Storia dell’alcol: banchetti e sbronze, dalla Mesopotamia al Medioevo
Era notte fonda a Babilonia quando si accendevano le lanterne delle taverne e il profumo di birra e datteri invadeva le strade. I poeti dell’antichità hanno spesso raccontato scene di euforia in cui la socialità si dissolveva nell’esaltazione dell’alcol, elevando il bere forte a rituale, a linguaggio della celebrazione collettiva. Anche oggi, nel riverbero delle luci urbane sui bicchieri, nel tintinnio che anticipa la notte, si avverte un’eco della stessa ricerca di piacere e perdita, legata indissolubilmente alla cultura umana. La storia dell’alcol è storia di eccessi, sbronze e riprese; un racconto di identità, potere e trasgressione che dagli antichi banchetti sumerici e romani giunge fino a noi, attraverso millenni e civiltà. Se l’infanzia del bere si perde nell’archeologia delle anfore e delle tazze, già il primo sorso di birra o vino fondeva godimento individuale e appartenenza al gruppo, offrendo alle comunità la possibilità di conoscersi in modo diverso e profondo.
La Mesopotamia traccia il suo legame con l’alcol tra tavolette d’argilla e codici di legge. Nell’antica Uruk e a Babilonia, bere era parte della quotidianità, ma anche della spiritualità. La birra, prodotta con orzo e talvolta aromatizzata con datteri, costituiva alimento e dono agli dèi. Nel poema di Gilgamesh, leggendo le traduzioni dal cuneiforme in inglese, si incontra la figura di Enkidu, il selvaggio che scopre la civiltà attraverso il potere del vino e della birra: “mangiò pane, bevve birra, diventò uomo”. Lo stesso Codice di Hammurabi disciplinava la vendita della birra nelle taverne, vietando le frodi ma non l’ubriachezza. Le taverne, luoghi spesso malfamati e di confusione, erano crocevia di commerci, piaceri e festeggiamenti. Il banchetto, anche qui, rappresentava lo spazio per eccellenza dove l’individuo si univa agli altri, spingendo i limiti della sobrietà verso l’ebbrezza. Nelle cronache sumere, si racconta che “chi non serve il vino agli dèi, lo berrà con la morte”, un modo per ricordare la fragilità umana e l’importanza della misura.
Anche nell’Egitto faraonico, la birra era considerata pane liquido, essenziale per la sopravvivenza di ricchi e poveri. Secondo le fonti antiche, la figura di Osiride come inventore del vino e della birra attribuiva a queste bevande un valore spirituale profondo. Le anfore di birra e vino, trovate intatte nelle tombe dei sovrani e dei dignitari, testimoniavano la convinzione che all’alcol fosse affidato il compito di “accompagnare il defunto nel cammino verso l’eternità”. Nel papiro di Ptahhotep, tradotto dagli studiosi inglesi, si ammonisce il giovane: “non lasciarti prendere dal vino, perché la mente si perde e il cuore si tradisce”. Tuttavia, la storia egiziana non manca di racconti sulfurei e banchetti spettacolari, in cui la sbronza era considerata una sorta di rito di passaggio; l’iniziazione alle gioie e ai rischi della vita adulta.
Quando si passa alla civiltà greca, il bere diventa qualcosa di raffinato, filosofico e rituale. Il simposio era il vero laboratorio dell’ebbrezza, luogo dove si celebrava il vino — sempre diluito con acqua —e si discuteva di poesia, politica e amore. Bere puro era considerato da Omero e dalle fonti arcaiche una barbarie, abitudine dei popoli “al di là della civiltà”, che trasporta l’uomo dalla razionalità all’animalità. Le feste di Dioniso, in particolare, incarnavano la dialettica tra ordine e caos: nelle Baccanti di Euripide, le danze folli e la perdita del controllo sono descritti come momenti di divina epifania. Il vino liberava, ma anche puniva. Platone elogiava la temperanza anche nei banchetti: per lui, la virtù era saper bere senza perdere la padronanza di sé. Alcibiade, secondo la tradizione, incarnava lo spirito dell’eccesso greco: amava l’alcol e i banchetti, ma la sua fine tragica suggella il messaggio di cautela che attraversa la cultura ellenica.
Nel mondo romano, il vino e il bere forte sono, da subito, strumenti di distinzione sociale e simboli di potere. All’inizio, la Repubblica predilige la moderazione, la frugalità delle campagne e dei legionari, celebrando la “virtù dell’acqua” e condannando l’alcol come vizio orientale. Catone il Censore è il modello di questa austerità. Ma la conquista della Grecia e dell’Oriente muta le regole: arrivano vini speziati dall’Egeo, uve rare dai confini della provincia, e il lusso invade la tavola romana. Le fonti come Svetonio e Plinio il Vecchio, nelle loro versioni inglesi antiche, narrano di banchetti sontuosi dove le coppe traboccano e i patrizi si distinguono per la quantità di vino consumata. Le Baccanali, importate dalla cultura greca, si trasformano in occasioni di estasi e disordine, tanto che il Senato decide di limitarne la diffusione con il famoso decreto del 186 a.C..
Negli ambienti aristocratici, il banchetto diventa spettacolo e prova di forza: chi resiste più a lungo si guadagna rispetto e fama. Petronio fotografa la decadenza della Roma imperiale — nei suoi scritti emerge la figura del “vomitorium”, ambiente destinato agli eccessi e alle sbronze controllate. L’alcol diventa talvolta una metafora politica: la sbronza di Marco Antonio raccontata da Cicerone diventa simbolo della decadenza morale di chi si lascia travolgere dal piacere personale a scapito della tutela pubblica. Tuttavia, nelle fonti stesse si nota che la condanna del vizio non è mai totale. Anche nelle stagioni di rigore, il vino è celebrato come alimento sacro e come medicina: Seneca dice che “la sobrietà può essere virtù solo se si conosce l’ebbrezza”.
Nella vita popolare romana le taverne sono il cuore pulsante della socialità. Il Trastevere e l’Esquilino pullulano di osterie dove si mescolano schiavi, mercanti e liberti. Il vino, spesso annacquato e di bassa qualità, è sinonimo di evasione dalla routine, di allegria condivisa in una società frammentata. In alcune fonti si parla di “vino per il popolo”, economico, accessibile, che segna il confine fra il festino sena e il banchetto aristocratico. Eppure proprio nelle taverne nascono le prime critiche sociali all’eccesso: chi eccede nel bere è additato nei graffiti come perdigiorno, come “ebrius sceleratus”, ribelle e controproducente. Il vino unisce, ma divide anche.
L’avvento del cristianesimo sposta radicalmente il significato del bere: il vino cessa di essere simbolo di eccesso, diventa veicolo di sacralità. Nella Cena del Signore, la narrazione evangelica — nelle traduzioni ufficiali — trasforma il vino in elemento mistico, sangue di redenzione e strumento di alleanza. I Padri della Chiesa non vietano il bere, vietano la sbronza: San Paolo, nelle sue lettere, invita a bere “con misura, per il bene dello stomaco”, ma condanna la perdita di sé nell’ebbrezza. Così l’alcol diventa ponte fra antico e nuovo, fra la cultura pagana dei banchetti e la spiritualità cristiana. Ma intanto, fuori dalle chiese e dai monasteri, la fermentazione continua ad essere un’attività quotidiana e profana: i monaci stessi perfezionano tecniche di distillazione, dando avvio all’era dei liquori e degli aqua vitae, che perpetuano il dilemma fra piacere e regola.
Nel Medioevo, le abbazie sono il nuovo laboratorio dell’alcol: la birra, censita e regolata dai monaci, si affina in gusto e qualità. La vigna di San Martino di Tours diventa simbolo di quell’alcol che non è più strumento di disordine, bensì di coesione sociale. Eppure anche fra le mura del monastero si nascondono storie di eccessi e di sbornie rituali, trasmesse come ammonimento ai novizi. In alcune cronache, si racconta dell’ebbrezza del monaco che “si scorda le preghiere e la regola”, segno che la tentazione del bere è universale. Pure qui, il bilanciamento fra virtù e piacere è la chiave del vivere civile.
La narrazione storica dell’eccesso prosegue nei secoli, radicandosi nelle leggi e nelle condanne morali. In Grecia, le prime norme contro la sbronza pubblica risalgono all’epoca classica: chi si ubriacava durante le celebrazioni religiose era soggetto a sanzioni e veniva escluso dalle competizioni sportive. Nell’Egitto dei faraoni, la sbronza eccessiva era severamente stigmatizzata: nei papiri medici si parla di “follia dell’ubriaco”, come malattia non solo fisica, ma anche sociale. In Roma, la condanna è esplicita nei discorsi di Cicerone e nelle satire di Giovenale, che vedevano nell’ebbrezza il tradimento dell’ideale civico.
Eppure, nonostante le condanne, le testimonianze sono chiare: l’eccesso era parte integrante della festa e del banchetto. Si partecipava per vedere, per resistere, per superare i limiti umani. Sotto il controllo degli anfitrioni, il banchetto diveniva una gara fra commensali, dove cibo e vino misuravano la virilità e la resistenza. Le fonti sumeriche parlano di re e regine che, ubriacandosi, rinnovavano il patto col divino, celebravano il potere e la fertilità. Le cronache greche narrano di simposi memorabili, dove filosofi e guerrieri si sfidavano non solo con le parole ma con la capacità di resistere all’alcol.
Nel cammino della storia, bere forte e la sbronza hanno accompagnato il senso del sacro, lo smarrimento della ragione, la scoperta dell’altro. L’ebbrezza era soglia e avvertimento: “in vino veritas”, dicono i latini, ma anche “ubi vinum ibi sensus perit”, dove c’è vino perde il senso. Nella società antica, nessun piacere era privo di rischio, nessun eccesso senza conseguenze. Eppure il rito collettivo del banchetto — tra taverne sconosciute e sale dorate — insegnava che perdere i limiti era un modo di ritrovare se stessi, di misurare il desiderio e la paura, la grandezza e la fragilità umana.
Il racconto di alcol, eccessi e sbronze tra taverne e banchetti rivela che la storia del bere forte è fatta di rituali e trasgressioni, di regole infrante e limiti ricercati. Ma sopra tutto, c’è la volontà di condividere: il bicchiere e il calice sono sempre ponti fra mondi, fra identità e generazioni. Conoscere questa storia non è solo esercizio erudito, ma occasione per riflettere su ciò che siamo — e ciò che potremmo diventare.
Nel crepuscolo antico, quando le luci si spegnevano sulle tavole imbandite e lo stordimento svaniva, restava il silenzio. Un silenzio che parla ancora oggi, fra i bicchieri rovesciati e le ombre della sera, ricordandoci che ogni sbronza è anche attesa, ogni eccesso una domanda sulla misura. Bere forte, forse, era un modo per riconoscere la propria vulnerabilità, un gesto che sopravvive — tra memoria e desiderio — nelle taverne di tutti i tempi.
Fonti primarie:
- David J. Hanson, History of Alcohol and Drinking around the World, traduzioni ufficiali di testi antichi inglesi
- The Ancient Mesopotamian Tavern (AOS 2009), traduzioni accademiche tavole sumere e babilonesi
- Poema di Gilgamesh, traduzione inglese
- Papiri di Ptahhotep, traduzione ufficiale
- Plutarco, Vita di Alessandro, traduzione inglese
- Platone, Simposio, traduzione inglese
- Seneca, De Vita Beata, traduzione inglese
- Svetonio, Vite degli imperatori, traduzione inglese
- Petronio, Satyricon, traduzione inglese
- Lettere di San Paolo, traduzione ufficiale
- Euripide, Baccanti, traduzione inglese