C’era un tempo, non così lontano, in cui Pompei si svegliava con il canto degli uccelli e si addormentava con il sussurro del vento tra le tegole, sospesa nel limbo tra la grandezza di Roma e la furia improvvisa di un Vesuvio silenzioso. Ma ciò che rende Pompei immortale non sono le sue rovine, ma quella pulsazione antica, il respiro di una città operosa e indomita, che la fece diventare il simbolo della vitalità estenuante e mai domata dei suoi abitanti.
Per capire davvero cosa significasse vivere a Pompei bisogna immergersi nell’intreccio dei suoi vicoli alla luce dell’alba, percepire l’odore di pane fresco che si spande dai forni, ascoltare il vociare dei mercanti e il passo affrettato degli schiavi che trasportano anfore di vino, contenitori di olio e casse di frutta. Sin dalle prime ore del giorno, appena la luce rosata del mattino lambiva il selciato delle strade principali, la città riprendeva vigore. Pompei, già nel VI secolo a.C., era crocevia di genti mercanti e popoli diversi, un mosaico umano in cui convivevano Osci, Greci, Etruschi, Sanniti e, infine, i Romani. Secondo Strabone, questa pluralità etnica riviveva in ogni piazza, in ogni mercato, nei riti pubblici e domestici che scandivano la vita cittadina.
Nonostante l’assenza di energia elettrica e le notti rischiarate solo dalle fioche lucerne d’olio, la città era governata dai ritmi della natura, ma nulla nel suo ticchettio era noioso o ripetitivo. Anzi, Pompei sprigionava ovunque vitalità, rumore, movimento. I suoi abitanti erano abituati a svegliarsi alle primissime ore, intorno all’hora prima diurna quando il sole iniziava appena a salire e le botteghe venivano aperte dai negozianti, uomini e donne di ogni ceto. Le fontane pubbliche diventavano così il cuore pulsante della città: lì si radunavano schiavi, bambini, matrone per attingere acqua, per scambiare brevi saluti, per origliare pettegolezzi o semplicemente lavarsi il volto. L’acqua corrente nelle domus era un lusso di pochi, la maggior parte ricorreva ai fontanili, ai bagni pubblici, alle terme.
Era nelle terme che la città trovava il suo vero centro di aggregazione. Non si trattava solo di igiene, ma di socialità, di politica, d’affari e piaceri. I cittadini si incontravano nelle grandi sale termali per discutere di contratti, per stringere amicizie, per allenarsi nei ginnasi. Lo stesso motto “mens sana in corpore sano” assumeva qui un significato tangibile: le terme erano palestra del corpo e della mente, integrate nella routine di uomini liberi e schiavi, di patrizi e plebei. Ognuno trovava a Pompei il proprio spazio nella scena urbana, a partire dalle terme, cuore d’una socialità che faceva della città il centro di una piccola rivoluzione quotidiana.
Al volgere dello sguardo verso il foro – il grande cuore amministrativo e commerciale – si incontravano magistrati, clienti, venditori, avvocati, mendicanti. Il foro era il crocevia di tutte le attività, dove pubblico e privato si mescolavano, dove il potere si esercitava non dietro porte chiuse, ma alla luce del sole e del giudizio popolare. Le iscrizioni osche e latine, i graffiti innalzati dalle mani anonime, mantenevano vivo il ricordo di una città dialettica e combattiva, capace di dibattere con passione questioni pubbliche e personali davanti allo sguardo di tutti. In tal senso Pompei rifletteva la polifonia del Mediterraneo, accogliendo usi, costumi e persino credenze religiose provenienti da ogni angolo dell’Impero.
L’universo dei mestieri, delle arti e dei commerci era sterminato. Qui ogni strada era costellata di botteghe: fabbri, ceramisti, panettieri, tessitori, tintori, vetrai, banchieri. Le iscrizioni ci restituiscono orgoglio di categorie intere: “Seavus Faber ferrarius”, “Crispus Panificatore”, “Aulius il tintore”. La città era un grande laboratorio, e ognuno era protagonista di una storia fatta di fatica, intelligenza e occasioni, come mostrano le tavolette cerate rinvenute nella casa di Lucio Cecilio Giocondo, banchiere che amministrava crediti e affari della comunità. L’artigianato pompeiano, oltre che sulle esigenze locali, si reggeva anche sulle esportazioni: le anfore pompeiane giungevano nei mercati di Roma, i tessuti e i vini erano apprezzati in tutto il golfo. Un’attività febbrile, testimoniata anche dalle tracce lasciate dagli strumenti di lavoro ritrovati sotto le ceneri.
Il cibo a Pompei racconta l’ingegno e la biodiversità di un popolo abituato all’abbondanza ma anche all’ingegno. Plinio il Vecchio, nella sua opera monumentale, elenca le decine di varietà di frutta e verdura usate dagli abitanti, dalla lattuga ai cavoli, dai legumi ai meloni. Il pane, diffuso già dal II secolo a.C., era fondamentale e prodotto nei numerosi forni disseminati per la città. Olio, vino, pesce e carni erano i cardini della dieta, con grande attenzione alle conserve e alla stagionalità. Le cene, raccontate nelle iscrizioni e nei testi poetici, erano veri rituali sociali: nei triclini, sdraiati secondo usanza aristocratica, i convitati gustavano antipasti di uova e ostriche, pietanze di pesce, carne, dolci e frutta, annaffiando il tutto col vino, spesso speziato o corretto con miele.
Dal punto di vista sociale Pompei rifletteva una stratificazione molto netta. L’ordine romano era squadrato in liberi, liberti e schiavi, ma la mobilità fra le classi era possibile. Gli schiavi potevano affrancarsi, i liberti divenire ricchi commercianti, i cittadini eleggibili alle cariche pubbliche se abbastanza influenti o generosi verso la comunità. Le iscrizioni e le dediche votive ne testimoniano l’orgoglio e le ambizioni: molti ex schiavi donarono monumenti ai Lari del proprio quartiere, lasciando incisa la traccia del proprio riscatto sociale.
La religiosità pompeiana era incredibilmente sincretica. La presenza di templi dedicati ad Apollo, a Venere Pompeiana, a Iside testimonia un pantheon dove divinità italiche, greche, egizie convivevano e si fondevano. Le edicole dedicate ai Lari tutelavano ogni incrocio, mentre nei larari domestici si compivano offerte quotidiane per proteggere la famiglia. La dimensione spirituale si respirava ovunque, tra le statue, i rilievi, le pitture che adornavano case e piazze. Alcune iscrizioni pubbliche parlano di processioni annuali, giochi religiosi, riti misterici che coinvolgevano indistintamente ricchi e poveri, uomini e donne, cittadini e stranieri.
Sul fronte dei divertimenti, Pompei non aveva rivali. Dall’anfiteatro – tra i più antichi del mondo romano – si udiva il ruggito della folla entusiasta, assetata di spettacoli cruenti, combattimenti di gladiatori e cacce di animali. Il celebre scontro del 59 d.C., raccontato da Tacito, provocò talmente tanto clamore e violenza da indurre il senato di Roma a sospendere i giochi per diversi anni. Tuttavia i pompeiani, come testimoniano numerosi graffiti, non persero mai il gusto dello spettacolo, che fosse teatrale, musicale o sportivo. Innumerevoli sono infatti le testimonianze di attività ludiche, giochi d’azzardo, musiche e danze, vissute sia nei luoghi pubblici che nelle case private più lussuose.
Il tempo libero tuttavia non era appannaggio di tutti: per molti, la giornata era una corsa fra mille piccoli lavori, riparazioni e commissioni. Le strade restavano “accese” per molte ore, animate da un’energia inesauribile. Solo verso il tramonto, Pompei vestiva una nuova atmosfera: le domus si illuminavano di candele, le strade divenivano più rischiose e la maggior parte degli abitanti si ritirava nella sicurezza della famiglia. Ma la notte, che in apparenza suggeriva silenzio, portava con sé nuove opportunità per chi cercava piaceri o fortuna. Talvolta, le locande e i lupanari restavano aperti, accogliendo chi desiderava prolungare il giorno oltre il naturale ciclo del sole.
Un aspetto particolarmente affascinante è quello dell’alfabetizzazione e della scrittura. Pompei è la città dei graffiti: ogni muro, ogni ingresso di casa, ogni colonna era uno spazio da occupare con messaggi d’amore, insulti, proclami politici, pubblicità per spettacoli o per le elezioni. Sono migliaia le frasi incise nella pietra da mani ignote: “Salve, guadagno!”; “Amo Asellina”; “Venite a vedere il nostro spettacolo!”. Attraverso di esse, Pompei rivive come una moltitudine di voci anonime, che resistono alla cancellazione del tempo.
Non manca la percezione del pericolo e della fragilità. Le fonti ricordano il terribile terremoto del 62 d.C., che devastò la città molto prima della grande eruzione. Gli edifici in parte crollati furono ricostruiti con energia, gli abitanti non abbandonarono mai la , continuando a vivere e a credere nel futuro. Pompei, seppure funesperanzastata da disgrazie, seppe sempre rialzarsi, reinventarsi, mantenere quella spinta vitale che la rese famosa fra le città della Campania.
Ogni gesto quotidiano – accendere un fuoco, cuocere il pane, affilare un coltello, lavare una tunica – assumeva un valore sociale, collettivo. La giornata pompeiana era fatta di innumerevoli piccoli riti che rafforzavano l’identità della città. Quello che si respirava tra i colonnati delle strade, nei mercati, davanti alle fontane era un senso di comunità profondo: Pompei non dormiva mai, perché ogni suo abitante aveva qualcosa da fare, qualcuno da amare, un piacere o un dovere a cui dedicarsi.
Poi, improvvisa, la fine. Negli scritti di Plinio il Giovane, un ragazzo in fuga da Stabia, i momenti dell’ultima eruzione si accendono come lampi. Il cielo si fa nero, la cenere comincia a cadere, il giorno si spegne. Ma l’ultimo ricordo che Plinio lascia tra le righe è quello di una città ancora viva, dove la preoccupazione e la solidarietà si mescolano, dove nessuno ha smesso di sperare o di aiutare il prossimo, dove ogni sussurro della notte sembra voler rimandare il sonno eterno.
Così Pompei ci ha regalato un’eredità fatta di passione, di creatività, di resistenza. Chi parla di Pompei oggi non può fare a meno di vedere, tra le sue pietre, non solo la morte ma soprattutto la celebrazione della vita. E, forse, proprio qui si cela il segreto della “città che non dormiva mai”: la consapevolezza che la grandezza di una civiltà sta nella somma dei piccoli gesti, nella capacità di vivere ogni giorno oltre il tramonto, pronti a ricominciare ancora e ancora.
Oggi chi passeggia tra i resti di Pompei potrebbe immaginare il rumore del mercato, il canto di una madre, il grido di un venditore, lo sguardo innamorato di due giovani su una soglia. Pompei, città che non dormiva mai, continua a vivere nel ritmo instancabile della curiosità umana: esempio e monito che ogni istante, anche il più banale, può diventare eterno nelle mani della storia.
Fonti:
- Isidoro di Siviglia, Etymologiae 15.1.51 (origini del nome Pompei e trionfo di Ercole)
- Servio, Commentario all’Eneide di Virgilio VII 662 (processione trionfale di Ercole a Pompei)
- Strabone, Geografia 5.4.8 (composizione multietnica e descrizione urbanistica della città)
- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 3.60-62; 17.26; 18.12, 19.24 (popolazione della Campania, agricoltura, alimenti)
- Tacito, Annali 14.17 (rissa all’anfiteatro e sospensione dei giochi)
- Lettere di Plinio il Giovane (testimonianza diretta dell’eruzione del 79 d.C.)
- Graffiti, iscrizioni osche e latine, tavolette cerate, fonti raccolte in “Pompeii and Herculaneum: A Sourcebook”, Alison E. Cooley & M.G.L. Cooley, Routledge 2014