La brezza del Tevere porta ancora echi lontani, come un respiro che attraversa i secoli. Sotto la vista vigile dell’obelisco egizio innalzato nel centro di Piazza del Popolo, le voci della folla che un tempo animavano Roma sembrano tornare a vibrare nel marmo e nel vento. Ogni passo su queste pietre racconta una storia di potere e di popolo, di fede e di ribellione, di Roma antica e medievale, quando la piazza – allora non ancora come la conosciamo oggi – nasceva come spazio di incontro, di comunicazione e di trasformazione.
Nell’età classica questo luogo si trovava ai margini del Campo Marzio, territorio sacro a Marte, dio della guerra, dove i giovani si esercitavano alle armi e il popolo assisteva ai riti della città militare. Cicerone, nelle sue orazioni, esaltava la forza della parola pubblica nei contiones, le assemblee aperte che si svolgevano sotto il cielo romano: qui l’oratore e il cittadino si incontravano, e la voce del popolo – la vox populi – trovava lo spazio fisico e simbolico della sua espressione. In quel teatro civile, Roma imparò a riconoscersi come comunità politica. Secondo le traduzioni della Loeb Classical Library, è nei gesti e nelle grida di queste adunanze che nacque l’idea stessa di opinione pubblica, in un equilibrio fragile tra autorità e libertà.
Dopo la caduta dell’Impero, le stesse strade che avevano risuonato delle parole dei tribuni e degli appelli dei consoli si svuotarono. Le processioni religiose divennero le nuove voci collettive, come ricorda il cronachista bizantino Procopio di Cesarea, quando descrive le moltitudini che attraversavano la città portando reliquie e cantando inni per invocare la protezione divina. Le antiche piazze civiche si trasformarono in percorsi sacri: Roma non era più la capitale di un impero, ma la città della Chiesa, e la liturgia sostituì l’assemblea civile. Eppure, anche nel fervore religioso, rimaneva vivo quel bisogno di esprimersi insieme, di riunirsi per testimoniare, lodare o contestare: una continuità invisibile che univa la “piazza” ai tempi di Cesare e quelli di Gregorio Magno.
Fu nel XI secolo, con la costruzione della Basilica di Santa Maria del Popolo voluta da Papa Pasquale II, che l’antico margine divenne simbolo del nuovo centro spirituale e urbano. Il cronista medievale Pietro Mallio, nel suo Liber de Basilicae Urbis Romae, racconta che la chiesa fu eretta per scacciare le ombre del passato pagano: si credeva infatti che sul luogo sorgesse il sepolcro dell’imperatore Nerone, attorno al quale, secondo le leggende, si aggiravano spiriti e demoni. La distruzione del cipresso che cresceva sopra la tomba segnò, nella memoria collettiva, la cacciata del male antico e la nascita di un nuovo centro della devozione popolare. “Et populus Romanus exultavit, quia fugata est umbra infernalis”, si legge in una copia latina conservata presso la Biblioteca del Vaticano. Il popolo di Roma, insomma, gioì nel veder rinascere la propria città come luogo di luce.
Proprio dal termine populus venne attribuito, nei secoli, il nome alla piazza che si apriva di fronte alla chiesa: Piazza del Popolo, “la piazza del popolo”, ma anche “la piazza dei pioppi”, visto che il latino populus indicava entrambi. Quell’ambiguità linguistica conteneva già il destino simbolico dello spazio: tra radici naturali e voce collettiva, tra la permanenza della terra e la mutevolezza delle folle. Le cronache medievali inglesi, come la Historia Anglorum di Guglielmo di Newburgh, descrivono pellegrini provenienti dal nord che, giunti a Roma, si raccoglievano proprio qui per ascoltare le omelie o cantare inni comuni, in una Babele di lingue unite dal fervore religioso. Tra XII e XIII secolo, la piazza divenne quindi un crocevia di culture, un teatro spontaneo della cristianità itinerante.
Negli stessi secoli, l’eredità del foro romano sopravviveva nel linguaggio e nei gesti del popolo. Come hanno testimoniato autori antichi come Livio e Tacito, nelle versioni inglesi del Loeb, la tradizione di discutere in pubblico, di esprimere il consenso o il dissenso con acclamazioni o silenzi, non si estinse mai del tutto. I cronisti medievali raccontano come, durante i conflitti tra papato e baronato, anche la piazza fuori dalle mura divenisse il luogo dove i cittadini gridavano il proprio scontento o accoglievano le decisioni pontificie. La voce della città si fece così eco della politica, nei secoli in cui Roma cercava di trovare se stessa fra decadenza e rinascita.
Nel XIII secolo le processioni solennemente organizzate lungo le vie principali resero la piazza un punto di partenza e arrivo per i riti pubblici. I documenti tradotti del Liber Pontificalis narrano come il popolo e il clero, uniti, attraversassero questi spazi per celebrare le vittorie della fede o implorare la fine delle pestilenze. La coralità sostituiva il dibattito: un’unione di voci e canti al posto delle dispute oratorie. Ma la presenza massiccia di fedeli, e il loro ruolo attivo nel rito, trasformarono nuovamente lo spazio urbano in luogo di partecipazione. I teorici moderni parlerebbero di “spazio pubblico performativo”: allora, era la semplice materializzazione del bisogno umano di sentirsi parte di una comunità. Ogni passo, ogni inno, ogni sguardo elevato verso la cupola era un atto politico, anche se vestito di fede.
Il Medioevo fu anche il tempo in cui nacque una nuova concezione del silenzio e del rumore. Le testimonianze di monaci e cronisti, come quelle raccolte nelle traduzioni della Chronica Monasterii Casinensis, raccontano di una Roma divisa tra devozione e disordine, processioni e mercati, orazioni e mormorii. Piazza del Popolo non era solo un luogo sacro, ma anche un punto d’incontro per viandanti, mercanti e giullari, che qui trovavano un pubblico naturale. Un frate anonimo del XIII secolo annotava: “ubi confluebant voci et strepitus, ibi erat verus populus”, dove le voci e i rumori si radunavano, lì era il vero popolo. Il mercato e la celebrazione si fondevano, e nell’intreccio sonoro della piazza si costruiva una memoria collettiva, un’identità che non aveva bisogno di monumenti.
In età comunale, quando le città italiane cominciavano a governarsi da sé, lo spazio urbano tornò a essere teatro di decisioni civiche. Anche a Roma, benché il potere papale fosse dominante, esisteva una forma di rappresentanza dei cittadini – i senatori romani – che convocavano il popolo nelle grandi piazze. I cronisti di area lombarda, come Galvano Fiamma, ricordano i comizi e le assemblee popolari della Roma del XIII secolo come residui di un’antica libertà repubblicana, riaffiorata brevemente tra le pieghe della teocrazia. È qui che il concetto di “voce della strada” assume, per la prima volta, un senso politico medievale: non più l’eco del foro romano, ma il sussurro collettivo dei fedeli, dei mercanti, dei pellegrini – di chi viveva la città come corpo vivo.
Dal punto di vista architettonico, quella che oggi appare come una piazza ellittica perfettamente composta era allora una serie di spazi irregolari, distinti da terrapieni, orti e piccole strutture sacre. Solo secoli dopo, con Papa Sisto V e il progetto di Giuseppe Valadier, la piazza avrebbe assunto la forma armoniosa che conosciamo. Tuttavia, già nel Medioevo essa conteneva in potenza le sue funzioni future: soglia d’ingresso e specchio del potere, ma anche luogo di libertà. Lì dove sorgeva la chiesa, i fedeli si riunivano; dove passava la via Flaminia, gli ambasciatori facevano il loro ingresso; dove oggi il turista fotografa la perfezione prospettica, un tempo il pellegrino si inginocchiava e il venditore gridava il prezzo della sua merce.
Attraversando i secoli, Piazza del Popolo rimase sempre un’eco del rapporto tra la folla e il potere. Durante le processioni medievali, le benedizioni papali erano attese come segni tangibili; ma anche le mormorazioni dei laici – i “murmura plebis” evocati nei Dialoghi di Gregorio Magno – testimoniavano una tensione sotterranea. La piazza, luogo di incontro e di controllo, fu anche un campo di resistenza. La voce del popolo non taceva: si adattava, sussurrava, cantava. Roma, che aveva insegnato al mondo l’arte della parola pubblica, continuava a praticarla nella quotidianità dei suoi spazi.
Oggi, osservando il flusso di visitatori e artisti di strada che anima Piazza del Popolo, si può ancora percepire quella stratificazione millenaria. Il silenzio che precede un applauso, il passo del pellegrino, la risata improvvisa di un turista: tutto si intreccia come in una lunga sinfonia urbana. È la stessa musica che un tempo accompagnava i passi dei Romani e le preghiere dei fedeli. La voce della strada, che cambia lingua ma non significato, continua a risuonare.
In fondo, Piazza del Popolo non è solo una piazza. È una dichiarazione di identità collettiva, la prova che lo spazio pubblico, quando attraversato dal respiro della comunità, può trasformarsi in linguaggio. Dal foro romano alle processioni medievali, dalle grida dei tribuni ai canti dei penitenti, la piazza ha custodito il suono di una città che non smette mai di parlare. E mentre il tramonto tinge di rosso l’obelisco di Seti I e Ramses II, si può quasi sentire la voce antica che dice – come nei versi di Virgilio, tradotti in inglese nel Loeb Classical Library: “Vox populi, vox dei.” La voce del popolo, la voce di Dio. Forse è in quell’eco, sospesa tra Roma e Medioevo, che sopravvive l’anima eterna della città.
Fonti:
- Loeb Classical Library: Cicero – Orations; Livy – History of Rome; Tacitus – Annals; Virgil – Aeneid.
- Liber Pontificalis, traduzione inglese (1899, ed. Duchesne).
- Pietro Mallio, Liber de Basilicae Urbis Romae, trad. inglese 1903.
- Procopius of Caesarea, History of the Wars, trad. inglese H.B. Dewing, Loeb 1914.
- Chronica Monasterii Casinensis, trad. inglese 1921.
- William of Newburgh, History of English Affairs, trad. inglese Joseph Stevenson, 1856.
- Galvano Fiamma, Chronica universalis, trad. inglese annotata, 1902.

