Gli acquedotti romani. Struttura e funzionamento

Gli acquedotti erano la prima impronta di civiltà che Roma lasciava ogni qualvolta raggiungeva un nuovo territorio e probabilmente la struttura che più facilmente ricordiamo quando pensiamo alla loro civiltà.

Nel Medioevo esisteva addirittura una leggenda: i viandanti erano convinti che delle costruzioni così maestose e complesse non potessero derivare dall’intervento umano e, a metà fra storia e superstizione, andavano dicendo che erano stati dei “giganti”.

Ancora oggi, sorvolando con l’elicottero alcune delle terre che appartenevano all’Impero Romano possiamo osservare con ammirazione ciò che rimane di queste costruzioni.

Vediamo insieme come veniva ideato, progettato, costruito e mantenuto un acquedotto romano.

La scelta della sorgente

costruzione acquedotto romano

Il primo passo da affrontare era quello della scelta della sorgente. I romani compivano tutta una serie di ricerche, di assaggi e di sperimentazioni, per individuare una fonte idrica e una sorgente che fossero adatte.

Quando trovavano una fonte che sembrava essere perfetta, perché posizionata più in alto rispetto alla città che doveva rifornire, la mettevano sotto esame per verificarne la qualità.

Uno dei primi passi era lo studio dello stato di salute delle persone che già avevano consumato quell’acqua. E, sebbene avessero delle strumentazioni scientifiche molto limitate, raccoglievano dei campioni e cercavano di capire il sapore dell’acqua assaggiandola più volte nel corso del tempo, così da basare la loro costruzione su una sorgente che fosse quanto più sana e sicura.

Il calcolo della pendenza

Il secondo passo che i romani affrontavano per costruire l’acquedotto una volta trovata la fonte era il calcolo della pendenza.

Ovviamente non disponevano di strumenti come le pompe idrauliche in grado di tirare l’acqua attraverso una serie di meccanismi: potevano solamente sfruttare la forza di gravità, e per farlo dovevano creare la pendenza corretta.

Per questo motivo la fonte doveva essere posizionata più in alto rispetto alla sua destinazione: il calcolo della pendenza rappresentava la base di tutto il progetto. La conduttura d’acqua, per essere ideale, doveva avere una pendenza media del 2 per mille.

Per misurare questo valore, i costruttori romani utilizzavano sostanzialmente due strumenti: il primo è il chorobates, una piccola costruzione di legno con dei pesi di piombo che permetteva di calcolare la pendenza del luogo in cui ci si trovava.

Grazie a questo strumento i romani riuscivano a prendere delle prime misure molto efficienti e abbastanza precise.

Il secondo utilizzato era la dioptra, una creazione greca che tramite un gioco di angoli permetteva di calcolare l’angolazione dell’acquedotto sia prima della costruzione sia durante la costruzione per verificare che la pendenza fosse quella che era stata decisa fin dall’inizio.

La depurazione dell’acqua

Una volta scelta la sorgente giusta e calcolata la pendenza, l’acqua teoricamente poteva raggiungere la città. Il punto era far sì che arrivasse al centro abitato il più possibile pulita: i romani utilizzavano due metodi molto validi a tale scopo.

Il primo passava attraverso la progettazione delle vasche di sedimentazione. Si trattava di alcune vasche distribuite lungo il percorso dell’acquedotto: alcune erano poste immediatamente dopo la fonte, altre a intervalli distanziati nel corso dell’intero tragitto.

Erano pensate per radunare l’acqua durante il percorso e farla ristagnare temporaneamente, in modo tale che sul fondo di questi “recipienti” si depositassero foglie, materiale limaccioso, fango e polvere. In questo modo si riusciva a depurare l’acqua dai sedimenti più pericolosi ed inquinanti.

Il secondo metodo per ottenere un’acqua pulita si basava sulla protezione delle condutture dalle intemperie: in un acquedotto, sia la parte sotterranea che quella esposta alla luce venivano ricoperte da una serie di materiali naturali che non rilasciavano sostanze, ma che impedivano a foglie, pioggia e qualsiasi altra sostanza esterna di penetrare nell’acqua durante il suo percorso.

In questo modo era possibile per i romani garantire una sufficiente e accettabile purezza dell’acqua.

Il superamento di colline e valli

Il percorso dell’acqua doveva affrontare due ostacoli principali: le colline e, al contrario, le valli.

Nel primo caso si provvedeva semplicemente a scavare attraverso le colline, nel rispetto dell’ambiente e senza bloccare o creare del danno al territorio e agli abitanti circostanti.

A seconda della morfologia del territorio si potevano incontrare anche delle valli molto profonde e in quel caso vi era il bisogno di costruire delle strutture di sostegno per colmare il vuoto e mantenere la pendenza calcolata delle tubature.

Fu per questa ragione che i romani misero a punto le costruzioni basate sugli archi: una struttura facile da realizzare, resistente e capace di distribuire egregiamente il peso.

Ovviamente la costruzione doveva essere solida. A volte non era possibile costruire una sola fila di archi, perchè ogni arco sarebbe stato troppo grande, e allora si creava una fila di archi più grandi e al di sopra una seconda fila di archi più piccoli per mantenere una certa robustezza.

La tecnica del sifone invertito

sistema del sifone invertito

Il sifone invertito rappresenta senza dubbio il top dell’ingegneria romana.

Per quanto i costruttori cercassero d’individuare dei territori che fossero predisposti per la costruzione degli acquedotti, ogni tanto si imbattevano in valli così profonde e così impervie che era impossibile pensare di ovviare al problema con la costruzione di un numero sproporzionato di archi.

In queste situazioni limite, i romani sfruttavano il principio dei vasi comunicanti e usavano la tecnica del sifone invertito (diverso da quello moderno): l’acqua veniva fatta raccogliere in una enorme e apposita vasca adibita a tale scopo per accumulare peso.

Nel momento in cui il peso veniva accumulato a sufficienza, l’acqua cadeva per gravità e con una determinata forza lungo una tubatura che si appoggiava a degli archi che attraversavano il centro della valle.

Con la sola “rincorsa”, l’acqua era in grado di risalire contro la forza di gravità dal lato opposto e raggiungere la sua destinazione, ovvero una vasca posizionata al lato opposto, leggermente più in basso della prima.

L’acqua, una volta arrivata a destinazione, finiva nella vasca di distribuzione dove eventuali sedimenti si depositavano sul fondo per un’ultima fase di purificazione, dopodiché il sistema distribuiva il fluido nella città.

In questo modo, gran parte dei cittadini potevano accedere costantemente a una fonte continua di acqua pulita e controllata, anche grazie a dei pozzetti di ispezione che consentivano di verificare lo stato della struttura in ogni momento.

Si calcola che Roma, alla fine del III secolo, avesse 11 acquedotti funzionanti. E la portata d’acqua degli acquedotti di Roma, fu superata solo da quello di New York, nel 1926.