Nella regione caucasica della Georgia, la grotta di Dzudzuana rivela nuove testimonianze sulla sofisticata relazione tra Homo sapiens e le piante, risalente a circa 34.000 anni fa. È qui che un’équipe internazionale guidata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia ha identificato tracce di indigotina, un composto colorante blu, su strumenti litici paleolitici. Questa sostanza, prodotta dalle foglie di Isatis tinctoria, meglio nota come guado, rappresenta il primo ritrovamento del genere su reperti così antichi e testimonia una sorprendente padronanza nella trasformazione delle risorse vegetali tra i nostri antenati.
Lo studio, pubblicato su una rivista scientifica, getta nuova luce sulle pratiche quotidiane delle popolazioni del Paleolitico superiore: le piante non erano considerate semplicemente risorse alimentari, ma venivano lavorate in modo complesso per ricavarne sostanze utili e funzionali alla vita di comunità. La guado, da sempre utilizzata sia come colorante sia con finalità terapeutiche, offre qui la prova tangibile di una consapevolezza avanzata sulle proprietà delle specie vegetali presenti nel territorio.
Le analisi delle pietre sono state condotte presso il Museo Nazionale Georgiano a Tbilisi da Laura Longo, archeologa di Ca’ Foscari, insieme alla scienziata Elena Badetti, e hanno richiesto un protocollo rigoroso di campionamento, seguito da Ana Tetruashvili dell’Università Europea di Tbilisi. I reperti archeologici provenivano da uno strato della grotta datato attorno ai 34.000 anni fa, scavato e studiato dal team internazionale diretto da Ofer Bar-Yosef (Harvard), Tengiz Meshveliani, Nino Jakeli e Anna Belfer-Cohen.
I primi esami si sono concentrati sulle tracce di usura degli utensili, rivelando una lavorazione meccanica di materiali soffici e umidi, probabilmente foglie. Con tecniche di microscopia ottica e confocale, sono stati scoperti inattesi residui blu, talvolta anche di natura fibrosa, spesso accompagnati da granuli di amido. Tali tracce sono localizzate proprio nelle aree degli utensili che mostrano maggiore deterioramento, sintomo di un uso intenso durante la lavorazione.
Per identificare la natura chimica dei residui blu, i ricercatori hanno impiegato la spettroscopia Raman e la spettroscopia infrarossa FTIR presso l’Università di Padova, sfruttando le infrastrutture del centro di ricerca per i beni culturali CIBA. Gli strumenti hanno confermato la presenza della molecola di indigotina, cromoforo responsabile della colorazione blu, concretizzando l’ipotesi che le popolazioni di Dzudzuana sapessero estrarre e manipolare la guado già decine di migliaia di anni fa.
Ma come si sono conservati questi residui sulla superficie degli strumenti? Gli studiosi hanno indagato la porosità delle pietre, individuando volumi capaci di trattenere minuscole tracce biogeniche. Utilizzando la radiazione di sincrotrone presso Elettra Sincrotrone Trieste, i ricercatori hanno sottoposto a microtomografia campioni archeologici e repliche moderne, confermando che la struttura porosa dei ciottoli poteva custodire i pigmenti per millenni.
Per approfondire le modalità di lavorazione, il team ha eseguito una serie di esperimenti replicativi: sono stati raccolti ciottoli simili da un fiume vicino alla grotta e, nelle estati successive durante la stagione di raccolta del guado, sono state riprodotte le tecniche di lavorazione delle piante presso Corte Badin di Marano di Valpolicella, grazie alla collaborazione con Giorgio Bonazzi. Attraverso questi esperimenti controllati, gli scienziati hanno costruito una collezione di riferimenti che ha permesso di riconoscere con sicurezza le tracce di usura e i residui vegetali rinvenuti sugli strumenti della grotta georgiana.
L’importanza della scoperta va ben oltre la mera identificazione chimica di un pigmento preistorico. Essa apre nuove prospettive sulla cultura materiale e la conoscenza botanica dei gruppi umani paleolitici, evidenziando come la trasformazione delle risorse vegetali fosse già parte integrante delle pratiche quotidiane. La presenza del guado e della sua indigotina su utensili litici suggerisce lavorazioni finalizzate alla colorazione di materiali e probabilmente anche usi medicamentosi, già attestate in epoche storiche successive.
La ricerca invita a ripensare il rapporto tra i primi Sapiens e l’ambiente, delineando una comunità capace di sfruttare in modo mirato le piante non solo per la sopravvivenza alimentare, ma per rispondere a esigenze simboliche, tecniche e curative. Lo studio sottolinea la necessità di integrare l’analisi dei residui vegetali nell’indagine archeologica, per cogliere la piena complessità delle scelte, delle conoscenze e delle pratiche sviluppate dai primi esseri umani. La grotta di Dzudzuana, con il suo patrimonio di strumenti colorati dal guado, aggiunge un nuovo tassello alla ricostruzione della storia evolutiva e culturale delle comunità paleolitiche, suggerendo un mondo sorprendentemente ricco di possibilità e innovazioni.