Medici, maghi e ciarlatani: incredibili rimedi nella Roma imperiale

Roma e la sua Arte

Di notte, sui vicoli silenziosi della Suburra, tra ombre danzanti di fiaccole e miasmi che serpeggiano dagli acquitrini, un malato tenta il tutto per tutto rivolgendosi prima a un medico, poi si fa tentare dai sussurri di un mago e infine cede alle promesse di un ciarlatano. La scena non è inventata: nella Roma imperiale, il confine tra cura, superstizione e inganno era tanto labile quanto la speranza di sopravvivere a una febbre improvvisa o a una ferita infetta. In questa città che fu crocevia di popoli e idee, la ricerca della salute si colorava di rimedi straordinari, spesso assurdi, in un continuo confronto tra scienza, magia e truffa.

La medicina a Roma nacque tra i campi e le tradizioni orali della gens, affidata ai capifamiglia e alle donne che, con ricette tramandate di madre in figlia, tentavano di domare i malanni ordinari. Prima dell’arrivo della scienza ellenistica, domandare la guarigione era proprio della religione: a comandare era il favore delle divinità come Salus, Carna e Febris, e negli altari domestici si depositavano offerte e preghiere, invocando la sospensione del dolore. La medicina primitiva si affidava ai riti, ai filtri, ai bagni purificatori, alle parole incomprensibili sussurrate nel buio—un universo dove la guarigione si confondeva con l’esorcismo.

Le testimonianze di Catone il Vecchio sono un compendio di questi saperi arcaici. Nel suo manuale pratico per il buon paterfamilias, il “De Agri Cultura”, raccomanda la foglia di cavolo pestata per lenire i dolori delle articolazioni, la radice di melograno cotta nel vino per scacciare i vermi intestinali, infusi di finocchio contro il mal di testa e, soprattutto, celebra la supremazia dell’autocura rispetto ai medici stranieri. È una fiducia quasi religiosa nelle virtù contadine, che però mostra presto i suoi limiti davanti alle malattie più gravi e misteriose.

Proprio nel corso del I secolo a.C., con la conquista di territori e la fusione di culture, la città eterna vide un rapido fiorire della medicina scientifica greca. Personaggi come Asclepiade di Bitinia, Aulo Cornelio Celso e, più tardi, Galeno, portarono a Roma la pratica della diagnosi ragionata, della dissezione e della classificazione delle terapie. Celso, nel suo celebre “De Medicina”, codifica terapie razionali e innovative, come l’uso del salasso, dell’alimentazione bilanciata, del movimento come prevenzione e di interventi chirurgici efficaci; eppure perfino lui non rigetta del tutto l’uso di talismani e amuleti, la recitazione di formule di buon auspicio e l’invocazione degli déi durante le operazioni.

Eppure, anche nei momenti di massimo splendore della scienza, la città pullula di ciarlatani. Nei crocicchi e nei vicoli, soprattutto tra le classi popolari, prosperano improvvisati guaritori—barbieri, flebotomi, venditori di pomate e sanguisughe—e, come scrive Cicerone, “ad ogni ora del giorno esibiscono unguenti e pozioni urlando promesse di guarigione”. Gli amuleti abbondano: mani di corallo, occhi di vetro, falli in miniatura, ghiande d’argento da appendere al collo dei neonati per scacciare il malocchio; in casi più gravi si consultano maghi stranieri, specializzati in incantesimi di protezione, filtri d’amore e maledizioni scritte su lamine di piombo che vengono poi seppellite nei cimiteri per allontanare il male.

I rimedi usati dai ciarlatani romani sono un catalogo incredibile di bizzarrie: impacchi di sterco fresco mischiato al vino per le infezioni cutanee, impiastri a base di ceneri di topi arrostiti contro la calvizie, somministrazione di urina umana per depurare lo stomaco e placare le infiammazioni più ostinate. La bile di vipera veniva consigliata come rimedio portentoso per le affezioni oculari, mentre le ferite si cospargevano con miele e polvere di ossa carbonizzate. L’uso del latte d’asina era visto come panacea per febbri e convalescenza, e la saliva di cane, raccolta e spalmata sulle piaghe, era venduta come efficace cura anti-infiammatoria.

Nelle farmacie dell’epoca, il termine pharmakon abbracciava senza distinzione farmaci, veleni e amuleti. Numerose preparazioni mescolavano ingredienti animali, vegetali e minerali: infusi di aglio contro i dolori, roietto (papavero selvatico) e mandragora come anestetici durante gli interventi chirurgici, grasso d’oca per i disturbi uterini, carne e interiora di animali vari per curare ogni male noto. Plinio il Vecchio, nella sua “Historia Naturalis”, suggerisce il consumo di broccoli crudi prima dei banchetti per proteggere lo stomaco, e narra dell’abitudine diffusa tra le matrone di usare infusi di alloro, camomilla e calendula sia come rimedio per molti disturbi che come prodotti di bellezza.

Accanto a queste pratiche più o meno accettate, prosperava la magia come risorsa estrema e misteriosa. I Papiri Magici Greci conservano decine di formule, in latino e in greco, rivolte sia alla guarigione sia all’autodifesa magica. Alcuni suggeriscono di raccogliere erbe “al levare della luna nuova” e di pronunciare invocazioni a Ecate o a Ermes per ottenere la remissione dei sintomi. Non erano rari i rituali di trasmigrazione del male: una malattia ostinata veniva “trasferita” a un oggetto, una statuina o persino a un animale sacrificato. In altri casi si seppellivano tavolette magiche presso le tombe sperando di sigillare con esse la mala sorte.

In questa atmosfera di eterna incertezza, nemmeno il più colto dei medici poteva sempre permettersi di snobbare del tutto la superstizione. Galeno, autore universalmente celebrato, afferma che spesso si era costretti, per non perdere la fiducia dei malati, ad associare alle cure razionali il ricorso ad amuleti o formule ereditate dalla tradizione popolare. La suggestione psicologica, per quanto incompresa, trovava così pieno utilizzo in un contesto dove la fiducia nel mistero spesso superava quella nella scienza.

Quanto alla chirurgia, Pompei e Ercolano hanno restituito strumenti straordinari: bisturi a doppio taglio, scalpelli, aghi, trapani e persino dispositivi destinati alla riduzione dei traumi cranici, come il meningofilo, studiato per limitare i rischi di danno cerebrale. Ma la componente magica non era mai totalmente esclusa: alla vigilia di un’operazione, si bruciavano incensi, si gettavano preghiere alle divinità e si recitavano parole rituali perché i ferri “non mordessero la carne”.

Più singolari ancora sono i rimedi per le malattie mentali o gli “spiriti ossessivi”: si prescrivono inalazioni di fumi prodotti dalla combustione di ingredienti esotici, bagni in acqua consacrata, ingestione di polvere di ossa di civetta, o l’uso di “parole di potere” scritte su minuscole lamine d’oro da maghi orientali. Alcune fonti raccontano che per sconfiggere l’epilessia si faceva bere al malato il sangue caldo di un gladiatore appena caduto nell’arena, convinti che l’anima del forte, trasferita attraverso il sangue, potesse scacciare il demone del male.

Non erano immuni da superstizione neanche i prodotti tradizionali: gran parte delle cure domestiche erano accompagnate da esorcismi e scongiuri. Le donne mescolavano composti di erbe e recitavano silenziose preghiere alle divinità della notte affinché la febbre abbandonasse il corpo dei bambini. Gli uomini più prudenti costruivano amuleti con pigne di pino, noci, semi d’origano o denti di lupo, appesi al collo per respingere la sfortuna. L’antica credenza che “il simile guarisca il simile” portava ad assumere polvere di corno di cervo contro i dolori alle ossa, o a portare addosso frammenti di pietre color sangue per placare le emorragie.

In tutto l’impero, la figura più temuta e rispettata era però quella del mago, spesso straniero o proveniente dalle province orientali del Mediterraneo. I maghi erano esperti non solo in incantesimi di guarigione, ma anche in filtri d’amore e maledizioni: gli imperatori stessi, come Augusto e Nerone, consultavano astrologi e aruspici per difendere la salute e prevenire ogni rischio di avvelenamento. Quando una cura falliva, la ricerca del colpevole si trasformava in caccia alle streghe o ai maghi “malevoli”—un tema ricorrente nella satira di Giovenale.

L’economia del prodigio e del mistero permeava anche l’attività quotidiana dei medici più famosi: Dioscoride, nel suo trattato di botanicoterapia, documenta l’impiego di ogni possibile fonte vegetale per la cura delle infermità. Plinio, invece, racconta di ricette raccolte in Persia, Egitto, Gallia e nelle province africane, acclimatando a Roma radici, estratti e unguenti esotici di ogni genere. L’incontro e lo scontro tra saperi produce così una stratificazione affascinante, dove nessuno sa veramente distinguere—né nei vicoli né fra i colonnati del foro—il limite tra la cura e l’incantesimo.

Il popolo romano, nella sua intramontabile capacità di adattamento, accoglie tutto ciò che promette guarigione: un amuleto contro la malaria, una pozione per l’impotenza, una polvere trasportata da lontano per le convulsioni infantili. Eppure, la medicina vera cerca sempre di farsi largo: la costruzione delle terme, degli acquedotti e delle latrine pubbliche mostra una crescente attenzione per l’igiene e la prevenzione, mentre i medici di scuola greca introdurranno ben presto la visita medica, il polso, la dieta controllata e le prime, rudimentali, statistiche cliniche.

Nonostante ciò, i ciarlatani continueranno a trionfare soprattutto perché sanno offrire consolazione e speranza, anche laddove la scienza tace. Si cammina così, tra le macerie di Pompei o sui colli di Roma, sospesi fra la possibilità della guarigione e l’incubo della menzogna, osservando uno scenario che non smette mai di sorprendere chi ancora oggi si chiede dove finisca la cura e dove cominci la magia.

La storia dei rimedi più assurdi nella Roma imperiale è dunque la storia della fragile divinità che abita ogni uomo: la fede in qualcosa che possa salvare, perché nulla è più urgente del tentativo di sfuggire alla morte. Tra il bisturi affilato di un medico, il sortilegio sussurrato dal mago e la vendita ingannevole del ciarlatano, si specchia la faticosa crescita della conoscenza umana, mai immune dalla seduzione dell’enigma.

Oggi, chi varca le soglie delle antiche rovine rischia ancora di udire, portato dal vento tra le pietre, il mormorio di una formula magica o la voce rauca di un venditore di filtri. Perché nel desiderio di guarire, Roma non fu mai del tutto diversa da noi.

Fonti antiche utilizzate:

  • Aulo Cornelio Celso, “De Medicina” (tr. ufficiale inglese)
  • Plinio il Vecchio, “Historia Naturalis” (tr. ufficiale inglese)
  • Papiri Magici Greci, traduzione inglese a cura di Hans Dieter Betz
  • Catone il Vecchio, “De Agri Cultura” (tr. inglese)
  • Ovidio, “Fasti” e “Metamorfosi” (tr. inglese)
  • Seneca, Lettere e Satire (tr. inglese)
  • Giovenale, Satire (tr. inglese)
  • Dioscoride, “De Materia Medica” (tr. inglese)
  • Columella, “De Re Rustica” (tr. inglese)
  • Apuleio, “Apologia” (tr. inglese)