popolazione.
Nel corso della presa dell’Acradina, avvenne il famoso episodio della morte di Archimede: su questo fatto storico, il principale narratore è Plutarco che ci tramanda almeno tre versioni.
Nella prima, un legionario romano entrò nell’abitazione di Archimede mentre questo era intento a svolgere alcuni calcoli: infastidito dalla presenza del soldato, Archimede avrebbe gridato: “Lascia stare i miei cerchi!” riferendosi ai disegni che stava tracciando nella sabbia. E il legionario adirato lo avrebbe trafitto con il suo gladio.
Una seconda versione vede Archimede “pregare“, il legionario di lasciargli portare a termine un compito matematico, ma il soldato non lo avrebbe nemmeno ascoltato, uccidendolo sul posto.
In una terza versione, Archimede si sarebbe arreso a Marcello. Ma, trasportando alcuni strumenti da far vedere agli scienziati Romani, alcuni soldati avrebbero scambiato quella attrezzatura per oro e pietre preziose, e avrebbero Archimede nel tentativo di impossessarsi del bottino.
Quello che sappiamo con certezza è che la morte di Archimede sconvolse particolarmente Marcello, il quale provvide personalmente a seppellire il grande scienziato, con il massimo degli onori.
La tomba di Archimede, secondo la tradizione, è ancora oggi visibile ma molto probabilmente si tratta solamente di una leggenda popolare, in quanto esiste una descrizione di Cicerone, che ci parla di una sua visita personale alla tomba di Archimede, e i dettagli raccontati dal grande oratore romano non corrispondono con il luogo oggi visitato.
Un grande colpo per Roma
La presa di Siracusa da parte dei romani costituisce una delle graduali rivincite che Roma stava incassando dopo la calata di Annibale in Italia. Le ricchezze di Siracusa rinfoltirono grandemente le casse del Senato Romano e contribuirono al finanziamento della guerra.
Ma soprattutto, permisero a Roma di conquistare un luogo strategicamente molto importante per il controllo del Mediterraneo, sottraendo ai cartaginesi una base di grande interesse geopolitico.