CROLLO TORRE DEI CONTI. CARANDINI: “EVIDENTE INCOMPETENZA TECNICA”

Largo Corrado Ricci, Roma. La mattina del 3 novembre 2025 è stata segnata da un boato che ha riportato la tragedia e il dolore nel cuore archeologico di Roma, tra i Fori Imperiali e Via Cavour. Una porzione della storica Torre dei Conti, simbolo del Medioevo capitolino, è collassata durante i lavori di restauro. Il cedimento è avvenuto in due fasi: prima una porzione esterna e, novanta minuti più tardi, un cedimento interno. Sotto i detriti della struttura medievale è rimasto intrappolato per ore Octay Stroici, un operaio di 66 anni di origine romena, che purtroppo è deceduto in ospedale, riaprendo tragicamente il dibattito sulla sicurezza nei cantieri e sulla tutela del patrimonio.

Di fronte a un danno culturale così profondo, le reazioni degli esperti non si sono fatte attendere, e la voce dell’archeologo Andrea Carandini si è levata con particolare risonanza e asprezza. Carandini, riconosciuto come uno degli studiosi più autorevoli e profondo conoscitore di Roma, con un trentennio di scavi sul Palatino alle spalle, ha espresso immediatamente un giudizio severissimo sulla gestione del cantiere.

L’accusa principale lanciata dall’ex presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e già presidente del FAI è stata inequivocabile: sono evidenti i segni di una incompetenza tecnica. Carandini ha definito il crollo “impensabile” e lo ha paragonato a quello che potrebbe essere causato da un sisma. Ciò che risulta ingiustificabile, a suo dire, è che in un’epoca moderna in cui si hanno a disposizione le soluzioni tecnologicamente più avanzate e sicure per gli interventi strutturali sul patrimonio culturale, si verifichi un collasso di questa portata.

Una delle mancanze cruciali individuate dall’archeologo riguarda la gestione delle competenze e delle professionalità in campo. A suo avviso, è mancata in modo evidente la presenza di un adeguato ingegnere strutturista, specialmente considerando che si trattava di un delicatissimo manufatto risalente al IX secolo, sebbene ampliato nel 1203 da Papa Innocenzo III. La Torre dei Conti, in passato definita da Petrarca “Turris illa toto orbe unica” per la sua imponenza, era un monumento già indebolito nel tempo da terremoti e incuria (dal 1349 al 1620 era rimasta inabitabile) e richiedeva la massima attenzione.

L’intervento in corso era finanziato con i fondi del PNRR, un progetto da 6,9 milioni di euro che mirava a trasformare la Torre in un centro culturale e spazio museale, dopo che l’edificio era rimasto inagibile e abbandonato dal 2007. Tuttavia, per Carandini, il metodo scelto per valorizzare il bene, che ha portato al suo parziale collasso, ha causato un danno culturale enorme. L’archeologo sostiene che su un bene così fragile si sarebbe dovuto procedere con interventi minimi. L’eccesso di intervento in cantiere avrebbe avuto un effetto devastante, come in certe operazioni di chirurgia estetica che lasciano il paziente irriconoscibile. Egli esprime l’orrore per il rischio che i lavori affrettati, forse spinti dalla necessità di spendere i finanziamenti, abbiano portato a tale disastro.

Le critiche di Carandini non si limitano agli aspetti tecnici del cantiere, ma si estendono alla complessa e disordinata gestione del patrimonio nella capitale. A Roma, le competenze sulla tutela sono divise in modo confuso. Vi è la Sovrintendenza comunale (con la ‘v’) che si occupa, ad esempio, della Torre dei Conti e dei Fori Imperiali, e le realtà statali, come la Soprintendenza (con la ‘p’) Speciale per Roma Capitale e il Parco Archeologico del Colosseo e dei Fori, che gestiscono altri monumenti centrali.

Questa frammentazione, secondo l’archeologo, ha contribuito a creare una grande incapacità e una mancanza di visione contestuale. Per questo, Carandini ritiene che sia giunto il momento di ricondurre la tutela del patrimonio archeologico di Roma sotto il controllo esclusivo dello Stato centrale, eliminando l’eccezione della Sovrintendenza comunale, che, a suo dire, è rimasta un rifugio di tradizionalisti con una visione storico-artistica e non contestuale dell’archeologia. L’archeologo ha inoltre criticato aspramente la tendenza, emersa nel dibattito, di dare la colpa agli antichi per non aver saputo costruire bene opere che sono durate millenni, quando, a suo dire, la responsabilità del crollo è chiaramente da attribuire a chi ha gestito gli interventi recenti. Stabilire le responsabilità è, dunque, necessario e doveroso. Questo tragico evento rappresenta un momento di riflessione cruciale sulla fragilità del patrimonio storico romano, sollecitando un riesame delle procedure di sicurezza e della governance della tutela nella Città Eterna.