Marco Furio Camillo (446-365 a.C) fu un generale e statista romano appartenente alla classe dei Patrizi. Secondo gli storici antichi Tito Livio e Plutarco, Camillo trionfò quattro volte contro i nemici dei romani, venne eletto per cinque volte dittatore e venne persino onorato del titolo di “Secondo fondatore di Roma”, dopo Romolo.
Giovinezza e primi incarichi di Marco Furio Camillo
Marco Furio Camillo nacque nel 446 a.C dalla Stirpe dei Furii Camilli, che erano originari della città Latina di Tusculum. Tusculum fu dapprima una acerrima nemica dei romani, ma già dal 490 a.C, quando le popolazioni appenniniche dei Volsci e degli Equi dichiararono guerra contro Roma, i tuscolani, a differenza della maggior parte delle città latine, offrirono il proprio supporto ai romani.
I Furii si integrarono molto presto nella società, cominciando ad essere ripetutamente eletti per una serie di cariche e magistrature via via sempre più importanti. Attorno al 450 a.C, i Camilli erano una delle più importanti famiglie romane, dotati di una profonda influenza sulla politica.
Il padre di Camillo era Lucius Furius Medulinus, un patrizio che era stato più volte nominato tribuno ed investito dei poteri consolari, mentre un altro parente di Camillo, Quintus Furius Paculus era stato eletto pontefice massimo, come ci racconta Plutarco.
In quel periodo, Roma era caratterizzata da una lotta tra classi sociali: da un lato i patrizi volevano tenere esclusivamente per loro il consolato, la più importante carica repubblicana, mentre i plebei premevano per poter accedere a questa fondamentale magistratura.
Una sorta di compromesso era stato raggiunto creando la figura del “tribuno consolare”: si trattava della carica meno prestigiosa del tribuno, e per questo più adatta ad una candidato plebeo, che aveva quasi gli stessi poteri di un console patrizio.
Il fatto che diversi appartenenti alla famiglia dei Camilli fossero riusciti a raggiungere la carica di tribuno consolare, dimostra il prestigio di cui godevano i parenti di Furio Camillo.
L’inizio della carriera militare di Furio Camillo
Camillo si era già distinto sul piano militare durante le guerre contro gli Equi e i Volsci. Venne eletto tribuno militare, mentre nel 403 a.C fu nominato censore assieme a Marco Postumio Albino. Durante la sua carica operò una ampia tassazione della popolazione per risolvere alcuni problemi finanziari che derivavano dalle incessanti e costosissime campagne militari degli ultimi anni.
Nel 406 a.C, Roma dichiarò guerra alla città etrusca di Veio, che già da diversi anni le contendeva il primato nel Lazio. La città di Veio era particolarmente sviluppata e si trovava in un luogo elevato e molto ben fortificato. Questo richiese ai romani l’inizio di un assedio che si prolungò per diversi anni.
Nel 401 a.C, mentre la guerra cominciava a diventare sempre più impopolare a Roma, e gli aristocratici iniziavano a domandarsi la reale utilità di quel conflitto, Camillo fu nominato tribuno con poteri consolari.
Assunse personalmente in comando dell’esercito e condusse in poco tempo due assalti a città vicine ed alleate di Veio, precisamente a Saleri e Capena, che opposero una strenua resistenza. Nel 398 a.C, Camillo riuscì a spezzare la resistenza di Capena e a saccheggiare la città.
Quando Roma subì delle gravi sconfitte, attorno al 396 a.C, nel decimo anno della lunga guerra contro Veio, i romani ricorsero alle abilità militari di Camillo, nominandolo dittatore e capo supremo dell’esercito.
Camillo sbaragliò i nemici nella battaglia di Nepete, una città oggi vicina a Viterbo, nel Lazio, e comandò l’assalto finale contro Veio.
Per ottenere questo straordinario risultato, Camillo ordinò di scavare il terreno per superare le mura nemiche: i romani furono in grado di infiltrarsi efficacemente attraverso il sistema fognario della città, sbucando all’interno del perimetro nemico e battendo gli avversari.
I romani riservarono a Veio un trattamento devastante: massacrarono l’intera popolazione maschile adulta e resero schiave tutte le donne e i bambini, saccheggiando la città.
Tornato a Roma, Camillo sfilò in processione e in trionfo su una quadriga, un carro trainato da quattro cavalli: i festeggiamenti popolari per la sua vittoria durarono per ben quattro giorni. Plutarco narra in maniera efficace la straordinarietà dei festeggiamenti riservati alla vittoria di Camillo:
“Camillo assunse su di sé sia poteri da magistrato civile che militare: nell’orgoglio e nella superbia del suo Trionfo, guidò per Roma un carro trainato da quattro cavalli bianchi, cosa che nessun generale né prima né dopo di lui fece. I romani considerarono questo tipo di processione un atto sacro, che veniva riservato solamente agli Dei. Ciò sconvolse i cuori dei suoi concittadini, che non erano abituati a tanta ostentazione.”
All’indomani della vittoria su Veio, la fazione politica dei popolari propose di trasferire la metà dei cittadini romani nella città appena conquistata. Questa operazione mirava a risolvere i gravi problemi di povertà che stavano affliggendo la popolazione, ma i patrizi si opposero fermamente a tale iniziativa, e anche Camillo diede parere negativo.
Con un’astuta mossa politica, Camillo prolungò volontariamente la votazione di questo provvedimento, impedendo che avesse attuazione.
Camillo si rese protagonista di un altro atto che danneggiò la sua reputazione: non ottemperò al giuramento di dedicare un decimo del bottino che aveva conquistato a Veio al santuario di Delfi in onore del Dio Apollo. I sacerdoti romani avvisarono che il suo diniego avrebbe dispiaciuto gli Dei, e così il Senato impose delle tasse straordinarie nei confronti dei cittadini per raccogliere rapidamente il necessario ad onorare la promessa di Camillo.
Dal momento che i Falerii, l’ultima grande popolazione ad opporsi alla crescente potere di Roma, stavano eseguendo delle nuove incursioni militari ai danni della città, Camillo venne nuovamente nominato tribuno consolare nel 394 a.C. Questo conflitto ebbe l’effetto di appianare momentaneamente il diverbio tra le diverse classi sociali di Roma, e unire tutti i cittadini contro un unico nemico comune.
Camillo assediò la città di Falerii e ottenne una nuova vittoria, ma questa volta non con la violenza.
In realtà, un traditore dei Falerii aveva proposto a Camillo di consegnargli la maggior parte dei ragazzi appartenenti alle famiglie aristocratiche della città, per spingere i suoi concittadini ad arrendersi. Camillo rifiutò sprezzante la proposta e il popolo dei Falerii, impressionato dalla grandezza del suo animo, decise di chiedere la pace a Roma.
Le popolazioni dell’intera penisola italiana vennero profondamente colpite dalle vittorie romane ottenute da Furio Camillo: anche gli Equi, i Volsci e la città di Capena inviarono degli ambasciatori per trattare la pace. Grazie all’intervento di Camillo, Roma aumentò il territorio sotto il suo controllo del 70%, e una buona parte della nuova terra conquistata venne distribuita ai cittadini più bisognosi.
Roma era così diventata la nazione più potente della penisola centrale.
L’esilio di Marco Furio Camillo
Nonostante le vittorie militari che avevano dato a Roma un nuova prospettiva, gli aristocratici iniziarono a muovere nei confronti di Furio Camillo delle accuse di appropriazione indebita: a Camillo venne contestato il fatto che nella città di Faleri non venne raccolto il bottino che ci si aspettava, e le accuse sospettavano che si fosse intascato gran parte delle ricchezze.
Inoltre, Camillo si era opposto alla redistribuzione delle terre che la popolazione romana aveva guadagnato conquistando Falerii, il che peggiorò ulteriormente la sua posizione politica.
Iniziarono dei processi contro Camillo per capire dove fosse finito il bottino: al termine del procedimento, Camillo venne riconosciuto colpevole e i magistrati gli proposero due opzioni, quella di pagare una multa o di andare in esilio.
Il generale, fortemente offeso dalle accuse mosse nei suoi confronti, scelse di abbandonare Roma, assieme alla moglie e a suo figlio Lucio, stabilendosi ad Ardea.
Camillo fu comunque condannato a pagare 1500 denari in contumacia.
Il ritorno dall’esilio e la guerra contro i galli di Brenno
Mentre Camillo si trovava in esilio, Roma dovette fronteggiare uno dei suoi peggiori nemici.
Le popolazioni dei Galli, che avevano già invaso gran parte dell’Etruria, raggiunsero la città di Clusium: gli abitanti di quel municipio si rivolsero immediatamente a Roma per chiedere un intervento militare. Gli ambasciatori romani, tuttavia, sottovalutarono il pericolo, provocando l’immediata reazione delle tribù galliche, che nel luglio del 390 a.C decisero di marciare direttamente contro Roma.
Dopo che l’intero esercito romano fu sconfitto nella battaglia dell’Allia, Roma si trovò indifesa di fronte agli invasori. L’intero esercito romano si ritirò nella deserta città di Veio, mentre la maggior parte dei cittadini scappò nella vicina città etrusca di Cere.
Una sola guarnigione romana oppose resistenza sul Campidoglio: i galli penetrarono all’interno della città, sfruttando le città vicine per ottenere continui rifornimenti.
Quando un distaccamento di Galli si diresse verso ad Ardea, Camillo, che viveva da cittadino privato, organizzò di sua iniziativa le forze locali per difendere la città. Camillo disse ai combattenti che stavano accorrendo in suo aiuto, che i galli erano soliti sterminare i loro nemici sconfitti senza alcuna possibilità di pietà, per ottenerne la piena collaborazione.
Camillo osservò pazientemente il comportamento dell’esercito avversario ed individuò il momento migliore per attaccare: durante i festeggiamenti per l’ultimo bottino conquistato, i galli si erano ubriacati nel loro accampamento, ed erano deboli ed indifesi.
Camillo attese la notte, li attaccò a sorpresa e li sconfisse facilmente con grande spargimento di sangue. Camillo fu immediatamente acclamato da tutti gli altri esuli della Regione.
Un messaggero si intrufolò nel Campidoglio e contattò i senatori, informandoli dei successi di Camillo: questi lo nominarono dittatore per un anno, con il compito di liberare la città dall’assedio dei Galli.
Ottenuto l’incarico ufficiale, e prendendo come base operativa Veio, Camillo radunò un esercito di 12 mila uomini, richiamando guerrieri da tutta la regione.
I galli erano riusciti nel frattempo a conquistare la città di Roma, e il loro comandante, Brenno, aveva trattato la resa con i generali romani. Le condizioni di pace per terminare l’assedio imponevano ai romani di pagare 1000 libbre d’oro.
Secondo la tradizione, per aggiungere al danno la beffa, Brenno si divertiva a modificare il peso delle bilance per umiliare l’avversario. E quando i romani osarono lamentarsi del suo comportamento scorretto, Brenno avrebbe gettato la sua spada e la sua cintura sulla bilancia gridando in latino, per farsi ben capire, “Vae victis!” ovvero “Guai ai vinti!”.
Secondo alcuni storici romani, esattamente in quel momento Camillo arrivò con il suo esercito, e dopo aver posato la sua spada sulla bilancia avrebbe replicato alla frase di Brenno: “Non con l’oro ma con il ferro si riconquista la patria!”, prima di dare ordine ai suoi uomini di attaccare.
Ne seguì una sanguinosa battaglia per le strade di Roma, ma l’esercito non riusciva a combattere efficacemente nelle stradine e nei vicoli. Per questo motivo, sia i galli che i romani, decisero di lasciare la città e di combattere in campo aperto il giorno successivo. L’esercito di Camillo fu all’altezza delle sue speranze e l’avversario gallico fu messo in rotta.
Per la sua straordinaria vittoria, e per aver di fatto salvato Roma, i concittadini acclamarono Camillo come un “secondo Romolo”, un secondo fondatore della città.
Camillo eseguì dei sacrifici in onore degli Dei per la vittoria che gli avevano concesso e ordinò La costruzione di un nuovo tempio in onore del Dio Aio Locutio.
Nel bel mezzo dei festeggiamenti, si aprì un dibattito importante: alcuni aristocratici proposero di trasferire tutti i romani a Veio, per poter ricominciare da lì la storia del loro popolo. Camillo ordinò che la proposta venisse discussa in Senato, e sostenne con grande forza la permanenza a Roma. Il Senato approvò all’unanimità la posizione di Camillo e ordinò la ricostruzione della città.
Camillo, memore delle motivazioni che lo avevano portato all’esilio, propose di dimettersi dalla sua posizione di dittatore anche prima che il suo mandato fosse terminato, ma il Senato, temendo possibili rivolte dal parte della popolazione, rifiutò la sua proposta e lo pregò di mantenere l’incarico fino a che la situazione non fosse tornata alla piena normalità.
In questo modo, Camillo fu il magistrato che ricoprì la carica di dittatore più a lungo, almeno fino a Silla e a Giulio Cesare.
La nuova guerra contro i Volsci e gli Equi
La ricostruzione di Roma durò, secondo il racconto di Plutarco nelle sue “Vite Parallele”, almeno un anno. Proprio durante quel periodo, le già sconfitte popolazioni dei Volsci e degli Equi invasero il territorio romano. Contemporaneamente alcune popolazioni latine si ribellarono, mentre gli etruschi assediarono la città di Satricum, che era da anni alleata dei romani. Per fare fronte a tale crisi, Camillo venne nuovamente nominato dittatore con pieni poteri militari.
Gli eserciti nemici assediarono direttamente Roma, e Camillo prese immediatamente in mano la situazione sconfiggendo la maggior parte degli invasori nella zona del Monte Marcio, dando fuoco alle loro palizzate e compiendo un attacco durante le prime ore dell’alba.
Successivamente, l’esercito di Camillo si spostò verso sud-est per affrontare i Volsci nella battaglia di Mecio, non lontano dalla città di Lanuvio e ottenne un’importante Vittoria. Camillo potè quindi catturare la città di Bola, la capitale degli Equi, ottenendo la loro resa incondizionata.
Camillo cercò poi di conquistare la capitale dei Volsci, Anzio, ma questa volta non ottenne successo.
Il generale romano riuscì però a conquistare Satricum: quando giunse sul luogo con il suo esercito, la città era stata appena scacciata dagli Etruschi. Camillo utilizzò la stessa tecnica che aveva avuto successo contro i galli: attese che gli etruschi si lasciassero andare a festeggiamenti, e condusse un attacco a sorpresa, battendoli facilmente.
Dopo questa ulteriore campagna vittoriosa, il dittatore celebrò il suo trionfo a Roma. Attraverso le sue imprese, i romani avevano dimostrato a tutta l’Italia la loro forza militare e la loro capacità di reagire agli attacchi.
Il tribunato consolare
Nel 384 a.C, Camillo venne nuovamente eletto tribuno consolare. La sua carica fu turbata dal carismatico Marco Manlio Capitolino, che divenne il suo più grande detrattore e che era riuscito a radunare accanto alla sua figura tutti i plebei che desideravano un riscatto sociale.
Capitolino utilizzò un attacco politico estremamente pericoloso per Camillo: iniziò ad accusarlo di voler assumere la carica di Re, qualcosa che i romani tenevano profondamente sin dalla fine della monarchia.
Per fortuna di Furio Camillo, la sua accusa apparve talmente esagerata che Capitolino fu processato e giustiziato.
Ma nuovi venti di guerra si preparavano contro Roma: le tribù latine meridionali disprezzavano il comportamento che i romani avevano tenuto nell’ultima campagna militare. Anzio e molte città dei Volsci si riunirono in una Confederazione, comprese le città latine Preneste e Velitrae.
I nemici attaccarono la città di Satricum, uccidendo tutti i cittadini romani. Per questa nuova e pericolosa crisi, Camillo fu nominato tribuno consolare per la sesta volta.
La salute di Camillo iniziava a dare segni di cedimento, e il generale chiese di poter andare in pensione. La sua proposta venne tuttavia rifiutata dal Senato, che aveva bisogno ancora una volta del suo intervento.
Camillo decise allora che il suo comando sarebbe stato affiancato dal figlio Lucio: sul campo di battaglia Lucio cercò di comportarsi come un bravo generale, ma la complessità delle azioni militari era tale che Camillo fu costretto ad intervenire personalmente per sconfiggere il nemico.
Camillo si diresse poi a Satricum con il suo esercito e la città fu finalmente liberata.
Dal momento che molti prigionieri di guerra provenivano da Tuscolo, Camillo scelse di annettere la città senza ulteriore spargimento di sangue, e anzi i suoi cittadini furono dotati dei pieni diritti della cittadinanza romana. Questo trattamento di favore fu certamente dovuto al fatto che la stessa famiglia di origine di Camillo proveniva proprio da Tuscolo.
Dopo questi eventi, Camillo decise che si sarebbe ritirato definitivamente a vita privata.
La nuova carica di dittatore contro Velletri
Nonostante le sue intenzioni, Camillo venne nuovamente nominato dittatore per condurre la guerra contro Velletri. Ma le continue nomine a favore di Camillo avevano anche una finalità politica: i patrizi del Senato progettavano di utilizzare Camillo come leva contro le agitazioni dei plebei, dal momento che il conflitto tra le classi sociali era notevolmente peggiorato a causa di una grave crisi economica.
Il tema della possibilità da parte dei plebei di poter concorrere per il consolato era tornato violentemente alla ribalta: Camillo si schierò nuovamente dalla parte degli aristocratici e organizzò una falsa leva militare per impedire ai plebei di incontrarsi nelle assemblee e approvare un nuovo proposta di legge in tal senso.
I membri dell’assemblea plebea si accorsero delle macchinazioni di Camillo e proposero di punirlo costringendolo a dimettersi dalla sua carica di dittatore.
Ma appena giunta la notizia che i galli erano nuovamente in marcia verso il Lazio, tutti i cittadini misero da parte le loro divergenze: Camillo venne nominato dittatore per la quinta volta nel 367 a.C, e gli fu dato il compito di organizzare immediatamente la difesa di Roma.
Per iniziativa di Camillo, tutti i soldati romani furono dotati di una nuova armatura protettiva contro la più pericolosa arma Gallica, la loro spada pesante. Vennero infatti introdotti degli elmi di ferro e degli scudi cerchiati di ottone per resistere ai fendenti degli avversari.
Inoltre, Camillo dotò l’esercito romano di lunghe aste per poter tenere le spade del nemico a debita distanza.
L’esercito dei Galli si accampò presso il fiume Anio, carico del bottino appena catturato dalle città che avevano incontrato sul loro percorso. Posizionando le sue spie nei pressi dell’avversario, vicino ai Colli Albani, Camillo scoprì nuovamente la disorganizzazione dei Galli, dovuta alle continue feste in cui erano intenti.
Così, appena prima dell’alba, la fanteria leggera dei romani distrusse le difese galliche mentre la fanteria pesante e i picchieri attaccarono il nemico, facendone strage.
Dopo la battaglia, Velitrae decise di arrendersi volontariamente a Roma. Così Camillo potè tornare nella capitale per festeggiare un altro trionfo.
La soluzione del conflitto sociale e la morte di una leggenda
Dopo questa ennesima vittoria, la questione relativa al consolato per i plebei riesplose. I Patrizi si rifiutavano di scendere a compromessi e cercarono nuovamente protezione dietro la figura di Camillo. A questo punto, i plebei proposero addirittura di arrestare il dittatore, ma questo convocò tempestivamente una seduta del Senato e lo convinse a cedere finalmente alle richieste popolari.
Venne così emanata una delle più importanti leggi dell’intero diritto romano, la Licina Sextia, del 367 a.C, con cui finalmente anche i plebei potevano concorrere alla carica di console. Fu Inoltre creata una nuova magistratura aperta sia ai patrizi e ai plebei, la pretura.
L’istituzione della nuova magistratura venne seguita da celebrazioni di gioia generale: Camillo, che con il tempo aveva capito l’importanza di includere i plebei all’interno delle più alte cariche della Repubblica, ordinò la costruzione del Tempio della Concordia, che sarebbe sorto accanto al Foro romano.
Arrivato ad un età matura, furio Camillo rimase come uno dei Padri nobili della politica romana. Ma una mortale pestilenza che colpì Roma e decimò molti dei notabili e degli aristocratici, portò via anche Camillo, che morì nel 365 a.C.
La sua morte venne pianta amaramente da tutta la cittadinanza romana, che lo nominò, per sempre, “Secondo fondatore di Roma”.